05 Gen Gramsci Pasolini Sciascia: Eredità dissipate
a cura di Nina Nocera
Il saggio di Francesco Virga Eredità dissipate sin dal titolo contiene una provocazione che è tipica del temperamento dello studioso: animo da militante, di chi ha vissuto in prima linea molti degli gli snodi storici e sociali che in questo libro vengono affrontati con la guida di tre maestri del pensiero: Gramsci, Pasolini, Sciascia. Se le eredità appaiono dissipate dalle generazioni attuali che ben poco conoscono le vicende umane, letterarie e politiche dei tre, è anche innegabile che questo saggio restituisce, con un rigore concettuale frutto di anni di studio e militanza, uno sguardo nuovo sulla relazione di pensiero e di “praxis ”oltre che di amicizia, compassione, filiazione spirituale e umana. Gramsci come padre spirituale di Pasolini, Pasolini e Sciascia lontani ma intimi, e in questo triplice cammino anche differenze, dialettiche, dissonanze. Una vicenda intellettuale – una e triplice – che illumina anche su argomenti spesso considerati ancillari dalla critica, uno su tutti la spiritualità di Pasolini e Sciascia, troppo spesso rubricate come incidenti di percorso.
Il tuo studio ha un rigoroso impianto teorico concettuale, si snoda su concetti che sono stati ampiamente dibattuti dalla critica ma che tu affronti con uno spirito militante che ne rende vivido e attuale il messaggio. Dissipati, ma non dimenticati, verrebbe da chiosare alla luce delle tue considerazioni. Il fil rouge che lega Gramsci, Pasolini, Sciascia è quella di essere eretici del pensiero e addirittura – a mio parere “parresiasti” – latori di una verità scomoda, frutto di un pensiero critico. Alla luce degli esempi di questi tre grandi maestri. Quanto è possibile eretici oggi, in che misura e in quali spazi?
Proverò a rispondere alle tue prime due domande con un’unica articolata risposta. Sono lieto di vedere che non ti è sfuggito il rigore concettuale con cui mi sono accostato a Gramsci, Pasolini e Sciascia. So di aver sorpreso tanti cercando i punti d’incontro tra questi tre grandi protagonisti del secolo scorso apparentemente distanti tra loro . Si tratta, infatti, di autori che hanno avuto ruoli e pesi diversi nella storia del Novecento. Secondo gli schemi tuttora dominanti, il primo, essendo stato un dirigente politico, si sarebbe occupato prevalentemente di politica e il suo spazio, nel tempo della frammentazione dei saperi, andrebbe confinato nell’ambito della scienza politica. Mentre gli altri due – pur avendo sempre disprezzato i letterati puri e scritto tanto su giornali e riviste politiche – essendosi occupati prevalentemente di letteratura, cinema e poesia, andrebbero esaminati nell’ambito ristretto della critica d’arte e letteraria. Ma proprio Gramsci ci ha insegnato che «la più essenziale qualità del critico delle idee e dello storico» è quella di «trovare le somiglianze anche dove esse pare che non esistano […] e le differenze anche dove pare ci siano solo somiglianze». (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi 1975, pp. 33-34; p. 914) Eredità dissipate non è nato in un giorno, non è un instant book, ci sono anni di lavoro dietro. Così, mentre cercavo i punti di contatto tra questi tre grandi autori non ho mai dimenticato le loro differenze.
Per comprendere bene Gramsci, Pasolini e Sciascia bisogna, innanzitutto, liberarli dai luoghi comuni e dai pregiudizi che ancora oggi circolano sul loro conto. Tanti hanno scritto e parlato di questi tre protagonisti della scena culturale e politica del nostro novecento, ma pochi, dal mio punto di vista, l’hanno fatto correttamente.Mi sembra troppo generico individuare nello spirito critico ed eretico il fil rouge che li accomuna. Il libro smonta tanti luoghi comuni e dimostra in maniera documentata che il principale punto d’incontro fra i tre autori va ricercato nella loro comune critica, pur distinta nella forma, di ogni forma dogmatica di sapere ideologico inteso, per dirla con le stesse parole di Gramsci, «nel senso deteriore di cieco fanatismo ideologico» (Q p.1263). Pasolini, infatti, concepisce l’attività critica come una verifica continua, «un continuo adattamento del periscopio all’orizzonte dei fenomeni» (Passione e ideologia, Garzanti 1960, pp. 486-487) e la sua interpretazione del marxismo è simile a quella di Gramsci dal momento che lo considera un metodo ed uno strumento per comprendere i fatti storicamente determinati e non un sistema fisso e dogmatico in cui fare entrare forzatamente le cose. Tra il 1962 e il 1965 è uno dei protagonisti del dialogo con i cattolici democratici; partecipa ai Convegni organizzati dalla Pro Civitate Christiana ad Assisi, dove concepisce il suo Vangelo secondo Matteo. E, nello stesso anno in cui esce questo suo capolavoro, sul settimanale comunista “Vie Nuove” scrive: “Io credo che il nuovo marxismo […] non debba conoscere alcuna rigidezza, ma al contrario debba essere quella scienza storica che è, e che quindi abbia come sua caratteristica principale la formulazione continua di ipotesi, la ricerca continua di spiegazioni […]. E’ preferibile il rischio di un pensiero disordinato e critico che il rischio di un pensiero attratto da un qualsiasi ipse dixit» (P.P. Pasolini, Le belle bandiere, Editori Riuniti).
Un gioco a incastri: quando Pasolini morì, Sciascia ne scrisse accorate parole “abbiamo sentito e pensato le stesse cose”. La loro amicizia, testimoniata da un carteggio che ebbe inizio a partire dalla pubblicazione delle Parrocchie di Regalpetra fu sobria e duratura. Le ceneri di Gramsci è il poemetto del debito pasoliniano nei confronti dell’intellettuale sardo. È interessante il tuo punto di vista: “Pasolini è sempre più convinto [all’altezza del 1962] che il marxismo non va chiuso in un sistema fisso e dogmatico, altrimenti diventa fisso e dogmatico”. Quanto, in questo gioco di corrispondenze, si può ritrovare di Gramsci in Sciascia, considerato il fatto che sua vicenda politica è puntellata dalle note polemiche nei confronti della “chiesa rossa”?
Pasolini, con la sua grande apertura mentale, è riuscito a cogliere in anticipo i segni dei tempi e a comprendere le ragioni della crisi del marxismo dogmatico sovietico ben prima della denuncia kruscioviana dei crimini di Stalin. E, fino agli ultimi giorni della sua breve vita, sosterrà la necessità di rimanere fedeli allo spirito gramsciano riconoscendo la necessità di «rileggere Marx e Lenin ma non come si rilegge il Vangelo», senza mai stancarsi di «guardare in faccia la realtà così com’è» (Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti 1972, p. 37 e p. 46). Nel mio libro non mi soffermo ad analizzare il suo celebre poemetto Le ceneri di Gramsci del 1957 perché in quest’ opera, piuttosto che il fedele ritratto del pensatore sardo, si trova la confessione poetica dei dubbi, delle incertezze e delle contraddizioni del poeta bolognese. L’amicizia tra Pasolini e Sciascia, come ben ricordi, inizia nei primi anni cinquanta del secolo scorso. Ne parlerà lo stesso scrittore siciliano all’indomani dell’assassinio dell’amico affermando di aver “sentito e pensato le stesse cose”. (L. Sciascia, Nero su nero, Einaudi 1979)
Anche Leonardo Sciascia deve tanto a Gramsci. Molti hanno dimenticato che il Pirandello sciasciano è tutto fondato sulle cronache teatrali del giovane Gramsci, pubblicate per la prima volta in Italia nel 1950, in appendice al volume Letteratura e vita nazionale della prima edizione tematica dei Quaderni voluta da Togliatti. Quanto Sciascia scriverà nei primi anni cinquanta su Pirandello (vedi il suo Pirandello e la Sicilia, Caltanissetta 1961) è dichiaratamente preso da quel Gramsci. Non meno gramsciane sono le critiche di Sciascia al nostro Risorgimento e al modo retorico ed accademico di scrivere la storia d’Italia. La sua lunga collaborazione, come pubblicista, sulla stampa comunista (vedi soprattutto i suoi articoli e corsivi sul giornale “L’Ora”) ha una inconfondibile impronta gramsciana persino nello stile graffiante della sua scrittura. È anche vero, comunque, che nei suoi ultimi anni di vita, dopo la rottura con l’amico Renato Guttuso e con il PCI (definito “chiesa rossa”), lo scrittore siciliano, nel fuoco della sua polemica con Berlinguer, finisce talvolta per coinvolgere persino Gramsci. Ma c’è un altro punto d’incontro fondamentale tra Gramsci, Pasolini e Sciascia ignorato da tanti critici: la denuncia e la severa critica del ruolo servile e subalterno mostrato dagli intellettuali italiani, nel corso della storia, nei confronti delle classi dominanti. Così come Gramsci, fin dal 1926 nei suoi Appunti sulla questione meridionale, ha individuato in Benedetto Croce e in Giustino Fortunato «le chiavi di volta del sistema» e le due più grandi figure della reazione italiana; Pasolini è stato uno dei primi in Italia, dopo il sardo, ad aggiornare la sua analisi critica: «Gli intellettuali italiani sono sempre stati cortigiani, sono sempre vissuti dentro il Palazzo» (Lettere luterane, Einaudi 1976, pp. 93-94). E nei suoi scritti è frequente, più di quanto sia stato finora riconosciuto, l’analisi di classe. Leonardo Sciascia non è stato da meno nel graffiare gli intellettuali organici ai vari sistemi di potere; infatti, nel 1963, in uno dei suoi racconti più belli, Il Consiglio d’Egitto, non risparmia critiche ad archivisti, chierici e storici che si sono adoperati per giustificare e legittimare domini e privilegi. Gramsci, Pasolini e Sciascia, malgrado gli scacchi subiti nel corso della loro vita, tutto sommato hanno avuto fortuna e lasciato un segno indelebile nel secolo scorso. Oggi però sono meno amati di ieri e le loro opere, giudicate datate dalla cultura dominante, rischiano davvero di essere dimenticate in un mondo dove sembra che ci sia sempre meno spazio per il pensiero critico e indipendente.
Nella quarta parte del tuo saggio affronti il tema dei temi: l’essenza dell’intellettuale moderno che si configura nel rifiuto dell’indifferenza, nell’essere tiepidi, un monito che accomuna non solo i tre grandi pensatori, ma gli intellettuali di ogni epoca. Particolarmente interessante è la tangenza di questo impegno politico con un pensiero religioso, o forse meglio spirituale, che innerva la vicenda intellettuale non solo di Pasolini ma in qualche misura anche di Sciascia e di Gramsci. In che modo si possono congiungere questi due aspetti del pensiero e in che misura possiamo parlare di religiosità?
Nella parte finale del mio lavoro cerco di demolire altri pregiudizi e luoghi comuni costruiti intorno a Gramsci, Pasolini e Sciascia affrontando un tema spinoso e divisivo: il problematico rapporto avuto dai tre autori sia con la Chiesa Cattolica che con i sentimenti religiosi. Gramsci, fin da giovane, ha riconosciuto che la religione, uso le sue stesse parole, è «un bisogno dello spirito. Gli uomini si sentono spesso così sperduti nella vastità del mondo, si sentono così spesso sballottati da forze che non conoscono, il complesso delle energie storiche così raffinato e sottile sfugge talmente al senso comune, che nei momenti supremi solo chi ha sostituito alla religione qualche altra forza morale riesce a salvarsi dallo sfacelo». Queste parole il giovane socialista sardo le scrive sull'”Avanti” il 4 marzo 1916. Allora aveva solo 25 anni ed era, come riconoscerà tanti anni dopo, «tendenzialmente crociano». Il Gramsci maturo prenderà le distanze dal filosofo abruzzese, ma fino all’ultimo riconoscerà lealmente i debiti contratti: «Partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l’uomo moderno può e deve vivere senza religione, e s’intende senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altrimenti si vuol dire. Questo punto mi pare anche oggi il maggiore contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani, mi pare una conquista civile che non deve essere perduta. (Lettera dal carcere, 17 agosto 1931) Religione e serenità è il testo crociano sull’argomento prediletto da Gramsci. Lo ritroviamo assunto a modello di analisi critica del fenomeno religioso, in modo singolarmente continuo e costante, dai suoi primi scritti agli ultimi anni di vita. Croce lo aveva pubblicato nel 1915. Gramsci vi si riconosce immediatamente e, nel febbraio del 1917, oltre a proporlo nel numero unico “La Città Futura”, lo usa come pungolo nei dibattiti in cui impegnava i giovani socialisti torinesi nel suo Club di vita morale. Lo stesso saggio verrà riproposto nel 1920 su “L’Ordine nuovo”. Ma è in una famosa pagina dei Quaderni che il testo crociano torna ad essere discusso, nel contesto di una più ampia ed articolata riflessione critica: «Per il Croce la religione è una concezione della realtà, con una morale conforme a questa concezione, presentata in forma mitologica. Pertanto è religione ogni filosofia, ogni concezione del mondo, in quanto è diventata “fede” […] Il Croce tuttavia è molto cauto nei rapporti con la religione tradizionale: lo scritto più avanzato è il capitolo IV dei Frammenti di Etica […] Religione e serenità». (Quaderno 10. La filosofia di B. Croce. 1932-1935). Segue un’accurata analisi delle differenti posizioni assunte dal Croce e dal Gentile nei confronti della religione cattolica, con una punta polemica rivolta particolarmente a quest’ultimo che aveva introdotto l’insegnamento confessionale della religione nella scuola elementare. La nota si conclude con un significativo riconoscimento di Croce quale “vero riformatore religioso”, soprattutto per aver capito che «dopo Cristo siamo diventati tutti cristiani», poiché «la parte vitale del cristianesimo è stata assorbita dalla civiltà moderna». Una straordinaria traduzione del testo crociano si trova nella memorabile lettera che Gramsci scrive nel 1931 alla madre. In essa infatti si trova riassunto, in forma toccante e personalissima, lo stesso punto di vista storicistico del Croce: «Se ci pensi bene tutte le questioni dell’anima e dell’immortalità dell’anima e del paradiso e dell’inferno non sono poi in fondo che un modo di vedere questo semplice fatto: che ogni nostra azione si trasmette negli altri secondo il suo valore, di bene e di male, passa di padre in figlio, da una generazione all’altra in un movimento perpetuo. Poiché tutti i ricordi che noi abbiamo di te sono di bontà e di forza e tu hai dato le tue forze per tirarci su, ciò significa che tu sei già da allora, nell’unico paradiso reale che esista, che per una madre penso sia il cuore dei propri figli». (Lettere dal carcere, Einaudi, Torino 1965, p. 442). Infine va ricordata una delle più belle ed originali pagine dei Quaderni, dedicata alla riflessione intorno alla “storicità” della “filosofia della prassi” – termine col quale, secondo una certa tradizione italiana, Gramsci designa il pensiero di Marx, che distingue nettamente dall’economicismo e dal materialismo volgare – il Cristianesimo viene presentato come «la più gigantesca utopia […] apparsa nella storia, poiché è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica – e si tenga presente che la figura del “mito” nel pensiero gramsciano non ha sempre connotazione negativa – le contraddizioni reali della vita storica. Infatti, affermare come fa la religione cristiana che «l’uomo ha la stessa natura in quanto creato da Dio, figlio di Dio, perciò fratello degli altri uomini, libero fra gli altri e come gli altri uomini, pur ammettendo che tutto ciò non è di questo mondo e per questo mondo, ma di un altro, utopico» ha contribuito per Gramsci in modo decisivo a diffondere nel mondo «le idee di uguaglianza, fratellanza e libertà». Queste idee fermentano tra gli uomini, in quegli strati di uomini che non si vedono né uguali, né fratelli di altri uomini, né liberi nei loro confronti. Così è avvenuto che in ogni sommovimento radicale delle moltitudini, in un modo o nell’altro, sotto forme e ideologie determinate, sono state poste queste rivendicazioni».
Pasolini non è stato soltanto il poeta e l’intellettuale trasgressivo noto, più meno, a tutti. Pasolini è stato anche uno degli uomini del ‘900 più attento e sensibile nei confronti del sacro e della dimensione religiosa della vita. Eppure, pochi ne hanno scritto o parlato. In occasione del 100° anniversario della nascita del poeta, tra i mille articoli pubblicati su giornali e riviste soltanto Enzo Bianchi si è soffermato ad analizzare la sua particolare sensibilità religiosa ricordando, soprattutto, la lunga gestazione del suo Vangelo secondo Matteo (1964). Ma Pasolini, già molti anni prima del suo film, aveva mostrato la sua attenzione nei confronti della problematica religiosa. Basti ricordare qui due sue raccolte di poesie, scritte negli anni cinquanta: L’usignolo della Chiesa Cattolica (Longanesi, 1958) e La religione del mio tempo (Garzanti, 1961). Pasolini amava ripetere che tutto è sacro e, in una lunga intervista a J. Halliday, risalente alla fine degli anni 60, ha dichiarato: «Il mio modo di vedere il mondo […] forse è troppo rispettoso, troppo reverenziale, troppo infantile; io vedo tutto quello che c’è nel mondo (gente, natura) con una certa venerazione sacrale. […]. Non sono interessato alla dissacrazione. È una moda che detesto[…]. Io voglio riconsacrare le cose per quanto possibile, voglio rimitizzarle». Lo stesso Pasolini, in un’altra famosa intervista a Enzo Biagi, che gli domanda, sorpreso, come mai un pensatore marxista mostrasse tanto interesse per il Vangelo di Cristo, afferma: «Evidentemente il mio sguardo verso le cose del mondo, verso gli oggetti, è uno sguardo non naturale, non laico: tratto le cose un po’ come miracolose. Ogni oggetto per me è miracoloso: ho una visione – in maniera sempre informe, diciamo così – non confessionale, in un certo qual modo religiosa, del mondo. Ecco perché investo di questo modo di vedere le cose anche le mie opere. […] Per me il Vangelo è una grandissima opera intellettuale, una grandissima opera di pensiero che non consola: che riempie, che integra, che rigenera».
A differenza di quanto generalmente si creda, Leonardo Sciascia ha mostrato grande attenzione e rispetto per i sentimenti e le idee religiose anche quando ha duramente polemizzato con Cardinali ed alti Prelati. Basti qui ricordare l’aspra polemica che accompagnò la pubblicazione del bellissimo libro, Feste religiose in Sicilia, fatto insieme al fotografo Ferdinando Scianna negli anni sessanta del secolo scorso. Il testo sciasciano, che accompagna le splendide foto di Scianna, lo si ritrova anche in una sua raccolta di saggi La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Einaudi 1970. Sciascia, osservando attentamente le foto di Scianna, collegate a tanti altri suoi ricordi e letture (tra le quali spiccano Le parità e le storie morali dei nostri villani del Barone Serafino Amabile Guastella), sostiene che il popolo siciliano è refrattario al cristianesimo. Più precisamente, secondo Sciascia, la cultura siciliana, intesa in senso antropologico, mostra una «totale refrattarietà a tutto ciò che è mistero, invisibile rivelazione, metafisica». Una tesi simile, d’altra parte, aveva già sostenuto Giovanni Gentile ne Il tramonto della cultura siciliana notando come il materialismo fosse il carattere originale e peculiare della cultura siciliana. Per questo saggio Sciascia venne violentemente attaccato dalla gerarchia cattolica siciliana del tempo, guidata dal cardinale Ruffini. Agli attacchi lo scrittore rispose polemicamente in modi diversi. In un primo momento, garbatamente osservò: «A noi i siciliani non sembrano nemmeno cattolici: ma forse abbiamo, del cattolicesimo, una visione più rigorosa di quella che ne hanno gli alti prelati»; successivamente sul giornale “L’Ora” fu molto più duro: «Imbattendosi in certe mie pagine in cui considero la refrattarietà dei siciliani alla religione, qualche imbecille ritiene che io ne tragga chi sa quale fierezza e godimento, mentre il presupposto della mia indagine è questo: che dove non c’è religione non ci sono rivoluzioni religiose: e un popolo che non ha fatto una rivoluzione religiosa difficilmente farà una rivoluzione civile. E la storia e la condizione della Sicilia l’abbiamo sotto gli occhi: per come volevasi dimostrare».
Gramsci ha avuto un’enorme fortuna in Inghilterra, il suo pensiero è stato alla base del ripensamento del pensiero marxista soprattutto grazie a Stuart Hall, intellettuale diasporico di origine giamaicana, fondatore della prima cellula del Cultural Studies britannici; per Hall, Gramsci ha aperto la lettura marxista determinista a finestre di interpretazione che inglobano argomenti di grande attualità come razza, etnicità, identità sessuale (in senso socio-culturale). Ti pongo in modo molto diretto la questione: perché in Italia abbiamo decisamente perso questa partita? Secondo te da dove dovrebbe ripartire la compagine politica di sinistra per rifondarsi?
È proprio vero quanto affermi: Gramsci ha avuto particolare fortuna in Inghilterra grazie ai Cultural Studies del sociologo Stuart Hall di origine giamaicana. Stuart Hall ha ripreso il concetto di cultura elaborato nel 1871 dall’antropologo inglese Edward Burnett Tylor collegandolo a quello che si trova nei Quaderni del carcere di Gramsci. Da questo incontro deriva la consapevolezza del ruolo decisivo giocato dalla cultura nella storia. Stuart Hall, come Gramsci, sa che il terreno culturale è il luogo dove si produce e si lotta per il potere. Negli ultimi anni ai Cultural Studies si sono affiancati i cosiddetti Subaltern Studies-Postcolonial Studies, sorti nell’India del vecchio impero coloniale inglese. Il cerchio a questo punto si è paradossalmente chiuso: i figli dei vecchi coloni inglesi hanno trovato le armi culturali per seppellire i loro padri! Ma questo accade in Inghilterra. In Italia, invece, i partiti e i movimenti sorti per sviluppare ed aggiornare l’ opera di Gramsci ci hanno messo una pietra sopra da tempo ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Nell’ appendice al libro fai riferimento alla tua esperienza al centro studi di Danilo Dolci, vero e proprio laboratorio di idee e prassi. Lo stesso Danilo Dolci è stato un riferimento sicuro per la sua visione etica della politica e della pedagogia. Ci racconti meglio questa tappa importante della tua formazione?
L’ incontro con Danilo Dolci ha segnato la mia vita. Ma non ne voglio parlare adesso. Sarà questo uno dei problemi che affronterò nel mio prossimo libro.
Antonina Nocera vive a Palermo dove svolge la professione di insegnante nella scuola secondaria superiore. Si occupa di critica letteraria, ha pubblicato una monografia dal titolo Angeli sigillati. I Bambini e la sofferenza nell’opera di F.M. Dostoevskij (FrancoAngeli, 2010), Metafisica del sottosuolo – Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskij (Divergenze, 2020) e AA.VV. Il poema del Grande Inquisitore: fra Teodicea e Modernità (Castelvecchi-2022) oltre a contributi critici e racconti su riviste come “Kaiak-A philosophical Journey”, “Il Maradagàl”, “Kainos”, “Antinomie”, “Limina”. Gestisce il blog letterario “Bibliovorax” (www.bibliovorax.it) ed è direttrice di collana per “Augeo- quaderno di scienze umane-” (Divergenze), scrive sulla pagina “Cultura Italia- Russia”, dedicata alla divulgazione della cultura e della letteratura russa.
Francesco Virga è nato a Marineo (PA) nell’agosto del 1951. Si laurea in storia e filosofia all’Università di Palermo, nel 1975 con la tesi “Educazione e socialismo nel giovane Gramsci”. Dall’ agosto 1975 fino all’aprile del 1977 lavora a tempo pieno con Danilo Dolci nel Centro Studi e Iniziative di Partinico. Successivamente insegna nelle scuole medie e superiori di Palermo e provincia. Nel 1978 crea il Centro Studi e Iniziative di Marineo che continua ad animare anche attraverso un blog. È stato redattore delle riviste «Città Nuove», «Segno» e «Nuova Busambra». Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Il concetto di egemonia in Gramsci (1979); I beni culturali a Marineo (1981); I mafiosi come mediatori politici (1986); Cosa è poesia? (1995); Leonardo Sciascia è ancora vivo (1999); Pier Paolo Pasolini corsaro (2004); Giacomo Giardina, bosco e versi (2006); Poesia e storia in Tutti dicono Germania Germania di Stefano Vilardo (2010); Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini (2011); Giuseppe Giovanni Battaglia, un poeta corsaro, in Aa. Vv. Laicità e religiosità nell’opera di G.G. Battaglia (2018); Eredità dissipate. Gramsci, Pasolini, Sciascia, Diogene Multimedia, Bologna 2022.
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