13 Mar Conversazione intorno a “Sillabario all’incontrario” di Ezio Sinigaglia
di Michele Burgio
Ezio Sinigaglia è uno scrittore appartato, non si è mai fatto travolgere dalla necessità di esserci a tutti i costi né dall’ansia della pubblicazione. Che per la seconda volta venga segnalato allo Strega è, dunque, una buona notizia. Che lo faccia all’età di settantacinque anni è quasi una promessa di compiutezza dell’opera in questione. Ci si accosta con queste premesse – e con naturale curiosità – alle 236 pagine di Sillabario all’incontrario, appena pubblicato da TerraRossa Edizioni. Leggendo la scheda e i primi non isolati contributi apparsi su varie riviste specializzate, ci si preannuncia che il romanzo è un romanzo, sì, ma non ha un genere. Nasce come una lettera e assomiglia a un diario, ma non ne ha l’ordine. Ha una forte impronta autobiografica, perché spazia dall’infanzia al presente, ma si concede divagazioni che non necessariamente debbono rientrare nella minuteria del quotidiano dell’autore. È un giallo, addirittura, qualcuno insinua a mezza voce, e non sbaglia del tutto. L’arma è subito svelata, è una broncopolmonite, ma il colpevole non si trova. Forse è Italo Svevo, in qualche modo, e la trasposizione in inchiostro della propria coscienza.
Ma lei, Ezio, va anche oltre la certezza di Zeno che la scrittura conti più di ogni psicanalisi. “Scrivere è la sola cosa che renda vivibile la vita”. Questa frase è lì, nell’ultima pagina del Sillabario. Forse che la vita non vale di essere vissuta, fosse solo per raccontarla come sosteneva Garcia Márquez, ed è soltanto un accidente che la scrittura riscatta? O, oltre ogni finzione letteraria, al diavolo anche la scrittura, eterna mimesi ed inganno?
No no, la vita è vivibilissima finché si è giovani, se si è nati nella parte privilegiata del globo e se, com’è successo alla mia fortunata generazione fino al 2022, si vive in un mondo (in uno spicchio di mondo) senza guerre. Insomma, la vita è vivibilissima se e fino a quando se ne possono godere intensamente i piaceri e le emozioni. Quella frase, “scrivere è la sola cosa che renda vivibile la vita”, non deve essere astratta dal suo contesto, che è descritto, credo, con una certa precisione nelle ultime righe del romanzo: si parla di “sintomi” di una mutata condizione, dopo la malattia che è stata la scaturigine, il movente del romanzo. E il sintomo principale è appunto questo: “scrivere è [ormai] la sola cosa che renda vivibile la vita”. È una frase valida in quel contesto e nei contesti previsti per il futuro. E dire che a quell’epoca non pensavo minimamente che mi aspettasse, di lì a una ventina d’anni, un nuovo destino di scrittore edito. Altrimenti avrei potuto dir meglio: “Scrivere e occuparmi con amore di quel che ho scritto sono ormai le sole cose che rendano vivibile la vita”.
Ammesso che, come si è detto, il Sillabario possa contenere una sfumatura di giallo, non è certo un giallo classico. A questo genere letterario, inoltre, viene riservata un’intera lettera. Lei dice che “non esiste genere letterario che ridimensioni la morte più del giallo: nel giallo la morte perde tutta la sua luttuosità, la sua solennità, la sua retorica per diventare semplice spunto narrativo”. E poi, più avanti: “il romanzo giallo scava nella psiche umana fino a raggiungere e a mettere allo scoperto il nucleo di autenticità primitiva che vi si annida: un nervo mai addomesticato, presociale, che si ribella all’odiosa necessità di esser perbene”. Mostra di conoscere bene il genere, e offre interessanti riflessioni in merito, da Poe sino ad Agatha Christie e Simenon. Non mi risulta che sinora lei abbia scelto di cimentarsi in un giallo vero e proprio. Mi sbaglio? Se no, come mai?
In realtà la sola cosa nuova che vorrei scrivere è proprio un giallo: un romanzo giallo sul romanzo giallo (una sorta di “meta-poliziesco”), che mi sembra possa chiudere degnamente il percorso iniziato con Il pantarèi, che era un romanzo sperimentale del Novecento sul romanzo sperimentale del Novecento. Insomma, un romanzo con un’ampia parte saggistica, al centro della quale ci dovrebbe essere la figura dell’assassino dalle origini del genere fino ai giorni nostri. Naturalmente però, proprio come Il pantarèi, si tratterebbe di un romanzo tutto da ridere, sia nella parte narrativa sia in quella saggistica. Ce l’ho in cantiere da un po’. Sono le mie forze calanti il solo vero ostacolo.
“Gli errori mi attraevano, riuscivano ad accendere la mia curiosità piuttosto pigra: in un certo senso si potrebbe anzi dire che ero assetato di errori, di difetti, di inattese irruzioni dell’involontario” scrive a proposito di memorie della sua infanzia. È ancora attratto dagli errori? E che ruolo ha avuto l’errore nella sua storia di scrittore?
L’errore ha avuto una grande importanza soprattutto nella mia vita di lavoro, che sarebbe ridicolo chiamare “professionale”. Il primo mestiere di un certo rilievo che ho fatto è stato quello di redattore di una rivista mensile di economia, “Economia pubblica”. Redattore fa rima con errore e, in pratica, sta lì gran parte del suo lavoro: nell’errore. Il redattore deve correggere gli errori, ma commette quasi immancabilmente errori a sua volta: il tipo di errore più frequente consiste nel non vedere gli errori commessi da altri, quello più grave nell’introdurre errori che originariamente non c’erano (questo poteva accadere facilmente quando si componeva con la linotype: tutte le righe che contenevano errori nelle prime bozze venivano composte da capo nelle seconde, di modo che al redattore potevano a quel punto sfuggire errori nuovi, che non ci sarebbero stati se lui non avesse corretto gli errori precedenti). Succedeva che commettessi, anche se non spessissimo, errori di entrambi i tipi. Era un mestiere per il quale non dimostrai mai un particolare talento: però mi aiutò molto a riflettere sul concetto di errore e sulla inevitabilità ed anzi – direi – sulla necessità della loro occorrenza. Perciò perdono con indulgenza gli errori degli altri, il che mi ha consentito perfino di non serbare rancore verso i miei (numerosissimi) mancati editori. A differenza di quanto afferma il celebre adagio latino, trovo infatti che sia umano non soltanto errare, ma anche perseverare nell’errore. È una questione ideologica, quindi umanissima.
Ricorre spesso la figura del padre, ma a me ha colpito particolarmente quella del fratello, descritto come una sorta di doppio allo specchio. Un altro da sé profondamente diverso: assai loquace, protettivo, rigoroso, mansueto e giudizioso. A tutt’oggi questo confronto mi pare affrontato con una certa ansia, in cui l’ammirazione si mescola ad una specie di sollievo nella costatazione di questa diversità tra voi. Dico bene?
Mio fratello, nella sua/nostra infanzia/adolescenza, era soprattutto brillante, di un’intelligenza che definirei eccessiva. Eccessiva, intendo dire, non per lui, ma per l’ambiente di cui io ero parte. Non si può certo fare una colpa a qualcuno di essere più intelligente degli altri. Al contrario, come a tratti emerge dalla lettera H di Humour, sono arrivato alla conclusione di non avere, nei confronti della sua scintillante esuberanza, altro che debiti di gratitudine. Perché, a poco a poco, con una consapevolezza dapprima ottusa e poi via via più acuta, sulla mia apparente inadeguatezza ho costruito l’edificio della mia personalità, trasformando quella che sulle prime poteva essere definita un’intelligenza pigra in una pigrizia intelligente. In poche parole la mia necessità di differenziarmi da mio fratello l’ha creata mio fratello: io non ho fatto altro che approfittare delle circostanze. Circostanze irripetibili, in assenza delle quali non sarei mai diventato uno scrittore.
Ben dieci pagine del Sillabario sono dedicate a Clara, la ragazza delle pulizie. “Clara non legge per posa, ma per sete: Clara è abbastanza lontano per capire che l’ignoranza è una voragine infinita, un pozzo senza fondo, e non una lacuna che qualche libro ben scelto può colmare: un libro può aprire buchi, se è un buon libro, non richiuderne”. La passione per la lettura è trasversale, e spesso ci accorgiamo che i lettori più voraci non necessariamente sono i più scolarizzati. E lei, invece, che lettore è? Se dovesse indicare un precedente letterario del suo Sillabario, a chi farebbe riferimento?
Clara è diventata un personaggio cruciale del romanzo per via di una caratteristica che me la rendeva simile: la lontananza dal mondo, l’indifferenza al calcolo e ad altri valori che sono invece quelli dominanti della nostra società. Leggendo e analizzando in lei questa anomalia, l’ho potuta meglio definire e studiare dentro di me. Non a caso, anche come lettrice Clara mostra qualche somiglianza con il narratore, cioè con me stesso. Anch’io sono un lettore vorace e disordinato di romanzi, anch’io non nutro un rispetto acritico e aprioristico per le gerarchie e i canoni prefabbricati (se un romanzo mi annoia a morte, lo pianto lì, fosse pure targato Tolstoj), anch’io cerco nei romanzi soprattutto uno sguardo diverso da ogni altro e, per finire, quando parlo dell’ignoranza come di una voragine infinita, di un pozzo senza fondo, non parlo soltanto dell’ignoranza di Clara ma anche della mia e di quella di noi tutti. Certo io sono stato più fortunato di Clara, ho studiato più a lungo e ho potuto leggere di più: ma la sostanza non cambia: il sapere di ciascuno di noi è un sottilissimo strato di vernice dorata spalmato sul coperchio del pozzo abissale dell’ignoranza. Quanto ai precedenti letterari, Sillabario all’incontrario ne ha sicuramente due: Parise per il titolo deliberatamente fuorviante e Svevo (lo Svevo di Zeno) per la fede nella letteratura come medicina efficace (il fatto che il cognome del medico prescrittore cominci per S, cosa che in un sillabario sembrerebbe avere una sua importanza, è solo una divertente coincidenza). Questi sono i due precedenti consapevoli: poi ce ne sono innumerevoli altri, perché il rapporto con la malattia, specie con la malattia psicologica, è uno dei più fecondi della letteratura: per limitarmi all’ambito più ristretto della scrittura come cura della depressione, posso citare gli esempi di Giuseppe Berto (Il male oscuro) e di William Styron (Un’oscurità trasparente). Ma intendiamoci: se come lettore cerco in un romanzo uno sguardo diverso da ogni altro, figuriamoci come scrittore! Dai miei precedenti mi allontano sempre a gran velocità.
Già in altre opere, a partire dal lontano esordio con Il pantarèi, la sua cifra stilistica è sempre stata assai personale e incline allo sperimentalismo. Sotto la lettera “P” troviamo, come in fondo era prevedibile, il Padre. Eppure non mi sarei stupito se vi avessi trovato la parola “Punteggiatura”. Ho visto che lei ne fa un uso del tutto personale, soprattutto riguardo ai cosiddetti “due punti”, adoperati come una sorta di ricorrenza asindetica. L’interpunzione ha avuto un precipuo ruolo nella costruzione retorica del Sillabario?
Dal punto di vista stilistico e soprattutto linguistico, credo di poter dire che il Sillabario è il meno sperimentale dei miei romanzi. Nel mio progetto iniziale era poco più di una lunga lettera scritta al dottor S., ma enormemente più breve della Coscienza di Zeno: sulle prime pensavo che me la sarei cavata in una cinquantina di pagine. Perciò la “voce”, quell’essere magico che scrive i romanzi al posto dei romanzieri, era in questo caso facilissima da trovare: era la mia voce di epistolografo, senza veli e possibilmente senza reticenze. Ho sempre scritto lettere, fin da ragazzo: lettere lunghe e magari spiritose, o a volte drammatiche e fluviali, molto curate nella prosa e perfino nel ritmo: potrebbe quasi sembrare che già pensassi alle raccolte postume dei miei carteggi, mentre in realtà pensavo solo al destinatario e al mio desiderio di esserne capito. Quindi ho adottato quella voce lì, quella prosa lì, quella epistolare. Non mi sono dovuto chiedere come costruirla perché ce l’avevo già dentro. È però vero che, partendo dalla finzione del sillabario, ho agito in modo molto personale sugli elementi tipografici: un blocco per ogni lettera dell’alfabeto, senza mai andare a capo, come nei dizionari e nelle enciclopedie: e pochissimi punti fermi, perché in fondo il libro era una trascrizione del pensiero, e il pensiero non si ferma mai. I pochi punti che si trovano sono veri e propri atti di indulgenza nei confronti del povero lettore (del dottor S., quindi). C’è invece una frequenza anomala dei due punti. I due punti mi piacciono perché, mentre segnano una pausa, già si aprono verso quel che segue, come le note puntate in una partitura: quel che propongono non è una sosta, ma un semplice rallentamento, cui seguirà una nuova accelerazione. I due punti disposti così, frase dopo frase, a cannocchiale, li trovo efficaci: credo che invitino alla lettura, proprio come il cannocchiale invita all’esplorazione. Il punto e virgola non fa lo stesso lavoro, perché è una vera pausa, una fermata. Tirando le somme, lo sperimentalismo del Sillabario è tutto qui, nelle trovate tipografiche: devo essere grato a Giovanni Turi per averlo accolto ugualmente nella sua collana, che si chiama appunto “Sperimentali”.
Ci sono lettere che risolvono il loro argomento in poche pagine o addirittura in poche righe come O(ltre) e altre, come appunto P(adre), o come N(arcosi) o E(ros), che danno avvio ad una fluvialità psicanalitica. Si è dato dei limiti, si è imposto degli schemi? E, volendo ampliare il discorso, è un libro che, una volta terminato, ha dovuto raccorciare o è stato concepito già con un suo equilibrio che l’ha soddisfatta?
Non l’ho concepito con un suo equilibrio, eppure non l’ho dovuto né accorciare né allungare. Non potevo immaginare, al principio, che venisse fuori com’è venuto, e tuttavia è venuto come mi piaceva. Come si può dedurre da quel che ho detto poco fa, non c’è niente di premeditato in questo romanzo, a cominciare dalla stessa sua natura di romanzo (visto che l’avevo cominciato come una lettera). Bisogna pensare che, verso la fine degli anni ’90, quando l’ho scritto, il concetto di autofiction, ammesso che già esistesse, mi era del tutto ignoto. Non avrei mai immaginato di poter pubblicare, da vivo, un libro come questo, che parla in modo pressoché esclusivo del mio privato. A chi può interessare il privato di uno scrittore sconosciuto? Di conseguenza ho pensato ben poco alla costruzione. La mia volontà progettuale si è limitata a questo: individuare, alla fine di ogni capitoletto, una parola che cominciasse con la lettera successiva (cioè con quella precedente) e che mi consentisse di andare avanti (cioè all’indietro). Sono grato all’ordine alfabetico, sia pure capovolto, per aver piazzato la lettera H dove l’ha piazzata, all’incirca a metà strada. Perché la H, è chiaro, offre un numero molto esiguo di alternative: fosse capitata all’inizio (cioè verso la fine dell’ordine alfabetico), avrei dovuto scegliere Habitat: e l’umorismo, a quel punto, dove sarebbe andato a finire?
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