29 Set La scrittura di esperienza. Una mineralogia del pensiero
di Lea Melandri
Il desiderio di scrittura può nascere per contagio: frequentazione, lettura, intrattenimento con altre scritture che lo muovono e che diventano modello, scuola di formazione. È il modo più frequente ma anche quello che finisce facilmente per rientrare nei generi noti: l’ispirazione letteraria e i linguaggi specialistici, disciplinari.
Un altro percorso, meno visibile, è quello che parte da sommovimenti interni -pensieri, emozioni, sentimenti- che, nel tentativo di arrivare alla parola, trovano proprio nei linguaggi già dati della cultura una barriera.
La mia esperienza appartiene a questo secondo tipo, legato al desiderio di conoscenza di sé, esplorazione di zone rimosse, accantonate, del pensiero e del sentire del singolo, anche se quasi sempre le più universalmente condivise: come l’amore, la nascita, l’invecchiamento, la malattia, la morte. La scrittura diventa allora il viaggio o il “sentiero” (Franco Rella) che si spinge verso zone di frontiera tra corpo e mente, inconscio e coscienza, sogno e realtà. Ma anche il luogo dove tutti i dualismi possono essere mostrati, descritti, esplorati a fondo attraverso la ricerca di nessi, legami che ci sono sempre stati tra poli costruiti artificialmente come opposti e complementari, e che possono, modificandosi, dare luogo a forme più libere e più creative nell’agire e nell’esprimersi.
Quella che in più occasioni ho definito “scrittura di esperienza” interroga innanzi tutto il pensiero, il suo radicamento nella memoria del corpo, nelle sedimentazioni profonde che hanno dato forma inconsapevolmente al nostro sentire. In quelle zone remote e “innominabili” , la storia particolarissima di ogni individuo incontra comportamenti umani che sembrano eterni, immodificabili, uguali sotto ogni cielo: passioni elementari, sogni, costruzioni immaginarie, rappresentazioni del mondo, riconoscibili in ogni spazio e tempo. Tra queste, vanno a collocarsi le figure del maschile e del femminile, che il corso della storia ha modificato, ma non tanto da cancellare i tratti della vicenda originaria che ha dato loro volti innegabilmente duraturi.
A differenza dell’autobiografia, che lavora sui ricordi, sulla loro messa in forma all’interno di una narrazione, di un senso compiuto, la scrittura che vuole spingersi “ai confini del corpo”, in prossimità delle zone più nascoste alla coscienza, si affida a frammenti, schegge di pensiero, emozioni, che compaiono proprio quando si opera una dispersione del senso. Si tratta di far luce su un terreno di esperienza che resta generalmente confinato in una “naturalità” astorica.
È quello che Franco Rella chiama l’“impresentabile della vita” (F.Rella, Dall’esilio, Feltrinelli 2004), e che potremmo anche chiamare le “viscere della storia”, di cui si vedono oggi i riflessi deformati, banalizzati, nell’industria dello spettacolo, nella pubblicità, nel populismo, nel razzismo, ma su cui sembra difficile produrre cultura e cambiamenti. La scrittura che tenta di portare alla luce il “mare ribollente delle cose non dette” non è, come qualcuno potrebbe pensare, un “genere”, nonostante l’evidente parentela con la diaristica, le lettere, l’autobiografia. Non prevede tecniche né codici particolari. Nel medesimo tempo, si può dire che attraversa tutti i “generi”, producendo dislocazioni, modificazioni del linguaggio, nuove costellazioni di senso.
Gli “antecedenti” di quella che appare, prima ancora che una scrittura, una disposizione del pensiero, appartengono per un verso alla mia storia personale, e per l’altro, alla storia dei movimenti degli anni ’70: il movimento antiautoritario nella scuola, la rivista “L’erba voglio” (1971-1977), e il femminismo. Dal corso di studi liceali e dall’università sono uscita con la consapevolezza che gran parte della mia vita –legata all’origine contadina, alle inquietudini di adolescente scampata al destino dei suoi parenti e al ruolo tradizionale femminile- fosse rimasta fuori dalle aule scolastiche, o “fuori tema”, come venivano a volte giudicati i miei scritti, ritenuti, per altro invece formalmente lodevoli. L’incontro, a Milano, dopo la fuga dalla provincia e proprio quando mi accingevo ad assumere il “ruolo” di insegnante, con la “pratica non autoritaria” e col movimento delle donne, è stata una specie di rivoluzione copernicana: corpo, sessualità, relazioni parentali, vita affettiva, considerati materia “intima”, privata, e come tale estranea ai saperi, ai linguaggi colti, così come alle grandi questioni della politica, acquistavano un’inedita cittadinanza e legittimità. Il “fuori tema” diventava il tema. L’esperienza più “impresentabile” , dissepolta e restituita alla parola, allo sguardo di una collettività attenta, veniva a occupare un posto di primo piano in quella “narrazione di sé” che è stata l’ “autocoscienza”, pratica politica anomala, originale, del femminismo: un “fare e disfare”, una rilettura della storia personale fatta di andirivieni, sogno e lucidità di analisi, sostenuta o contraddetta dall’attenzione di altre donne, un guardare e essere guardate nei risvolti più profondi, spesso inconsapevoli, di una “rappresentazione del mondo aprioristicamente ammessa” (Sibilla Aleramo).
Era un narrarsi particolarissimo, affidato prima alla parola e solo in un secondo tempo, quando ci si rese conto dei mascheramenti che essa opera, dei non-detti che contiene, alla scrittura. La parola scritta appariva come un terreno più solido: un reperto di memoria ibrido, come le stratificazioni rocciose, innesto di elementi diversi, scomponibili; una costruzione che si può guardare alle spalle, negli anfratti, che vela e lascia filtrare allo stesso tempo. La scrittura consente in effetti una grande varietà di movimenti: si può entrarvi e uscirne, aderirvi fino al ricalco o, al contrario, scostarsi e produrre un solco che ce ne separi. Si lascia manipolare, sezionare, ridurre a frammenti esilissimi, senza che si debba temere di vederla sparire, diventare solo respiro. È capace di accogliere la solitudine del singolo, il chiuso di una stanza, ma anche la relazione con gli altri e col mondo, il narrare e il riflettere.
All’inizio degli anni ’80, il campo di osservazione si allarga e si approfondisce, in coincidenza con una lunga analisi. Vengo colta con mia sorpresa da una scrittura per me insolita, fatta di frasi brevi, frammenti segnati da un sottofondo emotivo, legato a vicende della vita personale. Sono dello stesso periodo, forse non a caso, la scoperta di Sibilla Aleramo ( di quella che io chiamerei una singolare autoanalisi più che l’autobiografia di “una donna”), le rubriche di posta del cuore e di scritture del privato sul settimanale Ragazza In (1981-1983) e su Noi donne (1990-1993). Un rilievo particolare assumono anche le scritture che nascono all’interno dei corsi delle donne, emanazione dei “corsi 150 ore”, in cui già insegnavo dal 1976. È il momento in cui mi si fa più evidente la parentela tra scritture considerate di scarto -lettere, diari, note sparse- e scritture colte, tra il sentimentalismo attribuito alle donne e uno dei miti più duraturi del pensiero maschile: l’ideale androgino, la “mente creativa” di cui parla virginia Woolf in Una stanza tutta per sé.
L’Aleramo definisce la sua opera “un furore di autocreazione incessante”, “una somma enorme di vita”. L’esperienza messa la centro è il “sogno d’amore”, l’eterna illusione di “fare di due uno”: fondere due esseri diversi in un unico essere armonioso. Alla scrittura viene chiesto di mettere in scena l’andirivieni di “estasi” e “gelo”, ma anche il “lucido sguardo” che lo analizza e che costruisce via via la “mesta libertà” della donna che ha trovato “il fastidioso obbligo di vivere per sé”. Si tratta, nel caso dell’Aleramo, di una scrittura autoanalitica, di un percorso di svelamento, riguardante sia la vita che la scrittura stessa. Nel primo caso si decanta il sogno fusionale, l’unità a due degli amanti, nel secondo l’immagine androgina (“armonia degli opposti”) che sta dietro alla poesia e a ogni creazione artistica. Quando si accorge di non riuscire più a “poetare”, Sibilla scrive:
“Questa mia sotterranea, seconda vita…Questa corrente tacita di pensieri e di sentimenti…è questa che lui vorrebbe io traducessi in poesia, violentandomi, disumanandomi, forse uccidendomi? Questo lui fa sopra di sé, ma lui è uomo e non ne muore…” (Sibilla Aleramo, Un amore insolito, Feltrinelli 1979).
A raccogliere questo “flusso irrefrenabile di vita”, che resiste a lasciarsi “consumare” dalla “mente incandescente” della poesia, sarà il Diario, un genere noto, ma a cui Sibilla darà un’impronta del tutto originale facendone il luogo della rilettura e dello svelamento, la narrazione e l’analisi di sé attraverso cui si compie l’originale cammino di una coscienza femminile anticipatrice.
Mi sembra importante dire che tutte queste scritture –dall’Aleramo a Michelstaedter, Nietszche, Freud, che compaiono nel mio libro Come nasce il sogno d’amore (Rizzoli 1988, Bollati Boringhieri 2002)- non sono state trattate come materiale di studio. Le ho accostate con un procedimento che chiamerei di riscrittura: pedinare il testo, ricalcarlo, lasciarsi sedurre dalle parole dell’altro, fondersi o confondersi con esso, e poi scostarsi quel tanto che permette di poterlo mostrare, decantare, scoprirne il senso nascosto, il non-detto. Di nuovo sogno e lucidità, in un avvolgimento difficile da districare, un’autoanalisi fatta attraverso degli alter-ego, voci, volti, metafore che ci portiamo dentro, in quel paesaggio primordiale che è la “memoria del corpo”, sempre pronto a sprofondare nel mistero e nell’indicibile.
L’abitudine a scavare dentro i testi, a scomporli in frammenti, a ricalcarne le orme fino a perdersi, per poi aprire un solco e rileggere sé e l’altro con un’autonomia prima sconosciuta, è la lezione più originale e duratura del femminismo e delle sue “pratiche”: autocoscienza e pratica dell’inconscio.
La consapevolezza dei molti volti con cui la donna è stata identificata, non poteva che esprimersi come attraversamento di una “rappresentazione del mondo aprioristicamente ammessa e poi compresa per virtù di analisi”, un processo lento, come la tela di Penelope, per districarsi da una foresta di simboli, maschere, amate e odiate, divenute, malgrado tutto, via obbligata di sopravvivenza. Con un movimento opposto a quello dell’autobiografia, preoccupata di comporre la frammentarietà in un tutto omogeneo, la rilettura/riscrittura cerca nella dispersione del sensola strada per avvicinarsi a una percezione più reale di sé.
“Dentro di me sento aprirsi sconnessure e temo perdermi in brandelli prima d’aver capito la nuova trama del mio essere eppure in fondo in fondo un senso di libertà un’eccitazione di essere pronta sul limite di un continente che finalmente potrò esplorare senza paura e se paura avrò sarò pronta a non mentirmi ad affrontare anche la verità di quel femminile misterioso oscuro come una caverna buia da cui non sai se tornerai…” (Agnese Seranis, Io, la strada e la luce di luna, Edizioni del Leone, Spinea, Venezia 1988).
Il femminismo degli anni ’70, la pratica collettiva del “narrarsi”, è come se avessero frantumato lo specchio in cui qualcuna aveva sperato di vedersi a tutto tondo. Per la costruzione di un sé più autonomo da modelli interiorizzati era necessario lo sguardo di altre donne, la disponibilità a interrogare la trama profonda del proprio essere, a riconoscere i molti volti e voci che ci abitano.
Ma si può “scrivere “ il corpo, le sue passioni, le sue ombre, le sue ferite, il suo lato impresentabile, l’orrore e il piacere che lo attraversano? L’avvicinamento a un’ “area di frontiera”, ancora in parte inesplorata comincia nel momento in cui prendiamo coscienza di quanto la storia, i linguaggi, i saperi correnti, siano incapaci di attingere a un sentire più autentico. Le parole ci sembrano sempre più usurate, mute nei loro risvolti interni. È come se fosse necessario “forare” incrostazioni di superficie, mettere in atto quella che Asor Rosa chiama una “mineralogia del pensiero”, costruire canali sotterranei, riallacciare percorsi nascosti, “imparare un’altra lingua”.
Questa è, per certi aspetti, la finalità di una “scrittura di esperienza”: imparare la lingua ibrida del mondo interno, sfatarlo dei suoi miti, scoraggiarne il silenzio, riconoscere i “tesori di cultura” che nasconde, dare un nome alle “cose che non siamo stati ancora capaci di nominare”. E sono ancora tante.
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