02 Mar “Partorire la differenza”: intervista a Patrizia Impagnatiello
di Giorgio Galli
“Mi chiamo Patrizia Impagnatiello, ho 35 anni, vivo a Manfredonia, in provincia di Foggia. […] Nel 2016 metto al mondo Vincenzo, un bambino con la sindrome di Down. Leggo tutti i libri in circolazione in Italia scritti da genitori diversi. Cercando delle risposte ai miei perché?, comincio ad indagarmi, a dare un senso e una voce al mio rifiorire come donna e come madre.” Così si presenta, nella quarta di copertina, l’autrice di Partorire la differenza (Edizioni del Rosone, 2021): una donna forte, vitale, impastata nella durissima e smisurata materia del vivere, che analizza il suo sentimento materno senza infingimenti, senza mai cedere a nessun tipo di retorica, scandagliandone anche i lati oscuri. Scritto in una prosa che è come un fiume in piena, in una lingua che è quasi fisica, il memoir di Patrizia Impagnatiello è un’opera aspra ma piena di vero amore: è una dichiarazione d’amore a Vincenzo e alla vita, ma di un amore sempre realistico, mai edulcorato, che non sconosce gli errori e le difficoltà dell’amore e non sconosce la rabbia e il disgusto che possono renderlo così vicino all’odio.
Parli spesso della “tua” disabilità, nel libro. In che senso la disabilità di tuo figlio ti ha fatta sentire a tua volta disabile?
Ti risponderò con una poesia. Vivo ancora una condizione di immersione totale nel dubbio, nella consapevolezza che il dubbio è l’anticamera della trasformazione. Se dubiti accetti di essere perennemente in pericolo, ma lo accetti perché, attraverso il dubbio, apprendi e ti trasformi. Ogni trasformazione porta tanta morte quanta rinascita: più sei disposto a morire, meno resterà di te; meno resterà di te, più potrai divenire e cambiare. Dubitare, infatti, deriva dal latino duo, due: è il potere di avere presente in ogni momento l’altro lato delle cose. L’Altro. Perché la realtà non è mai una sola. È, almeno due. In questo momento, ancora una volta, è la poesia a salvarmi.
“D’improvviso mi sono guardata.
Le braccia, le gambe
sembravano strade.
Mi sono percorsa
ed ero nascosta.
A me stessa, nascosta,
nel ruolo di madre.
Ho provato a parlare
per far nascere il giuoco
di chi attende risposta.
Il giuoco carnale, terroso.
Infernale.
Ho provato a parlare,
rintanata nel suolo delle vene
del mio essere madre.
Oh, non ero divisa.
Mi sentivo nascosta.
A me stessa, sotto le strade.”
ANTONIO SANTORI
C’è un passo in cui vagheggi la possibilità di rifiutare Vincenzo. È davvero un pensiero che hai avuto? E, per contro, non pensi che il rifiuto faccia parte di tutte le maternità, anche di quelle cosiddette “normali”, anche se fa paura dirlo?
Nei primissimi giorni dopo il parto, ho avuto l’umano pensiero disumano di pensare alla morte di Vincenzo, di volere la sua morte. Non di ucciderlo, ma che morisse. E, insieme a lui, anche io. È stato un pensiero-lampo. Poi, ho cominciato ad amarlo. Ad amarmi. Ma all’inizio, così come ritenevo quella strana nascita una punizione divina, a quello stesso Dio che mi aveva sacrificata, io chiedevo di liberarmi da un peso tanto insopportabile quanto da me sola insopprimibile. Affidavo la nostra morte a qualcun Altro. …Sacrilegio! La maternità è un’esperienza carnale e spirituale rivoluzionaria, è indubbio! Diventi “schiava” del tuo corpo, quel corpo che oramai non ti appartiene più. Al contempo, sei “padrona” di un corpo non tuo, ma che dimora in te naturalmente. È questo che sconvolge e stravolge! La maternità è l’esperienza più dirompente che il corpo della donna subisce e agisce. Sei l’angoscia e, insieme, l’energia creatrice della vita. È un’aporia, la maternità, che non si può risolvere perché è punto di domanda essa stessa dalle infinite risposte.
Hai letto Mostruosa maternità di Romana Petri? Pensi che si parli abbastanza, in Italia, del sentimento materno nella sua completezza, o che prevalga una retorica familista per cui la famiglia e la mamma sono solo zucchero e miele?
Sì, l’ho letto non molto tempo fa. Sono sempre alla ricerca di questo tipo di narrazioni che sviscerano con chirurgica maestria letteraria figure tanto primitive quanto eterne come l’essere una madre. Oggi, la maggioranza delle donne, anche molto giovani, mostrano e dimostrano una lucida consapevolezza del proprio essere Soggetto, non più “soggette”. Se certe storie vengono raccontate allora esistono e, se esistono, è possibile parlarne ancora, è possibile ascoltare, dialogare, com-patire di e con questi precipui nodi esistenziali affinché le cose cambino, affinché il mondo che abitiamo e che diciamo si trasformi. Diventare madri non riguarda solo la donna in quanto donna. Quella stessa donna che assume la veste di madre si erge come punto di domanda alla società tutta, alla cultura alla quale tutte e tutti apparteniamo ineluttabilmente. Dopo la nascita di mio figlio ho letto moltissimo. Ho letto testi sulla disabilità, diversi racconti di madri e genitori di figli con disabilità, ma anche, mi sono dedicata senza limiti alla letteratura più variegata. È l’unico vizio che ho! La letteratura crea la memoria. La letteratura genera l’ordine simbolico delle cose del mondo. Questo potere dirompente ci permette di riconoscere chi e che cosa occupano il mondo, compresi i sentimenti, nucleo rovente che vivifica la stessa vita.
Devo dichiarare che il libro che mi ha risvegliata, restituendomi a me stessa, è stato Tempo di imparare di Valeria Parrella. Non si nasce madri, lo si diventa al modo stesso in cui Simone de Beauvoir diceva: “Donne non si nasce, lo si diventa”. Grazie a Valeria Parrella ho imparato ad imparare, ho imparato l’attesa, il silenzio, la pazienza. Ho imparato ad essere varco, non più porto.
In Italia la disabilità, soprattutto quella psichica, viene vissuta ancora come una vergogna. Molti genitori tendono ad ignorare le malattie mentali o deficit dei figli considerandoli una sorta di disonore, o a nasconderle come se fossero punizioni divine, prove del loro essere “cattivi” genitori e cattive persone. Nel libro racconti l’incontro con una madre che ti riempie dei suoi pregiudizi sui bambini Down. Ti sei mai sentita additata come una “cattiva” madre o come una brutta persona?
L’unica cosa che può renderci cattivi è l’assenza di pensiero. Il pensare, il pensare nuovi pensieri è un processo. È come un parto e non si partorisce senza doglie (fisiche e psichiche). Non si dà alla luce qualcosa, qualcuno, senza prima aver abitato il buio. Il dolore è carnale, è spirituale. Si dà intero. Sta a noi accoglierlo, dappertutto, in noi. Resistere al cambiamento è una tentazione fortissima. Vergognarsi dei propri figli disabili è già un atto di inumanità. Ritengo di essere stata una cattiva madre fino a che non ho cominciato a studiare, a ricercare, ad imparare qualsiasi cosa comandava io dovessi sapere. Sono stata non umana fino a che non ho avuto fame, una fame feroce per i libri, per la poesia soprattutto, e per ogni chiave riuscisse a spalancarmi (e a spaccarmi!) il cranio, generando nuove idee, intuizioni shock, infinite connessioni. Cambiare pelle è stata un’urgenza irredimibile. Una salvezza. Tanto più, la salvezza delle salvezze è desiderare la propria muta con il rischio di smarginare e lacrimare, fino a combaciare con la propria voce interiore.
Tu sei una attivissima divulgatrice di poesia e una lettrice vorace. In che modo il culto della bellezza ti è stato d’aiuto, e cosa è cambiato nel tuo rapporto con l’arte e la poesia dopo le esperienze descritte nel libro?
La verità? In quel preciso momento della mia vita mi hanno salvata i libri, non le persone.
La realtà aveva perso di credibilità. Tutto mi appariva un inganno, le persone, bugie in carne ed ossa. Così, ho cominciato ad isolarmi. Nella disperazione, la necessità di rifugiarmi altrove: uno spazio e un tempo in cui poter pensare, dire, agire tutto quello che nel mondo “normale” avevo sottaciuto. La poesia è stata l’unica preghiera che riuscivo a dirmi. A me “toccò” mio figlio e, grazie a lui, la poesia “toccò” me. Mi ha letteralmente svestita dai pregiudizi, mi ha purificata dai sensi di colpa, mi ha restituito l’ingenuità, lo stupore, la vita viva. Grazie alla poesia ho partorito un nuovo sentire. La poesia mi ha rianimato il corpo secco, sterile e putrido restituendolo alla realtà, alla memoria, ad un presente che reclamava la mia presenza.
Lo stile della tua scrittura mi ha colpito: è corposo, barocco, spesso attinge stilemi dalla poesia o dal mondo della canzone, a volte si distende in una trattazione quasi specialistica di argomenti di psicologia e pedagogia, più spesso ha l’andamento di un diario, scritto in presa diretta, a ruota libera. C’è stata, da parte tua, una ricerca stilistica consapevole o hai scritto liberamente, sull’onda del tuo bisogno di liberarti?
È una domanda molto intima questa! Però ti rispondo. No. Nessuna ricerca di stile, sarebbe troppo faticoso! Nessuna scuola di scrittura, sarebbe troppo costosa! Ho sentito semplicemente l’allarme incendio. Solo questo: bruciarmi per bruciare. A parte questa verità focale, penso che il modo in cui scrivo sia il segno visibile dell’invisibile “lavoro” di lettura a cui dedico la maggior parte delle mie notti. La propria scrittura è sempre una escrizione: il peso sulla carta del pensiero che ci abita, l’uscita da sé/di sé di ciò che siamo, di quello che viviamo. Soprattutto, per me, la scrittura è la rappresentazione di come si attraversa e si patisce il dolore.
Pensi che il racconto della tua esperienza possa aiutare chi si ritrova nella vita ad affrontare la diversità?
Ritengo questo libro un libro “politico” perché credo fermamente che il personale sia politico. La mia storia è diventata la storia di tante donne. Questo libro, infatti, io lo chiamo “librA”. È una librA, è un libro femmina. È un libro che, con la “scusa” della disabilità, racconta la storia della mia nuda fragilità, della mia mordace vulnerabilità, della mia rinnovata ciclicità. Ciò che ho vissuto grazie a mio figlio, ha creato dentro e fuori di me un vuoto, un nuovo spazio tutto personale da poter penetrare senza sentirmi estranea, né straniera. Ho avuto paura, lo ammetto. Ho avuto molta paura di restare sola e incompresa rispetto alla mia famiglia e agli occhi di altre donne. Invece, con grande sorpresa, questo racconto incarnato ha creato una risonanza emotiva straordinaria. Non appena il libro ha raggiunto le mani e i cuori di tantissime donne, sono stata letteralmente inondata di messaggi di com-prensione, di com-passione, di com-partecipazione e di con-divisione. Chi mi ha letta, si è letta. Chi mi ha guardata, mi ha riconosciuta. Si è riconosciuta. Riuscire a dar voce al muto di tante donne, è stata la mia vittoria più grande. Per questo posso urlare che “Questo sì, è un libro politico!” Questo libro parla di me, di molte madri come me (“madri disabili”), di molte donne che, come me, vivono “il problema senza nome”, la cui rabbia e violenza possono sembrare, all’apparenza, istinti isterici di femmine nevrotiche. È un libro che ha fatto chiedere a noi stesse: “Che cosa può ancora diventare una donna?” Quindi sì, spero che questo libro possa far tremare e insieme trasformare l’animo di chi lo tocca.
Da Partorire la differenza (Edizioni del Rosone, 2021)
“Ci sono momenti in cui la vita è spietata, ti dimentica stesa al suolo a marcire lì da sola, sfinita, quasi morta, con la faccia coperta di terra e il corpo sfatto e inerme.
Ci sono momenti in cui devi un po’ morire perché rinascere è una promessa che non puoi mancare. Ci sono momenti in cui la vita ti offre un’altra occasione, un nuovo viaggio, una nuova speranza che diventerà una certezza se accetti, da quel dolore, di lasciarti fecondare e a lui ti affidi e di lui ti fidi perché un’altra scelta non la puoi fare.
Mi lascerò da questo dolore violentare, lo sentirò addentarmi persino le ossa, ma lo lascerò fare, perché, alla fine, si tratterà di partorire, tra le grida, la mia salvezza.
Un nuovo parto sarà in atto, il parto di me stessa questa volta, quello più travagliato, certo, ma anche quello più desiderato.”
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