13 Dic Ilaria Palomba parla di “Vuoto”
a cura di Giorgio Galli
Cara Ilaria, nel tuo ultimo romanzo, Vuoto, è molto presente la dimensione del Sacro. Ma è un Sacro piuttosto particolare: direi una ricerca inesausta della dimensione del trascendente, ricerca che passa attraverso l’avvicinamento a diverse realtà religiose e che sembra destinata a restare eternamente insoddisfatta. In questi giorni, a Roma, c’è una mostra su Pasolini intitolata Tutto è sacro. Per il poeta -e tu sei anche una poeta- la visione del mondo non è mai completamente laica, chi fa poesia ha sempre bisogno di un aggancio alla dimensione trascendente, all’aspetto miracolistico della vita. Eppure, sembra che questa dimensione oggi sia quasi inattingibile. In base al tuo percorso sia di essere umano che di scrittrice, tu cosa ne pensi?
Mi sento molto vicina al Pasolini di Io sono una forza del passato. Ho attraversato il buddismo, lo sciamanesimo, il cattolicesimo, elementi di gnosticismo per arrivare a dire: la mia religione è la poesia. Non riesco a essere atea, questo no. Ma, leggi tu stesso quanto poesia e religione siano intrecciate: questo è uno stralcio di un poema copto dedicato forse a Iside, in ogni caso, a un femminile trascendente. Vuoto è intriso di questo poema, che ho letto innumerevoli volte.
Io fui mandata avanti dal potere,
ed Io sono venuta presso coloro che riflettono su di me,
ed Io sono stata trovata tra quelli che mi cercano.
Cercatemi, voi che meditate su di me, e voi uditori, ascoltatemi.
Voi che mi state aspettando, portatemi a voi.
E non allontanatemi dalla vostra vista.
E non fate in modo che la vostra voce mi possa odiare, e neppure il vostro ascolto.
Non ignoratemi, ovunque ed in ogni tempo. State in guardia!
Non ignoratemi.
Perché Io sono la prima e l’ultima.
Io sono l’onorata e la disprezzata.
Io sono la prostituta e la santa.
Io sono la sposa e la vergine.
Io sono la madre e la figlia.
Io sono le membra di mia madre.
Io sono la sterile
E molti sono i miei figli.
Io sono colei il cui matrimonio è grande, eppure Io non ho marito.
Io sono la levatrice e colei che non partorisce.
Io sono il conforto dei miei dolori del parto.
Io sono la sposa e lo sposo,
ed è mio marito che mi generò.
Io sono la madre di mio padre
e la sorella di mio marito
Ed egli è la mia progenie.
Io sono la schiava di lui, il quale mi istruì.
Io sono il sovrano della mia progenie.
Ma egli è colui il quale mi generò prima del tempo, nel giorno della nascita.
Ed egli è la mia progenie, a suo tempo, ed il mio potere proviene da lui.
Io sono l’appoggio del suo potere nella sua giovinezza, ed egli il sostegno della mia vecchiaia.
E qualsiasi cosa egli voglia, mi succede.
Io sono il silenzio che è incomprensibile,
e l’idea il cui ricordo è costante.
Io sono la voce il cui suono è multiforme
e la parola la cui apparizione è molteplice.
Io sono la pronuncia del mio nome.
Perché, voi che mi odiate, mi amate,
ed odiate quelli che mi amano?
Voi che mi rinnegate, mi riconoscete,
e voi che mi riconoscete, mi rifiutate.
Voi che dite la verità su di me, mentite su di me,
e voi che avete mentito su di me, dite la verità.
Voi che mi conoscete, ignoratemi,
e quelli che non mi hanno conosciuta,
lasciate che mi conoscano.
Perché Io sono il sapere e l’ignoranza.
Io sono la vergogna e l’impudenza.
Io sono la svergognata; Io sono colei che si vergogna.
Io sono la forza e la paura.
Io sono la guerra e la pace.
Prestatemi attenzione.
Io sono la disonorata e la grande.
Prestate attenzione alla mia povertà e alla mia ricchezza.
Non siate arroganti con me quando Io sono gettata fuori sulla terra,
e voi mi troverete in quelli che stanno per giungere.
E non cercatemi nel mucchio di letame
Non andate lasciandomi esiliata fuori,
e voi mi troverete nei regni. E non cercatemi quando sono gettata fuori
tra coloro che sono disgraziati e nei luoghi più miseri.
Giorni fa ascoltavo lo Stabat Mater di Poulenc, e, di fronte alla forza di quella musica, ho pensato che un’altra dimensione scomparsa nel corso del Novecento è quella del sublime: che non è l’unica dimensione spirituale possibile, ma è una dimensione di cui l’essere umano ha bisogno. La tua protagonista, Iris, è divisa fra un bisogno rovente di sublime e una realtà in cui spesso il sublime si rovescia nel grottesco.
Lei vive ogni cosa come fosse l’ultima. Forse la grande colpa di Iris è di vivere completamente nel sublime, mentre gli altri non possono comprenderla. È una ricerca disperata di superare ogni limite, una ricerca che a lungo andare la rovina, la lascia sola.
La vera protagonista di Vuoto è forse la letteratura: una letteratura che è vocazione totalizzante, che è causa di nevrosi e frustrazioni per i protagonisti, che è perno attorno a cui ruota la maggior parte dei dialoghi. È la patologia madre di tutte le patologie. Il romanzo è intriso di altra -e alta- letteratura, gioca continuamente su topoi letterari come l’amore e la gloria; eppure è anche un romanzo che grida di carne, di realismo, di vita. Oggi assistiamo spesso al fenomeno di opere letterarie che sono letteratura al quadrato, e che per questo risultano algide. Qual è il discrimine tra una letteratura incarnata, come la tua, e il gioco astratto di chi scrive su altra letteratura?
Mi fai pensare alle parole di Andrea Di Consoli durante la prima presentazione romana, parole che mi hanno entusiasmato e commosso. Credo che Vuoto sia il migliore dei miei libri, il più spietato e sincero. È vero: è una malattia letteraria quella che affligge i protagonisti, forse in costante paragone con un passato che li schiaccia, per questo ogni scenario è una trasfigurazione. Iris, Federico, Giulio, Amalia, e tutti gli altri immaginano di essere personaggi letterari, tra i Tropici di Henry Miller e Le relazioni pericolose di Laclos. E nello stesso tempo si tratta di una letteratura incarnata, loro incarnano quei personaggi, o qualcosa di molto simile a quei personaggi, non discutono semplicemente di letteratura, la vivono. Anche se si tratta per lo più di un’illusione, un’illusione pericolosa se vogliamo che travolgerà le loro esistenze in modo radicale e irreversibile.
C’è un continuo gioco di specchi nel tuo romanzo: la protagonista ammette di dover spesso indossare delle maschere; il suo migliore amico, Giulio, è un giovane poeta che vive su un crinale pericoloso fra realtà e mistificazione, che mistifica se stesso e la sua vita e che solo morendo inciampa in qualcosa di certo, in un autentico dato di realtà. In un passo del libro, la protagonista afferma senza mezzi termini che tutto il mondo intorno a lei è un mondo di maschere e di ruoli interpretati. A distanza di tempo dalla composizione di Vuoto, la pensi ancora così? E qual è il limite oltre il quale questo gioco fatto di verità dette come bugie e di bugie dette come mezze verità diventa troppo pericoloso?
Giulio è una giovane vittima della brama di gloria, dell’ambizione, e della cocaina che di tutto ciò è corollario. Ma è anche un fragile e talentuoso poeta, che solo nella morte trova il riconoscimento tanto agognato in vita. Il mondo di Iris è un mondo di specchi e di maschere, tanto da apparire per certi versi ottocentesco, e penso ai salotti proustiani. Penso che anche solo per scrivere Vuoto ho avuto la necessità di trasfigurare tutto e tutti e di tradire tutto e tutti. Penso anche alle maschere della società medio borghese, cui Iris ambisce di appartenere, cui appartengono quei livelli di coscienza in cui si dice e allo stesso tempo si nega. Si sublima una gelosia in amicizia, e nella migliore delle amicizie possibili – è il caso di Amalia, che la stessa Iris stima moltissimo e dal cui giudizio si sente guidata, nel bene e nel male. Il limite estremo cui questo gioco di nascondimenti sottopone i partecipanti è l’implosione; così Iris nel momento più estremo che il suo dolore riesce a toccare, quando non sa più se Federico la tradisca e per quale motivo abbia deciso di non vederla più, cerca risposte in Amalia ma non trova altro che uno scudo dietro il quale tutti vivono per non ammettere che stanno sopravvivendo, fluttuando senza tregua in un mondo fatto di rispecchiamenti tutti mentali, e privo d’amore.
L’ultima frase del libro invita il lettore a “far fiorire” tutto ciò che è stato scritto, tutto il caso di se stessa che Iris gli ha offerto. Non è esattamente questo la letteratura, una forma di scrittura che -diversamente dalla “comunicazione”- non si adempie mai in chi la fa, ma solo in chi la riceve?
È un monito ad accogliere il dono: tutto questo dolore come dono al mondo. Perché? Per farne qualcosa, non un cimitero, una prateria forse, un roseto.
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