“Strada provinciale delle anime”: l’ultimo viaggio di Ghirri e Celati

di Giorgio Galli

La prima volta che ho sentito la voce di Luigi Ghirri è stato in un documentario di Gianni Celati, Strada provinciale delle anime. Il titolo non è simbolico: nella pianura padana, vicino le valli di Comacchio, esiste realmente una strada con questo nome. Il documentario non ne spiega l’origine, lasciando aperta l’ipotesi che il percorso portasse in origine a un cimitero. È un documentario estetizzante, che mescola interviste a persone incontrate lungo il viaggio -perlopiù persone anziane, rappresentative di un Italia artigianale dei “mestieri” che già allora stava scomparendo: persone nate nei primi anni del Novecento e che continuano a lavorare, a dispetto dell’età, come scalpellini o sarti, per pura passione- il documentario alterna questi dialoghi a visioni estatiche del paesaggio padano. Celati in alcuni momenti interrompe l’audio, e ci lascia contemplare non solo il grande paesaggio delle valli, ma anche i gesti, l’abbigliamento, gli atteggiamenti delle persone. Per certi aspetti, il suo può ricordare i documentari radiofonici di Glenn Gould sul Canada, ma con un piglio meno dinamico, una disposizione più contemplativa, senza l’idea del “contrappunto vocale” come principio animatore della materia che caratterizzava i lavori dell’artista canadese.

Ho conosciuto quei vecchi. Ero piccolo nel 1991, ma ho fatto in tempo a conoscerli, in Abruzzo, al paese di mio nonno. Erano persone colte di una speciale cultura, fatta di opere liriche ascoltate dalle bande di paese e di tanto rispetto per chi aveva avuto la possibilità di studiare. Avevano un livello d’istruzione inferiore al nostro, ma una predisposizione più colta verso la vita.

Si sente la presenza di Ghirri nel documentario, non solo come personaggio che parla e agisce sullo schermo, ma nella fotografia, nella scelta delle inquadrature, nella concezione del paesaggio come paesaggio impossibile, come paesaggio antropizzato. È proprio di paesaggio che parla Ghirri nel suo intervento più lungo.

Visto oggi, questo documentario di 58 minuti impressiona. Intanto perché uno dei personaggi -Ghirri, appunto- sarebbe morto appena un anno dopo, e questa è una delle rare occasioni in cui possiamo vederlo all’opera. E poi perché la differenza fra l’allora e l’oggi sembra inconciliabile. Sono passati trent’anni, ma l’umanità ritratta da Celati sembra preindustriale rispetto a quella d’oggi. Si vedono donne anziane nel tradizionale costume nero e uomini giovani che oggi non sono più giovani. Persone che nella voce, nel gesto, nel vestiario parlano un linguaggio del corpo diverso da quello contemporaneo: più normale, direi, senza la retorica trionfalistica ed erotica prevalsa con l’avvento della “comunicazione”. 

Nel 1991 c’era ancora la prima Repubblica, Fellini era ancora vivo e Berlusconi era solo un imprenditore. I corsi di laurea in Scienze della Comunicazione sarebbero venuti l’anno dopo. La grande mutazione antropologica preconizzata da Pasolini era in corso da vent’anni, ma lentamente. A darle il colpo d’acceleratore sarebbe stata proprio la cultura della “comunicazione”, qui rappresentata da un sindaco che parla di “vendere l’immagine” del luogo, e che viene subito ripreso da Celati per quella che, agli occhi del 1991, sembrava una gigantesca forzatura, un processo d’alienazione e scissione sia dell’immaginario del luogo che del luogo stesso. Guardandolo oggi, il film sembra rivolgerci un invito a fare un passo indietro, a parlare meno di comunicazione e a comunicare di più, a tornare ai contenuti, a rinunciare alla retorica trionfalistica ed erotica che ormai ha invaso anche le strade e che dagli schermi televisivi ha finito per infestare il quotidiano. Tra l’epoca del documentario e la nostra è avvenuta quella che possiamo chiamare la “fine dell’immaginario”. Fellini l’aveva profetizzata nel suo ultimo film, La voce della luna, datato 1990. La totale mancanza di orizzonte, tipica della mia generazione, e il completo adattamento alla realtà così com’è sono diventate moneta corrente nel periodo che in Italia è identificato come ventennio berlusconiano e che a livello mondiale corrisponde grosso modo ai due decenni che precedono e seguono le due svolte epocali del nuovo millennio e delle Torri Gemelle. Oggi, quando ci muoviamo nel mondo, siamo tarati sulla realtà così com’è. Fellini nel suo testamento cinematografico aveva anticipato questo radicale cambiamento del paesaggio interiore; Celati e Ghirri ci hanno mostrato le ultime possibilità dell’immaginario -oltre che del paesaggio antropizzato- prima della sua scomparsa.

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