La strada giusta. Dialogo con Loredana Lipperini

di Ivana Margarese

 

La strada giusta di Loredana Lipperini fa parte della nuova quartina di racconti pubblicati da Tetra, in uscita il 4 marzo. Si tratta di un racconto surreale e a tratti perturbante dove una serie di accadimenti trascinano la protagonista, Francesca, una scrittrice che gira l’Italia per presentare i suoi libri, in uno scenario inatteso: attraversando un sottopassaggio per uscire da una stazione, si trova catapultata nel luglio del ‘71. Francesca nel suo corpo da ventenne ha la possibilità di rivivere quel periodo con una diversa consapevolezza. Un regalo o una condanna?


Comincio col chiedere come è nata l’idea per questo racconto e come hai scelto il titolo.

La nascita di questa storia è già una storia in sè. Dovevo partecipare a una manifestazione in una piccola città e, arrivata in stazione, ho preso davvero l’uscita sbagliata, e ho davvero incontrato quello che probabilmente era un tassista che mi ha fuorviato, provocando le ire della vera tassista che doveva venirmi a prendere. A pranzo, ho raccontato l’episodio a un gruppo di amici, tra cui Petunia Ollister, che mi ha detto: “una scrittrice horror che si perde in un sottopassaggio è un buon inizio per un racconto”. Da là, ho cominciato a ragionarci (del resto, non nascono così le storie? Da un dettaglio, da una piccolezza, da una conversazione?).
Il titolo è venuto di conseguenza, nella scelta della strada da prendere: e forse una strada giusta non c’è mai.

Mi ha colpita particolarmente la descrizione del corpo, un corpo che inesorabilmente, al di là della nostra volontà e del nostro pensiero, cambia col tempo. La presenza di un corpo giovane, tonico, che gode del cibo e dell’ozio – “quelli erano gli anni in cui si concedeva di mangiare pane senza preoccuparsi dei chili in più e della pancia che si gonfia”-, e di un corpo più vecchio che deve fare i conti con i suoi limiti, limiti nel cibarsi e nel muoversi. A tuo parere in un tempo “iperperformativo” come quello in cui ci troviamo a vivere è più difficile che in passato venire a patti con i cambiamenti del nostro corpo?
A questo proposito mi viene in mente la lievità della madre di Francesca, che andata in pensione a cinquant’anni, esce con il padre, gioca a carte, viaggia: “Ma mia madre sarebbe stata sempre in acqua. Non sapeva nuotare, ma si accosciava dove l’acqua era ancora bassa e si dava schiaffetti sulla pancia. “Fa dimagrire”, diceva. E rideva moltissimo, e poi andava a mangiare il pesce fritto alle sagre, e beveva vino in certi coccetti con su scritto “Saluti da Miramare di Rimini”.

Beh, il corpo è la questione centrale del nostro tempo, e del corpo delle donne over-qualcosa si parla ancora con disagio. In questo caso, però, volevo solo raccontare che con quei cambiamenti si convive, che è quello che la mia protagonista impara a fare, e che non ha senso tacerli. Si parla poco, direi, dell’invecchiamento, anche se in questa stagione editoriale le cose cominciano a cambiare: ma ho la sensazione che la mutazione fisica sia ancora un tabù. Quanto alla performance, da una parte hai ragione, dall’altra è anche vero che rispetto a venti o trent’anni fa siamo molto più curiosi e attivi anche da sessantenni, e questo, probabilmente, contribuisce a farci essere più presenti nella vita lavorativa.

 “Francesca non era bellissima, o così credeva, perché continuava a specchiarsi negli occhi degli altri e in quegli occhi vedeva riflessa un’immagine piena di imperfezioni e di incertezze. Non le è mai passato per la testa che era la sua insicurezza a renderla tale. Ma adesso che ha una testa da ultrasessantenne in un corpo da ventenne se ne rende conto. Quel che attrae Guido è il suo sentirsi completa, intera, a posto: le ci sono voluti decenni per capirlo, però”. Il passaggio dallo specchiarsi attraverso gli occhi degli altri al coltivare la propria consapevolezza è un attraversamento che richiede tempo e credo anche educazione e sostegno da parte di coloro che incontriamo e che possono aiutarci a vedere meglio la nostra personalissima “strada giusta”. È una conquista personale ma non solo. Vorrei un tuo parere in merito.

E’ molto difficile rispondere. A volte quella consapevolezza non si raggiunge mai. Di certo, quando si entra nella piena maturità e alle soglie della vecchiaia propriamente detta, ci si stupisce delle insicurezze passate, senza renderci poi conto che molte ci accompagnano ancora. Nei fatti siamo sempre ancorati allo sguardo degli altri e all’idea che gli altri si sono fatti di noi: quello che cambia è l’autonomia che man mano guadagniamo, e che ci porta – non sempre, ma più spesso – ad agire indipendentemente da quell giudizio.

La protagonista del racconto, Francesca, vive in un certo qual modo un eterno ritorno, la ripetizione dello stesso mese, luglio, di un anno oramai trascorso, il 1971: “Per cinque volte il mese di luglio fa il suo corso, dal 4 al 31. Per cinque volte Francesca viene accolta con entusiasmo alla pensione Giulietta, già pagata per tutto il mese da suo fratello, e trova i soldi in camera: dalla seconda volta non sono sulla scrivania ma in una busta, nel cassetto del comodino”. Non ho potuto fare a meno di ricordare l’isola de L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares in cui i personaggi sono condannati a un eterna ripetizione dello stesso giorno e in questa ambizione di eternità hanno rinunciato alla vita. Quali sono i romanzi, se ci sono, che hai sentito vicini nella scrittura di questo tuo racconto o che consiglieresti come letture – costellazioni possibili –  su questo tema.

Casares per primo. E, in assoluto, tutte le storie di viaggi nel tempo dove chi viaggia ha la speranza di cambiare qualcosa: su tutte, 22/11/63 di Stephen King. Ma anche un film come Il giorno della marmotta. Mi interessava molto capire come ci si muove quando si è intrappolati in un tempo non proprio con una mente, però, che appartiene al tempo da cui si proviene.

Avrei una domanda su Guido, il giovane ragazzo gentile che Francesca conosce nel suo “periodo di vacanza”.  È rimasta a fine lettura una figura misteriosa, alata, un giovane Ermes per nulla dispettoso. Vorrei mi dicessi qualcosa su questo personaggio.

Ammetto che è un personaggio di spalla, che mi serviva per raccontare soprattutto le sensazioni di Francesca: ho pensato di farle un regalo e di affiancarle una figura maschile gentile, attenta e giocosa, che potesse anche farle venire la tentazione di restare nel 1971.

L’ultima domanda: quali sono i tuoi futuri progetti personali e le idee che stai portando avanti?

Ho scritto molto negli ultimi tempi e vorrei dedicarmi soltanto al romanzo che ho in mente e che troppo spesso ho trascurato. Questo per quanto riguarda la scrittura. Per il resto, difficile dirlo: oltre alla radio, cambiano di mese in mese. Si vedrà.

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