09 Ott Clarice Lispector: Il lampadario
di Ivana Margarese
Un vago impulso di grido o pianto, qualcosa di mortale
che gli apriva nel petto una falla violenta che forse era una rinascita.
Clarice Lispector, Il lampadario
“Per tutta la vita lei sarebbe stata fluida”.
Con questa promessa si apre il secondo tra i romanzi scritti da Clarice Lispector, Il lampadario (1946), pubblicato quest’anno in Italia da Adelphi con la traduzione di Virginia Caporali e Roberto Francavilla.
Il testo ci introduce nel mondo della piccola Virginia e nella casa di Granja Quieta, in cui abita con i genitori e i fratelli maggiori, Esmeralda e Daniel. Sin da subito il lettore viene a conoscenza del fatto che tra i familiari esiste un segreto, ma è come se non si riuscisse a metterlo a fuoco. Il segreto resta non svelato anche per lui:
“Neanche Virgínia aveva mai cercato di saperne qualcosa; avrebbe potuto vivere con un segreto non svelato fra le mani senza alcuna ansia, come se quella fosse la vera vita delle cose”.
Altro elemento sfuggente è il titolo. Il poeta Lúcio Cardoso e la sorella Tania consigliarono alla scrittrice di cambiarlo, giudicandolo troppo povero. La risposta fu senza appello: “Il titolo resta anche se ha ragione. Non c’è niente di buono. Il mio problema è che ho solo difetti, quindi se tolgo i difetti non rimane quasi nulla, se non una rivista per adolescenti” (v. Benjamin Moser, Why This World: A Biography of Clarice Lispector, Oxford University Press 2009, p. 149).
Il lampadario compare sulla scena già dalle prime pagine del romanzo:
“Il lampadario, però! C’era il lampadario. Il grande ragno avvampava. Lo guardava immobile, inquieta, sembrava presagire una vita tremenda. Quell’esistenza di ghiaccio. Una volta! una volta a uno sguardo – il lampadario si spargeva in crisantemi e allegria. Un’altra volta – mentre lei attraversava la sala di corsa – era una casta semente. Il lampadario. Usciva saltellando senza guardarsi indietro”.
Virginia nel suo minuzioso osservare gli oggetti e animarli e nel suo sentire all’unisono con forme animali e vegetali manifesta una capacità visionaria, un “talento dei mondi possibili” che ricorda fortemente l’immaginario surrealista, originale, penetrante e al contempo distaccato dal reale, come se ci trovassimo in un’opera di Leonora Carrington:
“Sapeva anche imitare il verso degli animali, a volte di animali che non esistevano ma avrebbero potuto esistere. Erano voci nascoste, rotonde nella gola, ululate, oltraggiate e piccolissime. Sapeva anche emettere richiami acuti e dolci come di animali sperduti. Ma all’improvviso le cose precipitavano in una realtà solida”.
E ancora:
“La stanza fluttuava nella penombra e le ombre gelate accentuavano i loro contorni, allontanavano le pareti bianche velandole in una confusione che annunciava un abisso nebbioso dietro di sé. A piedi nudi raggiunse la finestra, sollevò i vetri e una freschezza riposata le toccò il corpo come se non portasse la camicia da notte corta e spessa. Di sotto, nel vago e insonnolito giardino, ogni stelo emergeva da un alone di fumo freddo e sbiancato. Si concentrava sul silenzio del mattino come se ascoltasse dentro di sé la resurrezione di un simbolo”.
Virginia non sa niente di sé stessa, attraversa innocente e distratta la sua realtà senza riconoscerla, come se si preparasse ogni giorno a vivere, disposta a trasformarsi in ciò che non è per accordarsi alle cose intorno. Non riesce a definirsi e a scegliere. Si sente distante da entrambi i fratelli. È diversa dal fratello Daniel (“lui era schietto e duro, detestava quel che non vedeva) che ama e a cui obbedisce senza riuscire a esprimersi o a dire qualcosa che lui non trovi sciocco. Lui le ripete che è stupida: ha scelto lui per entrambi la posizione in cui stare. Ancora più lontana per età ed esperienze le appare Esmeralda, sensuale, bella, così vicina alla madre. Virginia non sa che posto occupare, quasi non ha desideri, vive in equilibrio sull’indistinto: “– la sua faccia certe volte ricordava un’immagine riflessa nell’acqua”.
Persino la felicità le sembra qualcosa che potrebbe farla soccombere: “ancora un minuto di gioia e sarebbe stata lanciata fuori dal suo mondo da desideri audaci, piena di un’insopportabile speranza”. Alla fatica dell’esaltazione Virginia preferisce l’indolenza, il rintanarsi in sé, il rimanere rannicchiata. Leggendo Il lampadario sembra quasi di respirare la solitudine di Virginia, il suo non darsi spazio, se non nella ripetizione di abitudini silenziose che la legano ad altri con poco sforzo. Il rito del mangiare insieme, che si ripete quotidiano, a fare da corrimano sicuro al grande vuoto della casa. Anche in una vita poco felice la continuità dei momenti produce qualcosa di stabile, rende una vita equilibrata. Viginia non riesce ad avvicinare davvero nessun uomo, si sente espulsa dall’ansia che sente amplificarsi dentro. L’unica cosa che riesce a rilassarla è guardare il mare, il suo eco di deserto composto da infiniti granelli di sabbia, in cui niente sembra sfuggire alla successione continua, a un intimo movimento sferico di morte e resurrezione:
“Forse con gli uomini era fredda ma com’era sensibile davanti al mare. Le onde si formavano in superficie senza alterare la massa d’acqua quieta e pesante – e questo le dava un impulso serio, pericoloso. Le onde più grandi si infrangevano in odori salati di spuma nell’aria. Dopo che l’onda si era abbattuta sugli scogli e tornava indietro in un rapido riflusso, restava nelle orecchie un’eco di deserto, un silenzio composto di piccole parole graffiate e brevi, di sabbia”.
Virginia vive come se nessuno dovesse accorgersi di lei. Da piccola gioca a cercare di non muoversi, a restare quieta fino a quando arriva qualcosa di impossibile da controllare: “un momento di realizzazione indomabile”, un gesto irrefrenabile che sfugge segretamente in ogni vita.
Esisteva così in fondo in fondo, quasi inavvertito, “orribile come una luce gialla e disperata il pericolo di sé stessa”:
« Allora: quando si vede una lucciola non si pensa che è apparsa, ma che è scomparsa. Tipo se uno muore, e questa diventa la cosa più importante di lui, come se non fosse nato né vissuto, capito? Ci chiediamo: com’è la lucciola? E rispondiamo: scomparsa».
Daniel capì e rimasero entrambi in silenzio, appagati. Lei certe volte sapeva prendere una cosa con le mani distanti e poi le faceva danzare perplesse, strambe, dolci, trascinate. Fiduciosa e tiepida, proseguì:« Vorresti essere così, tu? ».
« Così come? ».
«Come le lucciole… Se nessuno sa come siamo, se stiamo apparendo o scomparendo, se nessuno lo indovina, pensi che non viviamo lo stesso, nel frattempo? viviamo eccome, abbiamo la nostra storia e tutto, come le lucciole».
« È la prima volta che dici una cosa che penso anch’io: sarebbe bello» disse Daniel e di nuovo si zittirono a guardare.
Appare e scompare, Virginia. Ha paura di restare. Ogni giorno scappa. Questa è la realtà della sua vita fino a quando, esausta di vivere, dissoltasi vivendo, si abbandona finalmente nel buio.
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