25 Mag “Un quoziente di gioia”
di Isabella Bignozzi
Si racconta per la memoria del luogo, del fuoco, come in Giorgio Agamben, che mutua da Gershom Scholem: per rievocare e ripercorrere il profondo rituale della vita. Se la celebrazione più pura e originaria è perduta, rimangono le vie sterrate, indocili e invase d’inessenziale che tentano la risalita al significato, all’intento.
Giorgio Galli, nel suo romanzo epistolare Un quoziente di gioia (FVE editori 2023), narra l’amore tra Leoš Janáček, pregiato compositore ceco, modernista fuori tempo di vasta cultura popolare e coronato di successo in tarda età, e la giovane Kamila Stösslová, critica musicale vibrante di raro ardore umano e intellettuale freschezza.
L’espediente narrativo è la curatela postuma delle lettere scambiate tra i due amanti da parte del pianista Rudolf Firkušný, allievo devoto di Leoš al conservatorio di Brno e poi di lui fiero e giovane amico: la sua voce, che appare ripetutamente a margine come chiosa e filo conduttore al carteggio, rivela la confidenza ch’egli aveva col maestro, siglata da una comune sensibilità e intima dedizione alla musica.
Lo sfondo temporale è quello inquieto degli anni venti del novecento, in cui i presupposti geopolitici e sociali della seconda guerra mondiale stanno disseminando nelle anime geli e avversioni, opache incandescenze, pronte a reiterare l’eterna pantomima del conflitto e dell’orrore.
Entrambi i protagonisti, Leoš e Kamila, hanno alle spalle vicende familiari che, in varia foggia, li hanno temprati a dolore e costrizione, al diniego della propria stessa libertà spirituale, sospingendoli a sopite rassegnazioni; tuttavia il destino è fantasioso, e spesso non nega evoluzioni insperate alle vite arrese.
La vicenda è raccontata con la leggerezza di chi sa inserire coordinate ed elementi di orientamento culturale nel fluire del narrato, cosicché il lettore ne è edotto senza esserne gravato.
Certamente nel romanzo vibra una profonda conoscenza storica e musicale, che, come sempre accade nelle arti, da dimestichezza tecnica assurge a esegesi filosofica, significante. Il narratore è abile nel portare avanti vicende globali e plenarie insieme a quelle personali dei due protagonisti (e di altre importanti figure collaterali), conducendole parallelamente all’evoluzione interiore del sentire: dalle prime schermaglie alla piena intimità, due creature si uniscono in spirito e visione, si proiettano con speranza a un futuro condiviso. Toccante, in questo senso, il profilo umano dei due amanti: l’interazione è purissima, nell’affettuosa dialettica d’indole ed età, di posizione artistica e intellettuale; nel commosso, reiterato voto di tutela e promessa.
Galli è un bravo scenografo, lieve e persuasivo: pulsa nei dialoghi epistolari un’epoca imbrattata di glorie apparenti, dal fondale torbido e allarmato; egli è altresì un sapiente drammaturgo che fa delle vicende un valido ordito per sollevare qualche meditazione e ben tratteggiare i caratteri, definirne i moti dell’anima.
Ma ancor di più, Galli nel suo romanzo vuole riformulare, con garbo ostinato, l’unico messaggio necessario: che l’amore esiste. Nella sua storia afflati di affezione autentica e fedeltà del cuore si fanno strada anche tra ostacoli severi, suggerendo inedite sacralità anche nell’incredulo: perché avere sul palmo qualcuno è già proteggere e affidare, è già preghiera.
Ancora, questo romanzo ci ricorda con assoluta grazia che l’amare ha i suoi angoli e le sue vie particolari, tepori segreti e riposti, pure se inscritti nel gelo di epoche smarrite; è il levarsi dell’individuale e minuto dalle maglie di un universale invaso dal male: il gioco delle forze condiziona e piega, umilia sì, ma non annienta la singola vita che ama; questo fiato esiguo e incoercibile, benedetto d’ingenuità, che sa il perenne ricominciare.
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“Caro Leoš, la sua richiesta mi mette in difficoltà, perché non sono abituata a parlare di me stessa. Sono una donna riservata di trentacinque anni, di buona famiglia e senza più una famiglia mia. Mio marito era un militare e aveva il carattere di un asceta. Come tutti gli asceti, era incapace di valutare fino in fondo le sofferenze che la sua purezza infliggeva agli altri. E così è accaduto che io sia stata abbandonata: non perché avessi tradito, non perché avessi commesso qualche torto, ma semplicemente perché ero troppo viva, tanto viva da essere considerata matta. Il colmo della crudeltà nella purezza è stato togliermi i miei due figli, che avrei voluto crescere e che ora posso vedere solo di tanto in tanto, quando lui lo permette. Ho perso la famiglia che mi ero costruita e per la mia famiglia d’origine sono diventata una iattura più di quanto non lo fossi già”.
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“Kamila, lei ha l’andatura più delicata e più energica che mi sia mai capitato di vedere. Camminarle accanto è una gioia: lei danza. Lei viene da un altro mondo, Kamila, è solo discesa fra noi, ma non è completamente dei nostri. Lei è libera, talmente libera che altri si sono presi l ‘incarico di tenerla prigioniera. Ma è il modo in cui le creature meschine reagiscono a quelle superiori: le sviliscono, tentano di degradarle. L’uomo che tiene prigioniera la donna in realtà la teme, teme la sua capacità e forza”.
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