22 Dic Superstar, Tetra edizioni. In dialogo con Giorgia Tribuiani
a cura di Ivana Margarese
“Superstar” di Giorgia Tribuiani è un racconto, pubblicato da Tetra edizioni, casa editrice nata da un’idea di Danilo Bultrini e Luca Verduchi, già editori di Alter Ego, e la cui direzione editoriale è affidata a Roberto Venturini, editor e scrittore. Tetra ha scelto di pubblicare esclusivamente racconti,“uno strumento sulla carta perfetto per la nostra era – caratterizzata da continui mutamenti e ossessionata da una comunicazione frenetica, immediata – eppure ancora messo in disparte, costretto in qualche modo a giocare un ruolo di secondo piano nella scacchiera editoriale”.
In “Superstar” la scrittrice con delicatezza, ironia e intelligenza affronta un tema complesso come quello della violenza e della sofferenza innocente, raccontando una storia vivace, che si legge tutta d’un fiato e fa riflettere. Tribuiani riesce a prendere per mano il lettore con lievità, come se proponesse una corsa al termine della quale, seppure non si è giunti alla meta prevista, si è percorso insieme un tratto di strada e, divertiti o stanchi, ci si è comunque accorti di non essere soli. Forse il segreto delle storie sta anche nell’offrire questa possibilità, come per il grande tema del bene e del male di cui questo racconto ci parla in termini non soltanto intimi e personali.
“Superstar” è un racconto che lega tra loro molti temi: il rapporto tra corpi e relazioni umane, il potere, il male e il sacrificio, la potenza delle storie come cura. Qual è la sua genesi? Lo avevi già in mente da tempo?
Sì, quando ho ricevuto la proposta di Tetra – avevo già avviato la progettazione di questo racconto: volevo parlare della sofferenza innocente, quella – in questo caso – del ragazzino che viene umiliato a scuola senza potersi spiegare perché, e mi piaceva l’idea che questo ragazzino potesse usare la “finzione” per cambiare a posteriori la propria storia, per reinventarla trovando un motivo al proprio dolore in modo da renderlo accettabile, “giustificato” (se si pensa che la sofferenza sia legata a una propria mancanza, si ha l’illusione che stando più attenti non si soffrirà ancora). In questo senso il wrestling, le cui storyline partono spesso dalla realtà dei wrestler per andare a comporre vicende di finzione, mi sembrava offrire questa possibilità: Angelica, l’amica del protagonista, poteva offrire a Giovanni una trasformazione in personaggio e una storia nuova in grado di modellare gli eventi passati e renderli accettabili; dar loro un senso.
La violenza contro chi è inerme e non può rispondere è qualcosa che non ci siamo “lasciati alle spalle”, è anzi una questione attualissima e declinata in tantissime forme che vanno dal bullismo a scuola alla violenza di genere ecc. La violenza spesso si accompagna alla vergogna. Che spazio c’è in questo racconto per la vergogna?
In questo racconto violenza e vergogna sono un binomio inscindibile: lo stesso protagonista, Giovanni, confessa di non aver mai parlato con i genitori delle violenze subite perché “raccontare l’umiliazione è rivivere l’umiliazione”. Io credo anche che la sofferenza innocente – quella legata a una violenza gratuita – contribuisca ad alzare l’asticella della vergogna. Voglio dire: se sento di avere sbagliato posso ascrivere il dolore che provo alla colpa; ha a che fare più con quella che con me. Se invece sono pulita e sento di non avere fatto nulla per meritare il dolore, allora, ecco, mi pare che l’umiliazione sia più forte: che abbia a che fare non con un mio gesto o una mia azione, ma con me.
“Qui si sta riscrivendo la Storia” è un’espressione che compare spesso nel testo e allarga allegramente la vicenda dei protagonisti a qualcosa di più grande. Potrebbe ricordare un po’ a tutti la voce di un amico che ironizza su qualche nostra dolorosa vicenda personale creando un palco, degli spettatori, una scena, qualcosa che faccia sentire meno soli. Mi è parso un bel modo di far partecipare il lettore non soltanto richiamando il racconto ma anche i suoi stessi ricordi.
Sono contenta di questa osservazione, perché “Qui si sta riscrivendo la storia” è una frase su cui ho ragionato tanto: un telecronista di wrestling italiano non direbbe mai una frase di questo tipo, che invece è comunissima nella telecronaca americana, sicuramente più sopra le righe. Nonostante tutto ho scelto di inserire questa espressione perché per il personaggio che si trova sul ring – o, ancora di più, per il ragazzino che attraverso la finzione del ring sta lavorando sul proprio passato – quella storia lì, una storia tra tante, ha soggettivamente la portata della Storia. E poi, come giustamente noti, è Storia anche da un punto di vista metaletterario: il lettore, che viene via via a conoscere in Superstar sia le parti di realtà sia quelle di finzione – ammesso che ci sia davvero un confine – vede via via cambiare la Storia.
“Chi fa del male perché è debole è davvero una persona migliore di chi fa il male perché vuole il male?”. Questa domanda del protagonista ripropone la celebre questione della banalità del male. Esiste solo il male radicale o il male può essere banale e agito solo perché non si sta pensando? È un tema che ricorre nella tua scrittura?
Sì, assolutamente. Per esempio in Blu, il mio secondo romanzo, la protagonista subisce il male “per disattenzione” (da parte di persone che non la capiscono, che non si curano di lei, che non la guardano – anche perché lei ha paura di farsi guardare almeno quanto ne ha desiderio) ma anche per scelta senziente, e finisce a sua volta per “agire” il male in prima persona nei confronti della sorellastra, azione che le provocherà dolorosi sensi di colpa durante l’intera adolescenza. La domanda che per me rimane aperta, però, è questa: il male e il bene si realizzano nelle cause o nelle conseguenze? Se voglio fare del bene ma finisco per fare del male, creando quindi un dolore oggettivo, reale, sono una persona peggiore di chi invece vorrebbe fare del male e alla fine non ci riesce?
L’ultima domanda è sul dono: «È come per i regali. Tu mi stai facendo un dono, stasera, e io non ho mai fatto qualcosa di così grande per te: quindi sì, forse sì, nel tuo regalo c’è anche il valore dell’iniziativa: forse è quello. È che per ricambiarti, se volessi ricambiarti in modo uguale uguale, dovrei farti un regalo più grande ancora: grande anche quanto la gratuità del tuo dono; quanto il fatto che ti è venuto in mente di farmelo dal nulla, e non per risposta». Vorrei un tuo commento. Grazie.
La gratuità mi tocca – nel senso che mi coinvolge, mi crea interrogativi – sia quando si esprime nelle azioni “buone” sia quando si realizza in quelle “cattive”. Così come la violenza gratuita è una violenza più forte, perché non rappresenta una risposta a un’altra violenza o a un gesto scatenante e non ha una causa alle sue spalle, il dono gratuito ha in sé tutta la forza dell’azione disinteressata: il suo non avere motivazioni, ai miei occhi, lo rende purissimo, non eguagliabile da un dono di pari misura, di pari valore, offerto in risposta e dunque manchevole di quello slancio iniziale.
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