Il cinema di Péter Forgács

di Ivana Margarese

 


Péter
Forgács è un artista ungherese sperimentale e un regista indipendente, autore di numerosi film
 di compilazione o found footage, il cui metodo consiste nel creare un nuovo film da collezioni di film già girati, prevalentemente film di famiglia. E’ certamente possibile, pur nelle differenze, rilevare delle affinità con il lavoro, più noto in Italia,di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, anch’essi esploratori di archivi cinematografici.
La prospettiva di Forgács e di Gianikian e Ricci Lucchi rispetto al materiale da loro rielaborato potrebbe  riassumersi in una domanda del tipo: «che cosa ho visto in questi film?». Come spiega Forgács, avvicinarsi a queste immagini è simile al gesto dello sbucciare una cipolla, in cui ci sono vari strati: “Questa è la superficie. Pensa adesso, o meglio intuisci, che cosa c’è al di di essa, che cosa deve essere stata la realtà se questo è il suo aspetto”.
La ricerca di Forgács, così come quella di Gianikian e Ricci Lucchi, è tanto feconda da condurre direttamente al centro dell’elaborazione culturale del concetto di memoria. Come un percorso a ritroso sulle tracce della memoria, questi film realizzano un procedimento di ricompilazione di elementi frammentari e discontinui.

Il procedimento stesso dell’attività memoriale, peraltro, è un procedimento di montaggio, capace non di restituirci propriamente il passato così come è stato, ma di crearlo nel suo attualizzarsi. In tal senso, la memoria è un organo rivolto al futuro in grado di restituire al passato la sua possibilità. I lavori cinematografici di Forgács, così come quelli di di Gianikian e Ricci Lucchi, hanno il merito di fare riemergere immagini apparentemente scomparse, che giacciono inutilizzate e obliate negli archivi o nelle collezioni amatoriali e raccontano storie dimenticate che vale la pena far riaffiorare.
Per comprendere meglio la poetica del regista ungherese e mettere a fuoco le sue peculiarità, ècertamente utile fare riferimento anche a quelle che sono state in- fluenze rilevanti per il suo lavoro. Innanzitutto il ruolo svolto dal movimento avanguardistico legato al Béla Bálazs Film Studio, uno studio ungherese indipendente dove era possibile fare film a basso costo, i quali seppure venivano spesso censurati dal regime sovietico, lo erano soltanto dopo essere stati realizzati e non, come accadeva di solito, dando indicazioni di censura prima ancora che il film venisse girato. Ciò comportava che il Béla Bálazs Film Studio godesse eccezionalmente di una certa dose di libertà e della possibilità di fare piccoli film indipendenti, negli stessi anni in cui negli Stati Uniti autori come Jonas Mekas o Stan Brakhage prova- vano a finanziare in maniera indipendente i loro lavori. All’interno del Béla Bálazs Film Studio operava inoltre il gruppo K-Three, un gruppo di cinema sperimentale fondato da Gabor Bódy, il quale, nel 1978, insieme ad un altro filmmaker ungherese, fece un film intitolato Private History, usando film amatoriali 8mm e mostrando uno sguardo nuovo e originale verso un genere di film che solitamentegodeva di poca considerazione.
Accanto a Private History di Gabor Bódy, Forgács riconosce come significativa per il suo lavoro una collezione di immagini fotografiche, raccolta dal direttore della fotografia Sándor Kardos e da un piccolo gruppo di suoi assistenti. Questo archivio chiamato significativamente «Horus», dal nome del dio egizio legato alla simbologia dell’occhio, raccoglieva fotografie «sbagliate», gettate via come scarti: fotografie mosse, sfocate, con inquadratura non centrata, teste tagliate o figure in movimento . Secondo Kardos, l’errore era da interpretare come il segno del dito di Dio: il momento in cui Dio si sostituiva al fotografo nel pigiare il bottone della macchina fotografica.


Queste esperienze hanno dunque contribuito a dare a Péter Forgács l’idea di una raccolta di film amatoriali, interessante sia dal punto di vista storico e culturale sia dal punto di vista psicologico in un paese quale era allora l’Ungheria,  controllato dal regime sovietico dopo la Seconda Guerra Mondiale. I filmati di famiglia a cui attinge Forgács furono girati negli anni trenta e quaranta da uomini appartenenti alla classe media, la cui situazione personale e finanziaria si aggraverà dopo la fine della guerra e le cui proprietà saranno confiscate dal nuovo governo.
Da questa prospettiva guardare le immagini di questi film danno accesso a un’altra Ungheria, un’Ungheria nascosta e occultata, un’Ungheria non pubblica ma privata, da qua il titolo della serie documentaria che ha impegnato il regista per molti anni, sin dal 1988: «Privat Magyarorszag»(Ungheria Privata). Privat Magyarorszag è una specie di romanzo familiare, ma sotto un altro aspetto è in qualche modo una seduta di psicoanalisi di gruppo, di psicoanalisi artistica del passato ungherese, che attinge a collezioni di film di famiglia provenienti dal Private Photo e Film Archive di Budapest, che comprende più di 300 ore di film familiari e quaranta ore di interviste realizzate con i parenti dei vari cineamatori. Le famiglie commentavano i filmati dicendo chi e che cosa fosse stato ripreso e dove equando potesse essere avvenuto ciò che i film stavano mostrando, in una stimolante giustapposizione tra la narrativadegli home movies e la meta-narrativa delle interviste. Attraverso varie collezioni di filmati familiari, Forgács rappresenta in questo modo la storia ungherese del Novecento. Una storia fatta di vicende collettive e personali, che combina dettagli analitici con visioni panoramiche, mostrando come micro e macro livelli della storia si incrocino e si compenetrino.


Cosi come Walter Benjamin coi suoi
Passages aveva cercato di rappresentare la storia del XIX secolo non per mezzo di una costruzione astratta, ma come commento a una realtà concreta, Forgács prova a raccontare il XX secolo attraverso la composizione di effimeri, banali, film familiari, da lui definiti come messaggi dal passato per lo spettatore odierno, costruendo una specie di balzachiana comédie humaine:

«’Privat Magyarorszag’ l’ho pensato come un vasto affresco, un’ opportunità di andare oltre l’immagine, non solo di vedere la sua superficie. Allineando una storia familiare dopo l’altra, diventava sempre più una costruzione all’internodella quale si intrecciava un dialogo: quello che si era perso in una poteva apparire nell’altra. La mia ambizione era di dare vita a una sorta di balzachiana «Comédie Humaine». Ma con la novità dell’uso di un diario effimero, accidentale,non pianificato, non professionale, con le sue clandestine e rivelatrici ‘brutte immagini’. L’altra faccia dell’esistenza umana, l’invisibile. Che mette in mostra i cliché, gli stereotipi, le banalità. Ma anche la morte è banale, la nascita è banale. I diari cinematografici privati di filmmakers dilettanti sono per me una specie di tesoro per la connotazione, lapossibile ricontestualizzazione. Se tu leggi le opere dei migliori scrittori ungheresi recenti, come Péter Nadas, Péter Ester-hazy o Pal Zavada, scopri che sono spesso basate su diari o scritture preesistenti, dunque, appunto, frutto di un lavoro di ricontestualizzazione. Rielaborare materiale cinematografico preesistente è un po’ come scrivere un romanzo postmoderno. Con tutto il rispetto per gli originali, ma con l’attribuzione di una diversa aura attraverso la tecnica del collage. E ‘Privat Magyarorszag’ è una specie di romanzo familiare, ma sotto un altro aspetto è in qualche modo una seduta di psicoanalisi di gruppo, di psicoanalisi artistica del passato ungherese».

Come se guardasse attraverso un prisma, l’artista interroga le immagini del passato, cristalli di memoria, per avvicinarsi a comprendere cosa è rappresentazione e cosa è memoria. Forgács interroga e illumina le ombre del passato; e in questo, per citare quanto dice Giorgio Agamben, si rivela pienamente contemporaneo, in quanto tiene lo sguardo fisso al nostro tempo per percepirne l’inattuale: non le luci, ma il buio, così da trasformarlo mettendolo in relazione con altri tempi e leggendone la storia in modo inedito.
Il ritmo del film dischiude lentamente lo spettatore alla visione e allo spazio delle immagini, che non si sovrappongono le une alle altre in una percezione distratta, ma continuano a pulsare come una ferita, stimolandolo a prendere parte al discorso, a trovare il suo filo all’interno del labirinto. Forgács lascia aperto il ventaglio delle interpretazioni, ponendosi in un atteggiamento di collaborazione con lo spettatore, affinché quest’ultimo possa compiere unlavoro di assemblaggio secondo il proprio punto di vista:

«Io, come autore, non voglio prendere decisioni sul passato del fruitore. In questo contesto, lascio aperto il ventaglio delle interpretazioni. Spetterà a ciascuno scavarsele fuori, assemblarle in un’unica direzione. Io mi metto in un atteggiamento di collaborazione con lo spettatore, cerco di dargli delle motivazioni, perché possa compiere un lavoro di assemblaggio secondo il proprio punto di vista. Non definire, ma lasciare aperto, come un sogno».

Questo metodo consente una riflessione su un aspetto importante del linguaggio filmico: il montaggio, cheha luogo oltre che nel momento di realizzazione del film, anche nel processo di visione e immaginazione dello  spettatore. Da un lato vengono mostrati documenti di vita reale e personaggi reali, dall’altro viene lasciato spazio alla esperienza proiettiva e all’immaginazione dello spettatore, il quale non conosce ancora tutti gli elementi della storia che gli viene raccontata. L’immaginazione consiste nel mettere in movimento il molteplice, gli iati e le analogie, le indeterminazioni e le sovradeterminazioni all’opera. Un’immaginazione attiva e analitica, che stimola gli investimenti e le associazioni mentali edemozionali: guardare diviene un transito.
L’atto della visione cinematografica implica di per sé una dinamica mobile. Lo spettatore è soltanto in apparenza statico, poiché si muove lungo un percorso immaginario, attraversando molteplici luoghi e momenti.

Lo stesso regista ungherese, citando Umberto Eco, definisce i suoi lavori come opere aperte dotate di una sostanziale indeterminatezza. Costellazioni di elementi che siprestano a diverse relazioni reciproche, al di del rimando diretto e tautologico.
Il lavoro di Forgács raccoglie dunque esperienze che come i messaggi in bottiglia sono espressione di pervicacia e di speranza, malgrado tutto, anche in situazioni di dramma. Le immagini amatoriali mostrano momenti quotidiani e spesso spensierati dipersone scomparse, ma diventano al contempo testimonianze della storia, di storie personalie familiari coinvolte a poco a poco nel vortice delle vicende più o meno tragiche del secolo scorso e nelle devastazioni provocate dalla guerra.Ogni rappresentazione è sempre una ricomposizione più che una riproduzione: non c’è mimesis, solo poiesis. C’è dunque alla base dei film di archivio un lavoro di traduzione, di trasmissione:

«Le immagini non ci danno mai un tutto a vedere; semmai, riescono a mostrare l’assenza sullo sfondo  del non-tutto a vedere che esse ripropongono di continuo»

L’intento di Forgács è guardare e farci guardare dietro la superficie delle immagini senza forzare lo spettatore, ma offrendo piuttosto un inedito punto di vista. Le immagini amatoriali, se da un lato risvegliano le questioni da sempre legate alle immagini e al loro desiderio di conservare la vita,dall’altro possono colmare le lacune di un passato storico spesso distrutto o dimenticato e permetterci dicomprendere meglio il nostro tempo. I film di questo regista ungherese si configurano come spazi creativi di resistenza e di cura, che recuperano tracce di memoria, apparentemente senza importanza, appartenenti al mondo del quotidiano e dell’effimero, e riescono a rendere possibile un desiderio rimettendo in movimento la storia, per non arrendersi allo status quo, per riaprire discorsi chiusi o dimenticati.
Nessuna storia è infatti mai veramente finita, nessuna narrazione conclusa, e le immagini possono ridiventare vive attraverso una nuova esperienza e rinnovarsi attraverso nuovi sguardi. Se si sta ad ascoltarle, le immagini riescono a creare delle relazioni inaspettate tra di loro, a lanciare dei ponti trasversali, attraverso vie sensoriali e analogiche, dove vari strati concettuali e immaginari divengono permeabili uno all’altro.
Poetica del frammento e dell’immagine che resta, malgrado tutto.

 

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