13 Mag “Turiste della catastrofe” intervista ad Ilaria Gaspari
di Ivana Margarese
Ti faccio innanzitutto i complimenti per questo tuo racconto, Turiste della catastrofe, che si legge tutto d’un fiato e che intreccia con delicatezza temi importanti come il divertissement, la memoria e la morte. Quando hai cominciato a immaginare questa storia?
Grazie mille, mi fa un immenso piacere che ti sia piaciuto. È una storia che avevo in mente da molto tempo, ho un quaderno in cui annoto le idee per racconti o cose varie da scrivere, e questa l’avevo avuta tempo fa, mentre tenevo una lezione per il mio corso di autobiografia. Devi sapere che Pompei è una mia fissazione, ne sono sempre stata affascinata, da quando ero bambina. Poi una sera, al corso di autobiografia, ho letto alla classe le pagine iniziali di un libro di Carrère, Vite che non sono la mia. C’è quell’inizio bellissimo, al villaggio turistico mentre scoppia la tragedia immane dello tsunami. Mentre leggevo ho avuto l’idea, mi sembrava semplice come secondo me devono sembrare le buone idee narrative, e allo stesso tempo mi richiamava fortissimo; avrei voluto chiudere lì la lezione, mettermi a scrivere seduta stante. Naturalmente non l’ho fatto, non potevo, ma appena ho finito la lezione mi sono scritta l’idea. Poi, siccome io le cose o le faccio subito o le rimando all’infinito, ho rimandato e rimandato. Finché non mi sono ritrovata al Museo Archeologico di Napoli, e ho visto i mosaici e le coppe e le piastrelle e le statue e i corpi che erano stati trovati a Pompei. Mi sono messa a piangere come una scema, in mezzo al museo, come se fossi sola. E a quel punto dovevo iniziare a scrivere o tutta quella commozione mi avrebbe perseguitata. Alla fine è sempre così, ci vuole un’urgenza per lavorare alle idee, almeno per me funziona così. Penso che comunque alcuni temi del racconto torneranno, stanno già tornando in altre cose che sto scrivendo. Non so come mai per me sia così martellante l’ossessione di Pompei. Forse non lo capirò finché avrò ancora voglia, e impazienza, di scrivere. Poi magari lo capirò e non vorrò scrivere più. Spero quindi di rimandare il momento della comprensione, perché scrivere mi piace, non solo: mi fa sentire viva come in genere non mi sento quando sto semplicemente vivendo.
Protagoniste della vicenda sono due amiche, diverse per età e personalità, accomunate dalla voglia di prendersi una vacanza da un eccesso di lavoro che ha la stessa funzione del divertimento pascaliano: “Quello che non osavamo confessarci, era che dietro tutto quel dispendio di energie, noi eravamo smarrite. Lavoravamo per non sentire il rumore di fondo, per stordirci, per non pensare. Un cliché trito e ritrito; del resto, succede spesso che le cose vere, nella vita, somiglino fin troppo ai luoghi comuni”. La felicità insegnata come slogan motivazionale per non ascoltare le paure, l’importanza di vivere e consumare ogni circostanza fino in fondo, l’autorevolezza scambiata per capacità sfrontata di essere come si vuole, la morte e il dolore spettacolarizzati; questo sembra essere lo scenario in cui vivono le due donne. A un certo punto incontrano un bambino che non parla, è muto o si rifiuta di esprimersi a parole. Quanto è significativo questo incontro per la vicenda?
È l’incontro centrale, perché le porta a vedere quello che in tutti i modi hanno cercato di non vedere: che non esistono distrazioni possibili, che non si può scappare dalla vita. E se questa rivelazione ha una sua tragicità (e ce l’ha, eccome!), è però anche una liberazione, in un certo senso. Perché non ha bisogno di tante parole, di tanta fatica, al contrario della negazione di questo dato di fatto, che sfinisce le due amiche e forse tutti quanti noi che ci diamo da fare per costruire un frastuono che ci permetta di non ascoltare la vita.
Loro si trovano ad ascoltarla su una spiaggia lontanissima, non nello spazio ma nel tempo. E nel silenzio di questo bambino che si fida di loro, e loro non sanno – non trovano – il modo di dirgli che forse si sbaglia. Ma forse non lo trovano perché in realtà il bambino non si sbaglia affatto, è lì solo per ricordare alle due amiche che potrebbero sbagliarsi loro, che potrebbe anche essere tutta un’illusione, tutto essere sbagliato, eppure certe scaglie di vita, che non sono né giuste né sbagliate, emergerebbero comunque da quel mare impossibile. Come il silenzio davanti al mare, i loro pomeriggi di vacanza inventata sfiorando l’impossibile e trovando una pace momentanea eppure reale; o i pesci riportati dalla risacca sulla spiaggia, che sono presagi oscuri e non si possono ignorare.
La tua storia è un viaggio in luogo ricco di simboli e suggestioni: Pompei. Non ho potuto non immaginare Gradiva camminare per le strade del posto e richiamare alla mente il sogno raccontato da Freud. Qual è nel racconto il ruolo del perturbante?
Come tutti i miei racconti (che un giorno forse, se sarò in grado di vincere la mia patologica pigrizia e il mio disordine, raccoglierò insieme anche solo per rendermi conto della ragione per cui li ho scritti) anche in questo il perturbante non solo ha un ruolo, ma è proprio il cuore della storia. Non so come mai – non è una scelta consapevole – ma per me è importantissimo. Penso che sia perché è una cosa che per me vale anche quando leggo: i racconti mi piacciono moltissimo (infatti non mi capacito del fatto che spesso gli editori si facciano tanti problemi a pubblicarne), ma solo a condizione che mi turbino. Per me il confine fra racconto e sogno deve essere labile: se voglio entrare in un altro mondo, leggo (o scrivo) un romanzo. Se invece racconto deve essere, ho la pretesa che mi lasci quell’intorpidimento di non saper bene cosa mi è passato davanti agli occhi, che mi dia quella sensazione tipica del perturbante, di dover esitare a trovare una spiegazione razionale. Di restare sospesa. Di aver visto qualcosa che forse sarebbe stato meglio non vedere, e forse, invece, no. Penso che sia la misura della potenza possibile di una forma narrativa breve: non l’immersione, prerogativa del romanzo, ma una scarmigliata emersione, come da un breve sonno pomeridiano, come in quei momenti in cui ti senti scombussolata e non sai più dove sei, e magari nemmeno CHI sei.
Ho una passione per i racconti di statue, di archeologie, perché sono racconti che danno forma all’emersione di cose che abbiamo sepolto, o meglio credevamo di aver sepolto: il massimo del perturbante. E mi turba e mi affascina, mi eccita addirittura, il tema dell’agalmatofilia, delle statue come oggetti d’amore, di un mondo pietrificato che prende vita nell’immaginazione. Dunque certo, la Gradiva, ma anche la Venere d’Ille di Mérimée; ma anche certi sogni che ho fatto su Pompei da quando ero bambina, perché è una storia che per me è una fissazione infantile.
Mi sembra che tra i possibili elementi nascosti ci sia il tema della maternità, argomento che di recente è stato dibattuto da più parti.
Sì, in un certo senso sì, ma volevo ribaltarlo un poco: farne non un argomento di dibattito ma un dato di fatto a cui i personaggi reagiscono a modo loro. più che la maternità, da scrittrice mi interessa l’infanzia, anzi, il rapporto che nell’età adulta abbiamo con l’infanzia. È una cosa che mi affascina, cerco di osservarla in me stessa e in tutte le persone che incontro. Mi affascina probabilmente perché mi pare una questione che non si lascia ridurre a nulla, qualcosa che non possiamo gestire per una via puramente razionale, o semplicemente con la forza della nostra volontà. Quindi è uno di quegli aspetti della vita che per forza di cose ci trasformano, o ci rivelano. Una piccola isola selvaggia che sta dentro ognuno di noi. In questa storia c’è un bambino che è un po’ come un cagnolino randagio, e ci sono due donne che bambini non ne hanno, che con lui non sanno comunicare, ma che in qualche modo, nel momento in cui lui inizia a mostrare di fidarsi di loro, sentono il dovere di proteggerlo; solo che non sanno come fare, e forse non possono proprio. Penso che sia una cosa che vale in molte relazioni, non solo nei rapporti fra genitori e figli. Vale anche nel rapporto che abbiamo con noi stesse, vale con amiche e amici. Vale ogni volta che diamo un senso alla parola cura, che è preoccupazione e protezione insieme.
Ti sei divertita a scrivere questa storia? Grazie per il tuo tempo e per questo scambio.
Tantissimo! Mi diverto molto a scrivere racconti. È una cosa che faccio quasi in uno stato intorpidito, come se giocassi. Ne ho scritti parecchi, negli anni, tutti con questo spirito; in questo caso è stato ancora più divertente perché avevo, grazie al formato di Tetra, uno spazio un poco più vasto per allargarlo. Grazie mille a te per le belle domande.
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