06 Nov Se la maternità è mostruosa. Intervista a Romana Petri
A CURA DI GINEVRA AMADIO
Cosa significa essere madri? C’è forse una regola, un modello comportamentale già dato entro cui inserirsi per risultare normali? E se la maternità fosse anche dolorosa, mostruosa?
Delle madri assassine si parla in termini di degenerazione, depravazione, viziosità, corruzione della norma. Un tema delicato, a tratti disturbante, che Romana Petri affronta in Mostruosa maternità (Giulio Perrone Editore), raccolta di racconti sulle “genitrici indegne”, mediaticamente fatte a pezzi. Su cui forse dovremmo fermarci a riflettere.
La narrazione tradizionale del femminile vuole la donna portatrice di pace, conciliazione, di un sentimento di cura come attitudine naturale. Mostruosa maternità racchiude già nel titolo un’idea sovversiva, scomoda, ovvero la possibilità di provare rabbia, inadeguatezza. Quanto è difficile, ancora, scardinare gli stereotipi?
Direi che è difficilissimo visto che dai tempi di Medea la letteratura non ha mai più voluto affrontare l’argomento. Il tema è stato affrontato in sociologia, psicologia, psichiatria, ma mai più in narrativa. Io ho pensato che non fosse giusto non considerare anche questo volto della maternità. E l’ho fatto non limitandomi a parlare dell’oggi, ma anche dei tempi passati. Questa improvvisa brutalità, questo improvviso momento nero, ci sono sempre stati. Non è un male moderno. È un male nato con il mondo.
Per raccontare la singolarità del mettere al mondo un figlio – singolarità nel senso di un dato mai incasellabile, univocamente definibile – hai adottato la forma racconto. Da cosa deriva tale scelta?
Se avessi scritto un romanzo avrei dovuto parlare di un unico caso, metterne di più sarebbe stato un poco credibile baraccone degli orrori. Il racconto mi ha permesso di dare voce alle molte sfaccettature di questo tema. Ho potuto cogliere più profili di quel momento esplosivo e dunque imprevedibile che permette a una madre di togliere la vita al figlio, o di toglierla a se stessa, o a entrambi, o di permettere che possa farlo un’altra persona per pura dipendenza, e proprio verso l’uomo. Altro tema mai superato. Del resto fu la stessa Medea a inaugurarlo. La perdita dell’uomo amato, la spinge ad eliminare i suoi figli. Mi ha sempre stupita l’immensità del nostro ego che quando viene ferito è capace di ogni orrore.
E le personagge, così diverse tra loro e lontane nel tempo, eppure accomunate da un sentimento che ne innerva i gesti, i pensieri. Una zona indicibile, insondabile, in cui non è concesso entrare. Eppure il racconto massmediatico indugia in particolari, ipotesi, solleticando il senso comune. La letteratura appare, in tal senso, una parta d’accesso a un discorso altro…
Io non ho sbattuto il mostro in prima pagina, ho cercato di essere il “mostro” per tentare di capire cosa può accadere in quei momenti. La cronaca ci fornisce dati, elementi, dovizie di particolari su come certe cose sono avvenute. Ma dell’anima di chi compie quell’efferatezza non dice nulla. Perché sono sicura ci siano dei segnali che potrebbero far capire a qualcuno cosa sta per capitare. Ma non vengono colti. Anche le persone più vicine a queste donne non riescono a intervenire in tempo. La solitudine, non sentirsi adeguate, la paura di non farcela, ottenebrano. Ci vorrebbe qualcuno che sa ascoltare. Tra gli umani serve l’empatia, quello che io, alla fine del libro, ho chiamato “accompagnare l’altro”. Il percorso della vita non possiamo farlo da soli.
Le madri dei tuoi racconti uccidono per gelosia, per stanchezza, perché tormentate da una bellezza che svanisce, da un corpo che cambia e che non sentono più loro. Madri che ricordano grandi personaggi della letteratura, del mito, a dimostrazione di come la tua scrittura sia intessuta di reminiscenze. Vuoi dirci di più in tal senso?
Fin da giovane mi sono nutrita di epica, di miti. Da bambina credevo negli dèi. E sentivo che perdere il loro benefico sguardo poteva essere fatale. E la storia di Medea mi ha veramente straziata. Mi ha ben presto fatto pensare a una cosa: l’essere umano si suicida solo per amore, per fallimento e insuccesso. Raramente lo fa dopo la morte di un figlio. Quella morta non ferisce l’ego. E questo pensiero mi ha sempre fatto sentire che poca cosa siamo. Tutta la storia, dai suoi primordi è costellata di tanti IO. A me ha fatto sempre molta paura. Medea non è un mostro quando è amata, si trasforma in qualcosa di efferato quando viene abbandonata per un’altra donna. Il mostro dorme e abita in noi. Basta poco a risvegliarlo.
La maternità, in questo tuo narrare, diviene (o meglio, torna a essere) un campo aperto, soggetto a ridefinizioni. Non il completamento dell’essere donna, il naturale sbocco di un percorso segnato, ma un eventuale affanno, qualcosa che può fagocitare l’esistenza. È ancora una verità indicibile?
Decisamente sì. È una verità scomoda che cozza con tutte le drammatizzazioni della maternità che vediamo ogni giorno. La maternità come gioia, come facilità, miglioramento della vita. La maternità è anche tutto questo, ma non per tutte le donne, perché per esserlo ci dovrebbero essere delle strutture che facilitano le madri che invece, soprattutto quando le disponibilità economiche scarseggiano, sono molto sole. La madre sempre sola con il suo bambino, o la madre che corre al nido e poi al lavoro e poi di nuovo al nido e poi a casa da sola… Beh, può diventare un campo minato. La maggior parte delle donne riesce a venirne fuori, altre invece cadono. Cadono irreparabilmente.
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