Hannah Arendt: “L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing”

 

di Ivana Margarese

 

 

“È difficile parlare della verità, perché, 

sebbene ce ne sia una sola, è vivente, 

e ha quindi un volto che cambia con la vita”.

 Franz Kafka 

 

L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing è il titolo di un discorso pronunciato da Hannah Arendt per il conferimento, nel settembre 1959, del prestigioso premio Lessing da parte della città di Amburgo.
Il testo del discorso è uno degli esempi più riusciti del talento arendtiano di tradurre in pensiero e in scrittura il proprio vissuto. La sua riflessione propone, attraverso la figura di Lessing, alcune considerazioni sul rapporto tra verità e pluralità e tra amicizia e fraternità, cercando di indicare una via che, anche alla luce delle recenti vicende della seconda guerra mondiale e degli orrori del totalitarismo, scongiuri i rischi derivanti dalla credenza di possedere l’unica verità possibile.
Una verità unica e dogmatica così come un’eccessiva vicinanza e omologazione tra gli esseri umani, anche quando venga agita sotto l’egida della fraternità, non permettono la distanza e la diversità di punti di vista che tutelano il dialogo tra gli uomini e, col dialogo, il rilievo che  prossimità e relazione dovrebbero avere su dogmi e astrazioni.

La filosofa apre il suo discorso con queste parole:

“La distinzione conferita da una città libera, e il premio che si avvale del nome di Lessing, rappresentano un grande onore. Ammetto di non sapere come sono arrivata a riceverlo e anche che non mi è stato affatto facile venirne a capo […]. Da questo punto di vista, un onore impartisce una vigorosa lezione di modestia; ci nega infatti la competenza di giudicare i nostri meriti con lo stesso metro con cui giudichiamo i meriti e le realizzazioni altrui. Conferendoci un onore, il mondo prende la parola, e possiamo accettarlo ed esprimere la nostra gratitudine solo se rinunciamo a pensare a noi stessi e decidiamo di agire interamente nell’ambito del nostro rapporto con il mondo, un mondo e un pubblico ai quali siamo debitori dello spazio in cui parliamo e in cui siamo ascoltati”.

Già l’incipit del testo mette in evidenza il rapporto tra noi e il mondo, quel mondo all’interno del quale ci è dato spazio di parola e di ascolto. Più avanti Arendt dice:

“Poiché il mondo non è umano perché è fatto da esseri umani, e non diventa umano solo perché la voce umana risuona in esso, ma solo quando è diventato oggetto di discorso. Per quanto le cose di questo mondo ci colpiscano intensamente, per quanto profondamente esse possano emozionarci e stimolarci, esse non diventano umane per noi se non nel momento in cui possiamo discuterne con i nostri simili”.

Il celebre Selbstdenken di Lessing – il pensare da sé – non è in nessun caso l’attività di un individuo unitario e chiuso: il pensiero non è tanto la manifestazione di un sé, ma piuttosto l’apertura di qualcuno che scopre nel pensare un altro modo di muoversi liberamente nel mondo. Per il filosofo tedesco l’attività del pensare, essendo libera, non deve essere sottomessa a risultati: il considerare di essere giunti a una soluzione definitiva comporterebbe infatti la fine del movimento del pensare stesso:

“Il pensiero di Lessing non è il dialogo silenzioso (platonico) tra me e me stesso, ma un dialogo anticipato con altri, e per questo motivo è essenzialmente polemico”.

Ci sono tuttavia tempi in cui la diffidenza delle persone nei riguardi del mondo e di tutti gli aspetti della vita pubblica cresce inesorabilmente: “La storia conosce molti periodi in cui lo spazio pubblico si oscura e il mondo diventa così incerto che le persone non chiedono più alla politica se non di prestare la dovuta attenzione ai loro interessi vitali e alla loro libertà privata. Li si può chiamare “tempi bui” (Brecht)”.
Il mondo è un luogo da cui sempre più spesso, sottolinea Arendt, si sente il bisogno di ritirarsi; un ritiro che può anche sviluppare grandi talenti ma che comporta la perdita di quel “tra” che dovrebbe svilupparsi tra l’individuo e i suoi simili. Hannah Arendt fa riferimento alle vicende del Terzo Reich e al fenomeno definito “emigrazione interiore”, che coinvolse coloro che pur non essendo emigrati si comportarono come se non facessero parte del reale, diventato per loro insopportabile, cercando rifugio in un mondo immaginario, in una civiltà passata o in speranze di “come dovrebbe essere il mondo”:

“Si è discusso molto sulla tendenza ampiamente diffusa in Germania ad agire come se gli anni dal 1933 al 1945 non fossero mai esistiti, come se quella parte della storia tedesca ed europea, quindi mondiale, potesse essere cancellata dai manuali; come se tutto dipendesse dalla capacità di dimenticare il negativo e di ridurre l’orrore a sentimentalismo. (Il successo mondiale del Diario di Anna Frank dimostrò chiaramente che tali tendenze non erano confinate alla Germania)”.

Arendt afferma che il dolore del passato va invece conosciuto, sopportato in questa sua presa d’atto, e soprattutto raccontato. “Padroneggiare” il passato è possibile solo nella misura in cui si racconta ciò che è accaduto, ma tale padroneggiare non avviene una volta per tutte, ma è piuttosto qualcosa di inesauribile, come nel caso della poesia e della tragedia, poiché nessuna filosofia, nessuna analisi, nessun aforisma, per quanto profondo, può avere un’intensità e una pienezza di senso paragonabili a quelle di una storia ben raccontata.
Forza e potere non sono identici e il potere sorge solo là dove delle persone agiscono insieme.
Parlando di esperienza vissuta Arendt ritorna più volte sul valore del sentimento di amicizia, – tanto selettivo quanto la compassione è egualitaria – che per Lessing è fenomeno centrale in cui si attesta la vera umanità.
È noto che gli antichi ritenevano che una vita senza amici non valesse la pena di essere vissuta. L’idea che si avesse bisogno dell’aiuto degli amici nella sfortuna non giocava un ruolo determinante in questo modo di pensare; al contrario, essi ritenevano che non possa esserci felicità per un uomo se non condivisa con un amico:

”Che l’umanità debba essere sobria e lucida, piuttosto che sentimentale, che si attesti non nella fraternità, ma nell’amicizia, che l’amicizia non sia intimamente personale, ma ponga domande politiche e rimanga riferita al mondo – tutto ciò ci sembra così esclusivamente riferito all’antichità classica che siamo piuttosto sconcertati nel trovare tratti analoghi in Nathan il saggio, un testo che, per quanto moderno, potrebbe essere considerato a buon diritto il dramma classico dell’amicizia”.

La questione della verità era ancora una questione filosofica e religiosa ai tempi di Lessing. Ecco che la sua grandezza non consiste solamente nell’intuizione teorica che non possa esserci una verità unica nel mondo umano, ma nel suo gioire per il fatto che non ne esista nessuna e che quindi il dialogo tra gli uomini può continuare finché esisteranno gli uomini.
Oggi più che confrontarci con persone che ritengono di avere la verità, ci troviamo a parlare con chi, affascinato da un modo di pensare modellato su quello scientifico, ritiene di avere ragione ignorando il fatto che gli scienziati, fintanto che procedono in modo realmente scientifico, sanno molto bene come le verità non siano mai definitive ma vadano sottoposte all’osservazione di una ricerca viva e costante.
Nonostante la differenza tra il possedere la verità e l’avere ragione, i due punti di vista hanno – dice Arendt – una cosa in comune: coloro che abbracciano o l’uno o l’altro non sono in generale disposti a sacrificare, in nome del dovere dell’obiettività, la loro prospettiva all’umanità o all’amicizia in caso di conflitto. Arendt, invitando a considerare le conseguenze del suo ragionamento, domanda se nel caso si potesse dimostrare con evidenza scientifica indubitabile che una razza è inferiore rispetto alle altre ciò giustificherebbe il suo sterminio:

Ma nei termini di un pensiero non sottoposto a regole restrittive né giuridiche, né morali, né religiose – e il pensiero di Lessing era così libero che “cambiava con la vita” – la domanda dovrebbe essere posta come segue: una dottrina di tal genere, per quanto provvista di prove convincenti, potrebbe giustificare il sacrificio di una sola amicizia tra uomini?

Lessing, afferma Arendt, risponderebbe convintamente di no: nessuna idea o argomentazione astratta può giustificare il sacrificio di un’autentica amicizia. E con  questa risposta ci permette di tenere a mente la forma di uno spazio a più voci, di un inesauribile dialogo in cui l’annuncio di ciò che sembra vero lega e al contempo separa, creando nei fatti quelle distanze tra gli uomini che, insieme, formano il mondo.

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