15 Ott Quando La Musica Della Vita È Interrotta
di Omar Suboh
Ricordo bene quella sera. Eravamo cinque amici al bar, fuggivamo dall’impegno: dal perenne rumore di fondo del mondo. I sensi amplificati dalle anfetamine, gli occhi strabuzzati con le nervature pulsanti rosso porpora, le mani che battevano un ritmo interiore percepibile soltanto a chi era parte intima del nostro connubio. Una nube fitta sembrava profilarsi lungo l’orizzonte delle esitazioni, delle attese tradite, delle promesse non mantenute, ma mai avrei immaginato quello che sarebbe successo dopo… Riccardo era con me, può testimoniare tutto. Anche Gigi e Carlo. Scappati di casa perché non ci capivano, nessuno coglieva il nostro talento, ma noi lo sapevamo che eravamo fatti per stare insieme, e per farcela.
Vivevamo la musica come parte di noi stessi. Abbiamo suonato a Valencia, in un locale vicino alle Ramblas di Barcellona, a Madrid, a Siviglia, e dopo abbiamo continuato a girare la Spagna in ogni città in cui eravamo stati, dalle persone che ci avevano ospitato, alla ricerca del nostro batterista scomparso: Marco detto Il Brutto. Tutto è incominciato da me, quando dopo la scuola, appena diciassettenni, ci vedevamo per ascoltare i dischi nella mia camera tra i poster impolverati dei Mr. Bungle, dei Cypress Hill, di Jimi Hendrix e di Miles Davis. Ascoltavamo ogni cosa, senza farci troppi scrupoli, ripassavamo metodicamente i giri di basso, gli assoli di tromba, i riff di chitarra, i campionamenti di Dj Shadow. Tutto era funzionale alla creazione: volevamo dischiudere i confini non ancora valicati dei generi, volevamo essere la bomba inesplosa che manda in avaria il sistema dell’industria musicale italiana, l’azzeramento di tutto quello che era stato già fatto per ricominciare dall’inizio. Non avevamo mai le orecchie libere. Ripeto: mai. Qualcosa che usciva dall’impianto c’era sempre, anche quando i miei compari mancavano all’appuntamento quotidiano, rimanevo o in camera o in saletta con le orecchie spalancate sullo stereo amplificato, come se avessi un muro di casse in casa. Non c’era nemmeno bisogno che mi recassi a Vedano Olona: il rave si svolgeva nella mia stanza. Gli auricolari erano diventati l’estensione dei miei timpani, protesi che avevo installato per riempire il mio vuoto solitario. E passeggiavo, passeggiavo come un barbone o qualcuno a cui non avevano ancora estratto la pietra della follia dal centro della testa, inoltrandomi in vicoli bui e nei parchi, sempre senza meta. Grazie a queste camminate melanconiche passavo a setaccio dischi su dischi che mancavano all’ascolto sistematico del mio personale empireo musicale, non esisteva modo migliore per farsi venire nuove idee, rimescolarle, e poi parlarne con gli altri.
Ci chiamavamo The Androids Of Chaos, mischiavamo il funk dei gruppi afrobeat con il folk di Bob Dylan, il breakbeat alla elettronica, attingendo dal soul di vinili degli anni Sessanta con la tekno più spinta: eravamo dei fottuti malati di mente della musica. Non c’erano ancora X Factor, gli Amici di Maria, eravamo tutti figli di MTV… e tutto questo non era poco per i tempi: si scoprivano un sacco di cose stando dietro ai videoclip in rotazione sui loro canali, e molte delle rivelazioni che poi ci hanno influenzato le abbiamo fatte da lì. Ricordo molto bene, in particolare, una trasmissione condotta da Massimo Coppola che si chiamava Brand:New.
All’inizio le cose andavano bene, eravamo sempre d’accordo su tutto, ognuno diceva la sua e aggiungeva qualcosa proponendo nuove formule per la creazione di quello che poi fu il nostro primo (e unico) disco di successo: Il Sistema Periodico. Una etichetta locale, qua, nei pressi di Napoli, ci prese sotto la sua protezione e ci fece suonare all’Ex OPG Je so’ pazzo, girammo diversi centri sociali per incominciare, e poi ci spostammo a Bologna, Torino, per proseguire a Milano sino a ridiscendere lungo tutta la penisola e ripartire da Catania. Le cose andavano alla grande!, e proprio in quel momento incominciammo a farci senza limiti. Eravamo strafatti ogni fottuto giorno: dalla mattina alla sera. Riccardo aveva mollato la sua ragazza storica, stavano insieme da dieci anni; Gigi lasciò il lavoro che aveva nella bottega di famiglia perché era convinto che il successo, oramai, fosse inevitabile e che avrebbe continuato a crescere: «La ruota gira e questa volta è toccata a noi la botta di fortuna», così diceva; Carlo ingurgitava LSD compressa in orsetti gommosi e colorati come caramelle, «Per aprire le porte della mia percezione!», era solito affermare ogni volta; Marco, detto il Brutto perché in realtà era tutto l’opposto, era anche il più bravo… sì, ma il più pazzo, il più aggressivo e irascibile del gruppo. Non gli si poteva dire nulla. Fare tutto quello che voleva era il suo unico imperativo morale, e nulla avremmo potuto per opporci alla sua onda anomala. Spaccava bottiglie in testa ai tipi della sicurezza nei locali, scopava con tutt*, gli sbavavano dietro perché ammaliati dal suo carisma da Sid Vicious partenopeo, e poi – fatto non trascurabile – era ricco di famiglia. Il padre era direttore di una banca importante che aveva legami con l’Unione Europea o qualcosa del genere, mentre noi invece partivamo tutti più o meno dalla stessa condizione: non avevamo voglia di studiare, né di cercarci un lavoro vero, ma sentivamo una irriducibile tensione verso il sano intrattenimento: la passione per il rumore di sottofondo perpetuo dell’anima, la mia personale definizione di musica.
Andateci voi a spiegare agli altri che quello che producevamo non era sterile baccano o lamento diabolico, come ebbero a dire nel millesettecento a proposito del basso continuo, o di Bach quando venne eseguita nella Thomaskirche di Lipsia per la prima volta la Passione secondo Matteo. Quel genio gettò le premesse per la decostruzione del concetto di opera e di musica colta, contrapposta a un’altra che poi sarebbe stata chiamata nei secoli con l’appellativo di popolare. Fu lui, Bach, che aprì le porte del sacro alla parodia, e noi facevamo la stessa identica fottutissima cosa. Eravamo i Johann Sebastian Bach della musica rock sperimentale.
Certo qualche volta esageravamo, tutti. Compreso io stesso, come quella volta in cui non riuscii a contenermi e risputai in faccia una lattina di birra che mi ero scolato in un sorso solo a questo pisciaturo che si credeva Simon Reynolds. Sempre lì a dispensare giudizi sommari, a stravolgere il lavoro degli altri senza alcuna considerazione delle energie, del tempo, della ricerca, impiegati per provare a creare qualcosa di nuovo. «Siete demodè!», diceva di fronte a una platea di rincoglioniti che applaudivano a ogni parola che usciva da quel buco pieno di merda, ma in fondo lo sanno tutti, è una verità consolidata che chi sa fare fa, e chi non sa fare insegna, appunto.
Quella notte ci trovavamo nei pressi di Firenze, non ricordo se a Santo Spirito o dietro la Basilica di Santa Maria Novella, comunque, eravamo in questo bar. Marco era più stravolto del solito, i suoni che emetteva dalla sua bocca non erano parole, erano borborigmi. Sembrava gli avessero messo la pancia al posto della bocca, quando emette i suoi lamenti ventriloqui per la fame, e noi sempre a stargli dietro, ad ascoltarlo, a rincuorarlo quando qualcosa non andava come quella volta, con i suoi capelli ricci virati sul biondo platino, occhi verdi splendenti dello stesso colore del turbante indossato dai fedeli in pellegrinaggio alla Mecca, qualche lentiggine sparuta e dolcissima, i tatuaggi e le toppe nel giubbotto dei Confuse – un gruppo punk hardcore giapponese di cui andava fuori per un EP dal titolo Nuclear Additcs –, la barba nera come uno stemma che sembrava racchiudesse le infinite lotte di una saga famigliare, gli anelli alle dita e gli anfibi ai piedi. Per me poteva tranquillamente essere esposto al Piazzale Michelangelo con gli altri adoni, e non avrebbe sfigurato per niente. Passavo ore a contemplarlo, defilato, con la coda dell’occhio tumefatto, o nella solitudine della mia camera, sovrapponendo la sua immagine a quella di George Harrison.
Qualcosa in me era scattato, dalla prima volta che ci avevano presentati a un concerto dei Linea 77, e tra il pogo e il sudore che ci avvolgeva come spirali trasparenti, dopo esserci presi un paio di calci, decidemmo di fondare un gruppo la sera stessa. Da diversi anni suonavamo ininterrottamente, e qualche giorno dopo quella maledetta serata di Firenze, avremmo dovuto viaggiare nuovamente in Spagna, ma qualcosa non andò come previsto. «Sono stanco di me», disse di fronte a una bottiglia di Vodka che amava mischiare con la coca, si alzò dal tavolo, lo rovesciò impetuosamente e se ne andò per sempre sbattendo la porta del locale. Rimanemmo attoniti, incapaci di credere che lo stesso che aveva permesso al gruppo di nascere, di prendere forma e consistenza nel vuoto delle nostre esistenze, fatte di scarti quotidiani, frammenti di acido lisergico e depressione post trauma, potesse abbandonarci sul più bello, proprio quando il sogno si materializzava sotto i nostri occhi lucidi, con il sangue che saliva a fiotti ricoprendo i nostri bulbi tristi e sfatti. «Ma dove cazzo vai? Vieni qui Brutto!», dissi provando a rincorrerlo, ma niente da fare… era già sparito dalla mia vista. Troppo lenti per reagire, i riflessi condizionati e sovraccaricati di sostanze che deviavano i nostri intenti, e infatti nessuno a parte me provò a rincorrerlo… mai più.
E come avremmo fatto con l’elettronica adesso?, era lui lo spirito fattosi carne dei Androids of Chaos, rappresentava il lusso della mente che non avevamo mai avuto, il gioco che diventa professione e viatico verso la felicità stessa. In quello stesso attimo mi sentii come il giovane Törless quando viene sodomizzato nel collegio, ma come lui dalla mia parte sentivo di avere ancora le stelle… le costellazioni della volta celeste su cui orientai il mio sguardo alla ricerca della trama nascosta dell’universo, ordita da qualcosa di più grande di noi che preserva la distanza dal suo nucleo vitale per consentirci di continuare a cercare quel senso che da soli non troveremo.
Ci presentammo lo stesso a suonare quella sera: ma fu un disastro. I giorni successivi mi recai in Spagna con Carlo, e gli confessai del mio folle amore. Dei taccuini e dei diari che riempii con il suo nome: Marco, Marco, Marco. Sognavo che lo guardavo da una fessura dopo l’amplesso che consumavamo tra rifiuti urbani, scorie radioattive, sullo sfondo della città contaminata: Napoli, oh Madre che non ho mai avuto. Soltanto con te, Marco, ho sentito sulla mia pelle cosa si prova a possedere una città. Con il rumore perpetuo di una chitarra elettrica distorta, la stessa che suonava Lou Reed nel disco che preferivamo della sua multiforme produzione, Metal Machine Music, e ascoltavamo quelle composizioni con gli occhi sbarrati sul divano di camera mia, quando ti sparavi, come Reed, the brown sugar nelle vene, e poi piangevamo, per ore, perché non avevamo alternativa: il futuro era un concetto superato. Sembrava vivessimo nel set di un film di Paul Morrissey, la nostra carne fresca e decadente al contempo stesa fuori dai balconi in attese perenni, ma con le ali multicolori come quelle dei pavoni che risplendono in mattinate abbacinanti di Primavera.
Mi manca percorrere l’itinerario del tuo corpo, tracciare i solchi delle vene delle tue braccia tra gli scorpioni che ti tatuasti sui bicipiti: «Non è soltanto l’amuleto che preserva dalla lebbra per gli indiani», mi dicevi, «Ma è anche simbolo dell’ardimento, del fuoco eterno che brucia nella notte oscura tra farfalle che gli svolazzano intorno; del coraggio ardito di chi arriva a darsi la morte prima della resa al nemico; l’insoddisfazione del saggio che chiude le porte al mondo, desolato e lontano da tutti: quale modo più raffinato può esistere, per descrivere la mia condizione?», e poi ci abbracciavamo, aspettando l’alba, cullati dal suono delle sfere, le uniche che continueranno a indicarmi la via per ritrovarti.
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