Juana Inés de la Cruz. In dialogo con Cristina Simonelli

 

a cura di Ivana Margarese

 


Comincio col domandarti come è nata la collana
“ Madri della fede” e quale intento si propone.

La collana nasce da un desiderio ma anche da un incrocio: il desiderio è quello di mettere in evidenza e ridare spessore e giustizia a figure di donne presenti nella Scrittura e oltre essa. L’incrocio è quello che ha permesso il convergere della nostra ricerca scientifica e dell’intento dell’editore (San Paolo), che ha chiesto una serie di pubblicazioni di questo tipo, in forma narrativa ma con appendice di documenti, così da avere racconti agili e documenti verificabili.
“Madri della fede” non è un progetto del Coordinamento delle Teologhe Italiane, ma ne assume la prospettiva
e da qui a volte nasce una felice confusione

Juana Inés de la Cruz è una figura complessa, che offre molteplici spunti di approfondimento. Nel libro a lei dedicato inizi parlando del paesaggio geografico ( «dove i raggi del sole / arrivano diretti e non di sbieco») e emotivo in cui cresce Juana e tra le figure per lei significative, nel corso della sua infanzia, citi il nonno Pedro e la madre, Isabel Ramírez. Potresti raccontarmi qualcosa dell’importanza di questi legami nella sua formazione?

Siamo tutte e tutti come arazzi formati da molti fili, non c’è dubbio. Nel caso di Juana Inés questi fili sono forse particolarmente significativi, anche perché consegnano la memoria di rapporti complicati, dove si muovono donne forti – un po’ libere e un po’ carcerate, si potrebbe dire e maschilità evanescenti ma anche accoglienti, come sono rispettivamente il padre e il patrigno da una parte e il nonno materno dall’altra. Nella vita di Juana troviamo certo tutto questo, la sua forza indomita e fragile insieme, la sua libertà e la costrizione che subisce, le sue passioni che sentiamo così vicine. Dire come abbiano agito i legami non è possibile, ma sarebbe assurdo negarne l’importanza.


Colpisce immediatamente in Juana, oltre l’abilità poetica, l’enorme sete di conoscenza, tensione che le costerà cara dal momento che sul finire dei suoi anni sarà perseguitata e umiliata per questo slancio, considerato alla stregua di misera vanità.
Scrive Juana con grande semplicità e bellezza: “Tutte le cose vengono da Dio, che è il centro e al contempo la circonferenza da cui partono e dove term
inano tutte le linee del creato”E ancora: “Perché per salvarsi si dovrebbe procedere lungo la strada dellignoranza, se questa ripugna alla propria natura? Dio in quanto Bontà suprema non è anche Sapienza suprema? Perché mai dovrebbe preferire lignoranza alla scienza? Si salvi santAntonio con la sua santa ignoranza, felicemente. SantAgostino va per unaltra strada e nessuno va allerrore”.

Queste riflessioni respingono la possibilità di una gerarchia, preferendo la libertà di convivenza tra più punti di vista alla violenza del conflitto che prevede un vincitore e un escluso. Trovo questa considerazione importante ancora oggi e niente affatto scontata e penso anche alla filosofia di Giordano Bruno che contemplava più mondi possibili. Ti chiedo, aspettandomi anche di essere smentita, quanto nella storia della religione cattolica la volontà di pace tra diversi punti di vista è stata punita o messa a tacere?

Questa domanda è solo apparentemente semplice, perché richiede una risposta complessa, che può smarrire un po’ di efficacia, ma guadagna in rispetto e aderenza alla realtà. Intanto mi permetterei di allargare lo spettro, inserendo anche il cattolicesimo fra le altre religioni e, quando esistano, fra le altre istituzioni politiche non ascrivibili a un universo religioso. Può sembrare una difesa della Chiesa cattolica, ma lo è solo in parte, perché inserendola in una trama più larga ne smitizza la presunta unicità, se non l’esibita superiorità. Fantasmi del passato? Forse, ma a volte ritornano!
Detto questo e limitandomi per semplicità invece alla realtà cattolica come punto di vista, direi che è percorsa da forze differenti e spesso contrastanti: la ricerca di pace, il rispetto per le vite e la forza profetica che esige giustizia e anche, al contrario, dinamiche repressive e integraliste, rese più gravi dalla loro sacralizzazione. Il fatto è che le due spinte convivono e non sono neppure attribuibili in maniera seccagli uomini di qua, le donne di là, oppure i preti là e i laici qua – anche se l’indagine in questo senso deve rimanere aperta e critica. Per questo, riprendo, la collana: perché rileggere le donne della scrittura e della storia non è solo opera, meritoria ma a volte banale, di recupero del passato: è prospettiva esigente sul presente e attesa di futuro, perché nulla appare più scontato.

L’altro elemento che mi ha colpito è lo stato di prostrazione in cui Juana versa negli ultimi anni di vita – prima di morire a causa della peste. Si umilia, si definisce la peggiore delle creature, firma il suo pentimento con delle gocce di sangue. Ho sentito grande empatia per questa donna a cui resta soltanto lo strumento della “degradazione” di se stessa. Mi ha ricordato certi fenomeni antropologici come le tarantolate o le indemoniate. Mi spiego meglio: laddove non c’è ascolto e non c’è spazio non resta altro che inscenare ciò che gli altri hanno bisogno di credere come atto di estrema resistenza.

Credo che questa tua interpretazione sia molto azzeccata! Si deve aggiungere, forse, che non abbiamo tutti i pezzi del mosaico, ma solo quelli che sono pervenuti, peggiorati dalla retorica dei documenti ecclesiastici e dal fatto che la morte di Juana è sopraggiunta inattesa e prematura, per la malattia contratta nella pandemia, e ha bloccato ed eternizzato, si potrebbe dire, l’ultimo atto della sua possibile strategia. Tuttavia, ripeto, la tua lettura è convincente, perché l’estrema derelizione e umiliazione diventano una forma di protesta. Chissà, una rete di compagne può magari fare della resistenza anche una resilienza e della strategia tragica una proposta per nuove cartografie, politiche ed ecclesiastiche.

Le poesie d’amore di Juana de la Cruz sono dei capolavori di sensibilità poetica. Come descriveresti il suo modo di raccontare l’amore?

Come lo può consentire forse solo la forma poetica barocca, cioè sovraccariche di simboli e povere di descrizioni, perciò potenti nell’allusione e delicate nell’evocazione. Così ognuna e ognuno ci si può rispecchiare, senza identificarsitroppo piattamente.

Oltre Juana de la Cruz quali figure femminili ti sono state particolarmente care nel tuo percorso di formazione teologico?

Anche questa è una domanda solo apparentemente semplice! In effetti se ne affollano molte, insieme anche a figure maschili, perché abitiamo insieme il mondo. Però posso provare a indicare le figure anonime dei vangeli: la donna che unge sul capo Gesù (Mc 14,3-9), o la sirofenicia (Mc 7,24-30) che gli fa intravedere nuove comprensioni della propria messianicità. Ognuna di loro è figura “aprente”: apre il silenzio del testo – patriarcale, ma anche di ognuna/o che ha un potere non condiviso; apre l’intelligenza ristretta delle interpretazioni, anche cristologiche e teologiche; apre il mondo, denunciando la ristrettezza dei confini.

 

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