15 Mag Due saggi dirompenti. In dialogo con Lucrezia Lombardo
a cura di Ivana Margarese
Due saggi dirompenti di Lucrezia Lombardo, edito da Divergenze, è un piccolo prezioso testo che analizza il tema dei rapporti di potere odierni e dei meccanismi con cui si genera sudditanza, per aprire le porte a una condizione reale di libertà, che con coraggio e responsabilità, consenta all’uomo di ritrovare se stesso e il valore del rapporto con gli altri, il mettersi in ascolto e in questione attraverso le relazioni.
La filosofia, come dice la scrittrice, è del resto esercizio di costante apertura, cosparso d’interrogativi e capace di rivedere le convinzioni precedenti, secondo uno spirito d’umiltà che occorre tenere sempre a mente.
Il titolo del tuo lavoro è “Due saggi dirompenti”. Come nasce questa scelta?
La scelta è nata da una conversazione che ebbi, poco prima dell’uscita del testo, con il Direttore di Divergenze, Fabio Ivan Pigola. Discorrevamo sul contenuto del libro, che stavo appunto concludendo, e all’improvviso lui ha pronunciato quello che sarebbe diventato il titolo del manoscritto, un libro di stampo filosofico, ma che intende essere comprensibile per il più vasto pubblico possibile. Il saggio è articolato in due parti, la prima, contiene una riflessione di stampo politico incentrata sulla decostruzione dei meccanismi di potere odierni, quelli che la Kratoscienza (termine da me coniato nel testo) mette in atto.
La seconda parte del libro, intitolata “Il processo coscienziale”, riguarda invece la soluzione che teorizzo affinché l’individuo -o meglio il singolo- possa riappropriarsi di quell’autonomia che il potere contemporaneo sta gradualmente sgretolando. Il ponte tra i due saggi è il concetto di “coscienza”, luogo dell’intenzionalità, essenza ultima dell’uomo presso cui dimorano la libertà – intesa come capacità morale discernente e innata – e quell’originaria “apertura all’altro” che dà vita alla relazione in quanto struttura fondamentale dell’esistenza. La coscienza – di cui parlo ampiamente nel secondo dei due saggi, interrogandomi, con metodo fenomenologico, sull’origine di essa- diviene, così, l’elemento da riattivare e da recuperare, per resistere alle ingerenze di un potere onnipervasivo (materiale e psico-mentale) che tenta di annientare le soggettività vive per oggettificarle, privando così l’uomo della consapevolezza di sé in quanto “essere pienamente degno”. L’attuale processo di reificazione dell’essere umano, non è altro che il prosieguo della logica di morte insita nei Totalitarismi, una logica che sostituisce il singolo con la massa, che appiattisce l’esistenza alla sopravvivenza, che amputa la libertà di pensiero e azione e che intende abituare gli uomini e le donne a diffidare gli uni degli altri, sino a considerare normale che esistano categorie di non-uomini, di cui disporre arbitrariamente, o da eliminare ed espellere dalla struttura sociale. La logica di morte della kratoscienza -dei Totalitarismi precedentemente- è altresì una logica astratta, che riduce le qualità a quantità, che ottimizza, che ha per scopo il profitto mediante il duro lavoro e lo sfruttamento (fisico e mentale) di uomini massificati. Questa tendenza impersonale propria, sin dalle origini, della tecnica e del (bio)capitalismo, è lo spirito del nostro tempo. Un tempo che vuole abbattere definitivamente lo statuto di “persona” proprio dell’essere umano e, con esso, l’idea che esitano dei confini invalicabili posti a protezione della dignità del vivente. Il libro, trattando tali questioni, doveva dunque essere dirompente, cioè appassionante, provocatorio, ma, al tempo stesso, era necessario che fosse comprensibile per il più vasto pubblico possibile, di modo che la filosofia potesse essere restituita al proprio ruolo teorico-pratico, che la concepisce come strumento di trasformazione del reale. A tale scopo occorreva che le idee assumessero una forma linguistica comunicabile e quindi autenticamente democratica, abbattendo così i confini che l’erudizione impone al pensiero, riducendolo a nicchia e a contenuto accessibile a pochi soltanto.
Prima di addentrarmi negli argomenti del tuo lavoro ti domando quali autori lo abbiano ispirato o siano stati per te punti di riferimento.
La mia formazione filosofica, che ha ispirato il saggio, è stata profondamente segnata da cinque autori: Aristotele, Kant, Husserl, Arendt e Foucault e di tutti costoro si ritrovano tracce nei miei scritti. Tuttavia, il confronto con i pensatori che c’hanno preceduto, così come con i viventi, deve restare perennemente aperto, secondo un atteggiamento socratico di costante disponibilità ad apprendere, nella certezza che non si giunge mai a possedere il sapere. Se infatti possedessimo il sapere, quest’ultimo non sarebbe più l’elemento in grado di accrescere la libertà, ma diverrebbe piuttosto lo strumento attraverso cui edificare egoistici attaccamenti e pretese. La filosofia mi hainsegnato ad avere un atteggiamento di costante apertura, cosparso d’interrogativi e capace di rivedere le convinzioni precedenti, laddove esse si dovessero rivelare infondate, secondo uno spirito d’umiltà che occorre tenere sempre a mente.
Tuttavia, Due saggi dirompenti è nato dai miei interrogativi morali che mi hanno posto dinnanzi alla necessità di prendere una posizione netta nei confronti dei recenti eventi, che hanno segnato la società e il mondo negli ultimi anni. È stato pertanto necessario interrogarmi sino in fondo rispetto agli spunti che gli autori sopra citati mi hanno fornito e inventare nuove categorie linguistiche e concettuali, tali da permettermi di toccare le questioni che mi erano più care. Tra esse, il tema della libertà e della responsabilità, quello dell’autonomia morale, la questione della coscienza e della sua natura qualitativa irriproducibile, quello del rapporto con l’alterità e il tema della costruzione di una prospettiva che oltrepassi il riduzionismo oggi dilagante, nelle sue plurali forme.
Il primo dei tuoi due saggi è dedicato al concetto di repubblica delle occasioni risolutive. È un concetto che richiama quasi ironicamente la celebre immagine della repubblica platonica destinando tuttavia l’agire collettivo a una pratica occasionale dettata da urgenze problematiche a cui occorre trovare una soluzione. Potresti spiegarmi meglio?
Esattamente, il concetto di “repubblica delle occasioni risolutive” ha a che fare con l’odierno volto della politica, un volto che ha reciso ogni legame con l’originaria accezione per cui fare politica significava partecipazione alle sorti collettive mediante azioni, pratiche e dialogo. La politica odierna – nel suo legame inscindibile con la tecnica, con la finanza e con quella visione del mondo che concepisce l’uomo come sganciato da qualsiasi confine naturale – ha smarrito il proprio valore di “terreno comune”, di luogo d’incontro, per farsi mera potenza, dominio di pochi su molti. Prevale così un assetto della politica autoritario e globale, unitamente ad una tendenza al monopolio, sia sul piano economico, che su quello decisionale e del sapere. In un contesto del genere, la partecipazione democratica dei cittadini è solo illusoria: resta loro il diritto di voto, come formale esercizio, mentre il potere interpella (in modo manipolatorio) gli uomini e le donne comuni soltanto dinnanzi alle emergenze (normalizzate). È infatti in contesti emergenziali che il potere contemporaneo -un potere sempre più distante dalla sua stessa base- chiama in causa i cittadini, attraverso appelli etici al bene comune, alla salute pubblica e così via. Appelli che legittimano il sacrificio dei singoli in nome della collettività, mentre, a ben guardare, tale elemento etico, di cui la politica oggi si avvale, altro non è che un modo per ridurre ulteriormente le libertà fondamentali, i diritti sociali, e per abituare le masse all’eccezione come nuovo paradigma sociale, il cui scopo è la normalizzazione della paura in quanto sentimento diffuso. La repubblica delle occasioni risolutive è quindi il concetto che meglio riassumeva questa trasformazione del politico da nobile luogo della partecipazione, del dialogo e dell’azione, a luogo della paura e dell’arbitrio di un potere sempre più disumanizzante.
Nel libro fai anche una riflessione sulla rimozione della morte e sul tabù del dolore nelle odierne società occidentali, in cui fragilità e errore sono da ricusare.
“Eppure – scrivi – proprio la mancata accettazione della sofferenza, come elemento ineludibile dell’esistenza, produce il fenomeno delle dipendenze”. Le dipendenze allontanano dalla possibilità di autocoscienza e autodeterminazione e rendono ciechi verso la nostra stessa mancanza di libertà. La vulnerabilità è a tuo parere una condizione che apre alla relazione e che va pertanto valorizzata?
Credo che la vulnerabilità sia un elemento incancellabile nell’esistenza. Ciascuno di noi è, anzitutto, fallibile, fragile, destinato ad avere un tempo da vivere e a dover fare i conti con le cadute. Il dolore è altresì una condizione d’impotenza, che ci pone dinnanzi alla consapevolezza di non farcela da soli. Il paradigma prometeico dell’uomo prestante crolla davanti alla sofferenza e all’ingiustizia. È in circostanze come queste, tuttavia, che l’uomo viene restituito alla propria natura transeunte e che egli ritorna a fare i conti con la propria fragilità, temporalità e con il bisognoso di relazioni autentiche con gli altri. In condizioni di questo tipo, in cui si è costretti a magiare la polvere, a soffrire, a sopportare, ad accettare, a non-potere, spesso accade che la vulnerabilità si faccia motore di una trasformazione, che spalanca nuovi orizzonti e valori: l’amore – inteso come bisogno dell’altro, come accettazione della propria impotenza e inteso come capacità di sentire l’altro e riconoscerlo nei suoi bisogni autentici senza ridurlo all’io- nasce spesso da una ferita. Quest’ultima è causa del dolore ma costituisce, al contempo, l’evento che ci costringe a cambiare strada, a rivedere le nostre priorità, a metterci in ascolto e in discussione. Vulnerabilità non significa tuttavia vittimismo, né giustificazione che legittima una non-volontà di mettersi in cammino. Il punto è proprio questo: in quanto esseri umani fragili e transeunti siamo perennemente in cammino e il cammino è fatto di salite e discese, d’incontri e scontri. Nel bel mezzo di esso siamo chiamati costantemente a scomodarci, a uscire dalle nostre sicurezze, a rivedere le nostre priorità e idee e a scoprire nuove possibilità, che rivelano il mondo ben più ricco e vasto rispetto alle nostre costruzioni mentali. Tutti, in fondo, cerchiamo una sola cosa: la felicità. Quest’ultima, altro non è che la capacità di vivere in pienezza la vita, senza più paura di dover soffrire.
C’è nelle tue parole, dietro la radicale critica verso le forme di potere della società odierna, un appello allo spirito di partecipazione e un richiamo allo spazio del metaxu di cui scriveva Platone nel Simposio. Faccio riferimento alla nota duplicità del termine farmaco e ti chiedo quali a tuo parere potrebbero essere i farmaci capaci di curare questo livellamento delle coscienze unite più in termini di slogan e correnti che di partecipazione attiva.
Il metaxu è essenzialmente relazione, ponte tra soggettività differenti. Quest’idea del ponte, della connessione, è importantissima. Uno dei farmaci al livellamento delle coscienza potrebbe quindi essere il recupero di un legame autentico tra gli individui. Un legame che non si basi più sul profitto, sulla visibilità, sul riconoscimento, sulla prestazione/aspettativa, bensì sulla consapevolezza che siamo tutti parimenti bisognosi dello stesso amore, tutti parimenti sconfitti dinnanzi all’ingiustizia, tutti parimenti chiamati a confrontarci con l’inammissibilità della morte e della caduta. Esiste poi un legame ancor più profondo, che oserei definire spirituale, quello che ci unisce gli uni agli altri in quanto esseri senzienti attraverso la compassione. Sviluppare questo sentire, significa mettersi in cammino. Ogni individuo è perciò chiamato a fare un percorso di scoperta di valori più profondi rispetto a quelli propagandati. Tuttavia, sebbene io creda che la soluzione alla crisi odierna passi anzitutto dal risveglio delle coscienze individuali, occorrerebbero altresì uomini e donne coraggiosi nei ruoli di potere, occorrerebbe un’azione a trecentosessanta gradi sul piano didattico e formativo, così da educare le nuove generazioni all’amore per la vita. Un altro farmaco irrinunciabile è poi la necessità che, soprattuto le persone che ricoprono incarichi di responsabilità, siano di esempio e si espongano prendendo posizione, scegliendo di essere, individualmente e quotidianamente, coraggiose, alzando la testa quanto serve, anche a costo di perdere agevolazioni, e rinunciando alla comoda indifferenza che deresponsabilizza.
I corpi non possono essere esclusi da una riflessione sul potere e tu ne parli ampiamente nel saggio offrendo alcune considerazioni sulla gerarchia mente/corpo e riferendoti anche specificatamente ai corpi femminili. Potresti parlamene?
Questa domanda è assai complessa e richiederebbe, da sola, un saggio intero. Tuttavia, il corpo è da sempre uno dei territori a cui il potere si rivolge. Si pensi, ad esempio, alla schiavitù nell’antichità. Cos’altro era la schiavitù se non un potere che agiva direttamente sui corpi, tanto da ridurre uomini e donne a braccia da sfruttare all’estremo?
Il corpo è dunque oggetto di potere, poiché possiede forza-lavoro e competenze e, specie nel XX secolo, i corpi sono diventati oggetti di scelte politiche, coerentemente con la nascita della demografia e con lo sviluppo di una biologia che si è legata alla medicina e al Darwinismo. Le teorie razziali sono il diretto prodotto del Darwinismo sociale e proprio il Nazionalsocialismo, con la sua eugenetica, ha rappresentato -sino ad ora- l’acme dell’ingerenza del potere sui corpi e del legame tra il potere e una scienza posta non più al servizio dell’uomo.
Il potere ha altresì ingerito sui corpi femminili, sedi della riproduzione e luoghi stessi in cui la vita ha origine. Tutt’oggi, il corpo femminile è uno dei bersagli prediletti da parte del biocapitalismo e del consumismo, che applicano continui modelli a genere femminile, per ridurre le donne a mera fisicità, a feticci plastici e omologati, secondo criteri estetici che esaltano, di fatto, null’altro che la concezione di una donna-oggetto. A ben guardare, al di sotto di questi meccanismi disciplinari, che prevedano l’introiezione degli imperativi estetico-sociali da parte delle donne stesse, sta un disegno politico di esclusione del femminile dai ruoli determinanti. Ma la questione del legame tra potere e corporeità è ancora più ampia e chiama in causa la mente -quella che una volta era “l’anima”– allo scopo di appiattire anch’essa a una pluralità di reazioni neurochimiche, a partire dalle quali si pretenderebbe di definire la coscienza e dunque l’essere umano. È perciò in ballo la libertà stessa dell’uomo, lo statuto di costui, mentre è in azione una ragione disincarnata, di dominio, che si lega alla politica e a certe correnti (pseudo)scientifiche e filosofiche, che intendono ridurre le corporeità a meri oggetti, privando così gli individui della spinta vitale (anima o coscienza) che li rende unici ed irripetibili, per il fatto stesso di essere-venuti-al-mondo.
Infine ti domando dei tuoi progetti futuri, ringraziandoti per la disponibilità a questo nostro colloquio.
Sto lavorando al prosieguo del libro “Due saggi dirompenti”. Si tratta di un testo che si articolerà in circa 150 pagine, dedicate alla Kratoscienza e al potere contemporaneo, con lo scopo di sondare, ancor più nel dettaglio, i meccanismi disciplinari odierni, approfondendo il legame intercorrente tra l’autoritarismo e certe correnti psicologiche, bio-mediche e ingegneristiche oggi dilaganti. Il libro è un progetto ambizioso, poiché intende decostruire i presupposti stessi dell’odierno paradigma biocapitalistico e, con esso, alcune teorie riduzionistiche molto seguite. Inoltre, il saggio intende elaborare un’articolata riflessione morale, che si riallaccia al tema della coscienza, allo scopo di dare forma a un nuovo paradigma politico neoempiristico, libertario e relazionale, che abbia davvero a cuore la valorizzazione e la custodia dell’essere umano e della vita tutta.
No Comments