Riscoprire Laudomia Bonanni. Dialogo con Daniela Pietragalla

di Ivana Margarese

 

Laudomia Bonanni è una scrittrice italiana – che dopo aver goduto di un breve periodo di notorietà è stata a lungo dimenticata –  recentemente riscoperta, grazie al lavoro instancabile di alcuni studiosi e alle recenti ripubblicazioni di alcuni suoi romanzi come Il bambino di pietra e Le droghe.

“Il libro dev’essere come un sasso che si butta per colpire” diceva Bonanni rappresentando con questa immagine in modo assai efficace la sua scrittura affilata e attenta, capace di illuminare come un lampo e di muoversi con disinvoltura in luoghi sotterranei, con uno stile asciutto, ironico e disincantato in grado di rilevare, come attraverso una lente di ingrandimento, le trame contraddittorie della psiche.
Laudomia Bonanni è sottile. Cuce insieme le parole, penetra e pungola. Il suo occhio sulla realtà non è mai banale, le sue figure femminili hanno lo sguardo disincantato di chi non aderisce del tutto al mondo e nel loro lucido smarrimento ricordano certi personaggi di Agota Kristof.
Daniela Pietragalla le ha dedicato un saggio dal titolo Nessuno ha figli. Storie di donne e di bambini in guerra nella narrativa di Laudomia Bonanni (1907-2002) su cui abbiamo dialogato insieme sulle tracce della scrittrice abruzzese.

 

 

NELL’INTERVISTA FATTALE DA SANDRA PETRIGNANI, CONTENUTA IN LE SIGNORE DELLA SCRITTURA, LAUDOMIA BONANNI RACCONTA DELLA SUA “FAME DI LIBRI” SIN DA PICCOLA. UNA PASSIONE A CUI SI È INTERAMENTE DEDICATA COSÌ CHE LE È RIMASTO POCO TEMPO PER IL RESTO. BONANNI PARLA ANCHE DI UNA VITA SEMPLICE, QUASI OPACA, IN CUI TUTTAVIA AVVENIVA TANTO INTERNAMENTE. QUAL È IL TUO PERSONALE RITRATTO DI LAUDOMIA BONANNI?

“Misantropa gentile”. Ho sempre ritrovato la Bonanni in questa acuta definizione di Pietro Zullino, figlio di Adele Agamben, l’amica di tutta una vita di Laudomia, e suo appassionato biografo: “Misantropa gentile: un sorriso a tutti, chiacchiere e confidenze a nessuno”. Per quanto si possa intuire dalle carte, la Bonanni è stata una donna riservatissima, solitaria, di principi molto saldi, tormentata da qualche rimpianto di troppo, eppure sempre capace di profonda empatia. In ogni modo, una donna enigmatica e forse proprio per questo capace di suscitare ancora oggi vivo interesse. Sono al corrente di situazioni personali difficili vissute dalla Bonanni ma ho comunque molto pudore nell’esprimere valutazioni sulla vita privata di una donna così schiva: “Io scomparirò, ma che restino le carte. Dopo morti si è accettati. E magari meditati” è la battuta affidata all’io narrante del romanzo postumo La rappresaglia, un maestro in pensione “incredulo di essere vecchio”, sorta di alter ego della scrittrice. L’impressione generale è quella di una persona disallineata rispetto al mondo in cui si trovava a vivere.

IL TITOLO DEL TUO SAGGIO È NESSUNO HA FIGLI. STORIE DI DONNE E DI BAMBINI IN GUERRA NELLA NARRATIVA DI LAUDOMIA BONANNI (1907-2002). COME È NATO QUESTO TITOLO?

Cercavo un titolo che sintetizzasse i temi principali della narrativa bonanniana, la maternità, l’infanzia, ma soprattutto la filosofia di vita vicina all’esistenzialismo. Quell’aforisma mi risuonava continuamente in testa per vari motivi. In primo luogo perché mi sembrava una esemplificazione abbastanza spietata del modo, tra l’altro sorprendentemente attuale, che la Bonanni ha di intendere la vita: nessuno ha figli perché siamo tutti bruscamente gettati nel fosso dell’esistenza, per sempre figli unici di una forza insondabile e sconosciuta, e saltuariamente diventiamo madri e padri di nostri consimili condannati alla nostra stessa solitudine. La lapidaria sentenza “nessuno ha figli” esprime, a mio parere, il senso più profondo, da una parte, della fede nel maternage e, dall’altra, della riflessione etica sul senso effettivo della vita. A tale proposito, vorrei citare un passo del romanzo Le droghe in cui Giuliana, madre adottiva, rivolgendosi accoratamente al figlio Giuliano, sottolinea la propria posizione privilegiata nel processo di accudimento: “Sono ricorsa al ricatto emotivo. Io ti ho raccolto, io ti ho allevato, io ti ho amato, io per tutta la vita … Così, rinfacciandogli al telefono, senza pudore, vigliaccamente. Ma a che è servito. Non ti ho messo al mondo ed è l’unica cosa che non mi puoi rimproverare.” La potenza di queste battute riflette, a mio parere, il peso insostenibile della decisione di dare la vita, di gettare volontariamente una creatura inconsapevole nel fosso di un’esistenza che si è condannati a vivere: non dimentichiamo che il motto scelto dalla Bonanni per identificare i racconti presentati in busta chiusa al concorso degli Amici della Domenica era proprio “vivere è necessario”.

LE FIGURE FEMMINILI DESCRITTE DALLA SCRITTRICE ABRUZZESE HANNO SPESSO IN COMUNE UNA CERTA ANESTESIA SENTIMENTALE, QUASI CHE UNA FORMA DI IPERSENSIBILITÀ O VULNERABILITÀ ORIGINARIA LE AVESSE CONDOTTE A UNA INDIFFERENZA NEI CONFRONTI DELLE “BELLE E BUONE ILLUSIONI” DEL MONDO. LA CONSAPEVOLEZZA DELLA PAURA CHE ACCOMPAGNA L’ESISTENZA LE PORTA A UN DISTACCO SENZA INFINGIMENTI O ECCESSIVE ROMANTICHERIE. QUAL È IL TUO PARERE IN MERITO?

Sì, riconosco questo tratto nella scrittura bonanniana, e credo che dipenda sostanzialmente dal destino di nascere donna, da quello che significa nascere donna. Per la Bonanni, la donna è un essere costituzionalmente e culturalmente destinato a difendersi, costretto a farsi più scaltro dell’altro. Fin dall’infanzia, le donne sono bambine in guerra, indipendentemente dal loro status, perché da subito devono combattere per conquistarsi finanche il minimo spazio nella vita e nella società. Alcune donne soccombono, altre diventano abili manipolatrici, tutte, prima o poi, sono chiamate a confrontarsi con una realtà ben poco illusoria che peraltro le accompagna dall’infanzia. Si veda, ad esempio, la differenza del comportamento materno nell’allevare un figlio maschio o una figlia femmina: l’amore smodato, animalesco quasi, da una parte, l’affetto tiepido e guardingo dall’altra. La donna ha poco da illudersi perché subito il suo orizzonte fantasioso si sgretola. Penso, ad esempio, alla perdita dell’innocenza, nel romanzo Il bambino di pietra: per Cassandra il corto circuito avviene per colpa della malizia degli adulti quando sfiorando per errore la patta del padre viene da lui interrogata con grande allarmismo circa le sue effettive intenzioni. Mi sembra un momento profondamente simbolico. Non ci sono sogni, non ci sono illusioni, la vita non lo permette.

PARLIAMO DI RAPPORTI TRA DONNE. TI DOMANDO INNANZITUTTO DA COSA NASCE L’AMMIRAZIONE DI LAUDOMIA BONANNI VERSO SIBILLA ALERAMO, SCRITTRICE CON UNO STILE PER CERTI VERSI DISTANTE DAL SUO.

La mia impressione è che la Aleramo rappresentasse per la Bonanni, con “l’imponenza” (è una citazione dall’epistolario) della sua personalità, l’incarnazione di una donna pienamente emancipata, libera, coraggiosa nell’affermazione letteraria ed esistenziale della propria femminilità. Credo, inoltre, che “la mitica Sibilla”, come la definisce in una lettera, simboleggiasse il fascino che la enclave degli scrittori “laureati” esercitava da sempre sulla Bonanni salvo poi deluderla amaramente. Nel contesto culturale del dopoguerra in cui è molto sentita l’appartenenza politica, l’Aleramo diventa una icona del PCI mentre la Bonanni, sostanzialmente appartata, rimane in un limbo tra la diffidenza della cultura di sinistra, di cui pure tratta temi tipici come l’emarginazione e il proletariato, e le critiche degli ambienti culturali più reazionari che accolgono con scandalo molte sue riflessioni sul femminismo e sulla maternità.

MARIA BELLONCI È UNA FIGURA FEMMINILE LEGATA A UN PERIODO FELICE DELLA VITA DI BONANNI. COME POTREBBE ESSERE DESCRITTO IL LORO RAPPORTO?

Leggendo l’epistolario e ripercorrendo un po’ tutta la vita di Laudomia, si avverte che il ricordo della frequentazione di casa Bellonci è assimilata alla suggestione di una sorta di paradiso perduto. A Maria Bellonci Laudomia era legatissima e soprattutto assai grata perché aveva dato una sterzata alla sua esistenza nel momento giusto: “l’inizio del mio viaggio fu dalla tua casa”, le scriveva la Bonanni confidandole, nel tempo, intimi dolori, come la depressione ricorrente, e nuovi progetti letterari. Anagraficamente la Bonanni era più vicina alla Bellonci che a Sibilla Aleramo: il loro fu un sincero rapporto amicale coltivato per tantissimi anni. È ancora a Maria Bellonci che Laudomia ricorre nel 1985, poco prima del ritiro definitivo, sperando in un suo aiuto per la pubblicazione, congelata da Bompiani, del romanzo, poi uscito postumo, La rappresaglia.

ALTRA RELAZIONE IMPORTANTE DI BONANNI È QUELLA CON LA MADRE. ENTRAMBE SVOLGEVANO LA PROFESSIONE DI MAESTRE E CERTAMENTE LA MADRE DI BONANNI HA SEMPRE MANIFESTATO FIDUCIA NEL TALENTO DELLA FIGLIA. EPPURE DA CERTE LETTERE SEMBRA EMERGERE UNA CONSAPEVOLEZZA AMARA DA PARTE DELLA SCRITTRICE, OVVERO CHE PREFERISSE IL FRATELLO RISPETTO A LEI, SEMPLICEMENTE PERCHÉ MASCHIO. QUESTIONE CHE SEMBRA EMERGERE ANCHE NELLE OPERE LETTERARIE DI BONANNI.

Il rapporto di Laudomia Bonanni con il mondo femminile è indubbiamente complesso e per certi versi ambivalente, senz’altro influenzato dalla personalità granitica della madre dalla quale riuscirà a distaccarsi soltanto in età più che matura. Nella sua ricerca di rapporti di amicizia con scrittrici famose, donne indipendenti e forti, e nel delineare, all’interno della sua produzione narrativa, una sorta di donna virago, forte e determinata nell’affrontare la caduta nel fosso che è la vita, mi sembra di poter dire – senza voler fare della psicologia spicciola – che Laudomia sia sempre alla ricerca di una figura femminile in cui identificarsi. La madre è colei che la sostiene concretamente nelle sue aspirazioni letterarie ed è la nonna, per così dire, di libri a lei dedicati come nipoti (“A mamma, questo cartaceo ma robusto nipote” si legge in una dedica autografa). Di contro, la madre è anche colei che come tutte le donne della narrativa bonanniana “impazzisce quando ha con sé un figlio maschio”. Un elemento costante nei romanzi di Laudomia, come ho cercato di dimostrare nel mio saggio, è difatti la dicotomia figlio maschio/figlia femmina: il maschio è quasi venerato dalle madri, curato, vezzeggiato, protetto, mentre il rapporto con la figlia femmina è sempre conflittuale o peggio distratto, assente, a volte anaffettivo. Questa discrasia si rispecchia, sotto il profilo linguistico, anche in peculiari e mirate scelte lessicali ed è legata all’idea della insensatezza di un destino che vuole le donne maritarsi e figliare per fare poi da schiave agli uomini di casa.

LE PROTAGONISTE DEI TESTI DI BONANNI MI RICORDANO QUASI DELLE ASTRONAUTE IN EQUILIBRIO TRA LA MERAVIGLIA DEL MONDO E IL DISGUSTO PER I COMPORTAMENTI DEGLI UOMINI. DA QUESTA PROSPETTIVA SAREBBE INTERESSANTE ANCHE RIFLETTERE SULLA SESSUALITÀ, DI CUI BONANNI AMPIAMENTE SCRIVE NEI SUOI LIBRI, TANTO DA RICEVERE ACCUSE DI ECCESSIVA SPREGIUDICATEZZA E DI ACCENNI SCONVENIENTI.

Senz’altro, l’attenzione della Bonanni per gli aspetti più corporei e carnali dell’esistenza è fin dall’inizio costante in tutta la sua produzione narrativa assumendo nel tempo, soprattutto nei romanzi degli anni ’70, una espressione via via più schietta ed esplicita. Del resto, l’ispirazione della scrittrice nasce da quel mondo contadino dell’entroterra abruzzese – da lei ben conosciuto durante il periodo dell’insegnamento elementare – segnato dal contatto con la natura anche nei suoi aspetti più brutali ed è influenzato dall’esperienza di consulente del Tribunale dei Minori spesso alle prese con storie di miseria e di infanzia violata. La sessualità per la Bonanni è centrale nella vita di coppia perché rappresenta sia il campo di battaglia in cui si scontrano, nella loro più spontanea veracità, due diverse e contrapposte energie vitali, sia una sorta di misuratore di un afflato sentimentale destinato a diminuire fino a farsi fastidiosa abitudine, anche se alla fine è sempre in due che ci si salva: “Meglio essere soli in compagnia” è la battuta affidata al marito della protagonista de Il bambino di pietra. In una visione pessimistica dell’esistenza, è la coppia, con tutte le sue tortuose dinamiche, a offrire una via di uscita dal fosso.

INFINE TI CHIEDO DELLA PRODUZIONE LETTERARIA PER L’INFANZIA DI BONANNI.

I libri per l’infanzia di Laudomia costituiscono un capitolo straordinario della sua attività di scrittrice. Si tratta di una produzione ricchissima e complessa, a torto dimenticata, che inizia alla fine degli anni Venti e continua fino agli anni Sessanta comprendendo opere eterogenee: filastrocche spensierate, come, ad esempio, la raccolta Il canto dell’acqua, racconti di stampo realistico (Damina Celina e Rovello), un romanzo coloniale, Men. Avventura al Nuovo Fiore, una favola surreale (Le due penne del pappagallino Verzè). Ciò che emerge immediatamente, già ad una prima lettura, è che l’infanzia, per la Bonanni, è una età senza idillio, talvolta specchio di prevaricazioni drammatiche, consapevole delle differenze sociali e dell’ingiustizia. Nelle pagine bonanniane si avvicenda una costellazione di bambini in guerra, modernamente descritti come portatori sani di una età né lineare né innocente, ma anzi drammatica, conflittuale, pluristrutturale. Anche scrivere dell’infanzia, al pari di scrivere per l’infanzia, è una istanza creativa assai forte nella scrittrice, come si evince dalla lettura di quello che è stato definito un antivangelo, Vietato ai minori, discesa cupissima negli inferi di una infanzia abusata e senza speranza e dalla presenza costante di personaggi bambini in tutta la sua narrativa. Con grande sensibilità e acume, derivanti certo dalla lunga esperienza di maestra, la Bonanni riesce a rappresentare in maniera credibile e realistica pensieri e comportamenti dei bambini, spesso in conflitto con pregiudizi e aspettative degli adulti. Senz’altro si tratta di una produzione da riscoprire, rileggere e analizzare anche in collegamento con il resto della produzione narrativa della scrittrice.

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