La resistenza delle attrici nel secondo Novecento. Recitazione, repertorio e regia in Miranda Campa, Ave Ninchi, Lilla Brignone, Sarah Ferrati. In dialogo con Chiara Pasanisi

a cura di Ivana Margarese

 

Gli anni che in Italia segnano la nascita della regia teatrale e la sua piena affermazione si contraddistinguono  per la resistenza delle pratiche afferenti alla tradizione capocomicale.
In particolare le attrici, in seguito alla fine dell’egemonia del capocomicato femminile, cercano di trovare delle soluzioni efficaci per mantenere quel potere – che un tempo era stato appannaggio delle donne – nel nuovo, mutato, contesto. In La resistenza delle attrici nel secondo Novecento. Recitazione, repertorio e regia in Miranda Campa, Ave Ninchi, Lilla Brignone, Sarah Ferrati Chiara Pasanisi indaga l’operato di Miranda Campa (1912-1989), Ave Ninchi (1915-1997), Lilla Brignone (1913-1984) e Sarah Ferrati (1909-1982): quattro attrici che rappresentano  condizioni femminili differenti nel panorama del teatro italiano del secondo Novecento. L’obiettivo non è tanto quello di ricostruire dei singoli percorsi biografici, bensì di comprendere quale sia stata la valenza simbolica, estetica e politica di alcuni episodi nodali della vita professionale delle quattro attrici.

Incontrando Chiara Pasanisi le abbiamo proposto di commentare per noi alcuni frammenti del testo che ci dessero modo di entrare nel territorio del libro. Abbiamo parlato di teatro, di condizione femminile, di quello che seppure nell’immediato secondo Dopoguerra veniva rubricata come “letteratura rosa”, De Cespedes o Gasperini, per intenderci, era invece un’importante strumento con funzione emancipatrice per le donne di estrazione borghese.


 

“Il teatro borghese si configura come una terra di mezzo, se da un lato non si verifica una rivolta femminista da parte delle attrici, dall’altro è presente un’urgenza di espressione, che viene perseguita convintamente, seppure in maniera asistematica. Da un punto di vista autoriale le attrici si confrontano con i registi, talora in un clima conflittuale, altre volte in un’atmosfera di mutua collaborazione, offrendo al teatro italiano non solo la raffigurazione di personaggi emblematici ma anche interpretazioni critiche dei testi e dei personaggi”.

Nel secondo Novecento italiano la regia si andava affermando attraverso gli uomini e non esistevano registe. Le attrici riescono a reagire e a cambiare l’andamento delle cose, sia contrastando duramente i registi sia confrontandosi con loro in maniera costruttiva, a volte perfino diventando protagoniste di piccoli atti rivoluzionari, come Sarah Ferrati che decide di curare la regia del suo spettacolo di teletatro “Medea”. E poi, Ave Ninchi, ad esempio, situandosi fuori da ogni canone estetico prestabilito, riesce a raggiungere le massime vette del successo, viaggia in tutto il mondo per lavoro e, infine, tramanda il suo mestiere alla figlia Marina, dando vita a una tradizione matrilineare.

 


La presa di coscienza da parte delle donne, e la loro affermazione, passa per la scrittura e viene in parte favorita dai media, dalle riviste, dai romanzi, accadendo sommessamente tra le mura domestiche, per poi espandersi in maniera capillare nei vari ambiti della società. La figura dell’attrice subisce un imborghesimento e perde l’aura di peccaminosità che l’aveva contraddistinta nel primo Novecento, smarrisce anche parte del suo potere creativo e autoriale, limitato da una regia in via di affermazione a carattere maschile. Tuttavia, agli albori degli anni Cinquanta, sulle riviste specializzate, le attrici vengono descritte come la principale speranza e ragion d’essere del teatro.

Quella che spesso nell’immediato secondo Dopoguerra veniva rubricata come “letteratura rosa”, De Cespedes o Gasperini, per intenderci, era invece un’importante strumento con funzione emancipatrice per le donne di estrazione borghese. Sempre in quel periodo la figura dell’attrice subisce una “normalizzazione”. Con il teleteatro, ad esempio, gli attori entravano in casa dei telespettatori ogni settimana, diventavano quasi delle persone di famiglia; Ave Ninchi conduceva dei programmi in cui insegnava alla gente a cucinare: i meccanismi del divismo andavano mutando. Un po’ come accade oggi con i social network quando attori o cantanti postano delle Instagram Stories relative alla loro quotidianità.

Il teatro forniva degli esempi di donne-autrici come Alba De Cespedes (1911-1997), già direttrice e fondatrice della rivista antifascista “Mercurio”, che nel 1952 scrisse il dramma Gli affetti di famiglia, a quattro mani con Agostino degli Espinosa (1898-1955). Su “Mercurio” era apparso nel 1948 un articolo particolarmente significativo di Natalia Ginzburg (1916-1991), intitolato “Discorso sulle donne”, in cui l’autrice scandagliava la condizione femminile con autocritica e severità. Ginzburg in quell’occasione coniò l’immagine metaforica delle donne “che cadono nel pozzo”, intendendola come un emblema dei freni inibitori psicologici e dei condizionamenti sociali che si frapponevano fra le donne e l’effettiva possibilità del raggiungimento dell’autodeterminazione.

RISPOSTA: Alba De Cespedes ebbe la geniale idea di fondare un giornale dove tutti coloro che vi scrivevano, uomini e donne, offrivano spunti di riflessione importanti sulla questione femminile e – per quei tempi – estremamente innovativi, e ancora oggi attuali. Penso agli articoli di Maria Bassino, in cui si dissertava sulla necessità di una congrua rappresentanza femminile nella magistratura italiana. E penso, naturalmente, al famoso scritto di Ginzburg sulle donne che “cadono nel pozzo”. Si tratta di un testo illuminante: quando l’autrice osserva che gli uomini sono più “padroni del proprio corpo e della propria vita”, anticipa, a sua insaputa, uno dei temi chiave della Seconda ondata femminista, di cui si parla ancora oggi nel dibattito pubblico: il potere di scelta che le donne devono avere sul proprio corpo. Credo che la scrittura qualche volta possa essere profetica.

Le attrici, in seguito alla fine dell’egemonia che aveva contraddistinto il capocomicato femminile, tentano di trovare delle soluzioni efficaci per mantenere quel potere – che un tempo era stato appannaggio delle donne – nel nuovo contesto mutato. Di fronte al cambiamento dei ritmi di lavoro, delle gerarchie e delle pratiche, causato dall’avvento della regia e da un nuovo modo di concepire e produrre gli spettacoli teatrali, le attrici da un lato mirano a detenere il potere creativo, dall’altro contribuiscono alla resistenza dei metodi di recitazione e del sofisticato bagaglio di saperi che avevano contraddistinto l’epoca capocomicale.

Nell’Ottocento le donne di scena gestivano molto potere: economico, creativo e sociale. Non si limitavano a interpretare un testo, ma erano spesso capocomiche e dirigevano intere compagnie. L’avvento della regia e dei registi diede una battuta di arresto a tutto ciò. Da studiosa donna ho sentito l’esigenza di focalizzarmi su delle donne e provare a raccontarle. Mi interessava capire che cosa accadde alla generazione di attrici che si è affermata al tempo del teatro di regia, ma soprattutto quali soluzioni trovarono e come costruirono la loro resistenza. E non solo perché queste donne sono state poco, o per nulla, raccontate, ma perché ritengo che possa essere importante una scrittura femminile che abbia per oggetto il femminile.


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