07 Nov In dialogo con Paolo Battistel. L’arcolaio delle fiabe
a cura di Francesca Grispello
C’era una volta…
Basta questa semplice frase per condurci in un altrove, un innesco che ci porta davanti al fuoco in un tempo in cui l’ascolto prima e la lettura poi predispongono ai racconti. Ed è nell’ascolto che si praticano e agiscono simboli che uniscono la notte dei tempi al tempo presente.
Lascia che ti racconti una storia – quelle di ieri e quelle di oggi – e in questa storia troveremo elementi potenti, che non smettono di geminare senso e direzione. Il raccontare per tramandare memoria, storia e universi, mito e folklore, non semplici storie di fantasia impastati per intrattenere i più piccoli, ma conduttori di sacro, di conoscenza, riti di passaggio del singolo in una comunità. Paolo Battistel, scrittore, docente e giornalista affronta i simboli nei racconti popolari da una prospettiva “al femminile” nel suo ultimo e corposo libro L’arcolaio delle fiabe. Il femminile e la trasfigurazione nei racconti popolari (Oligo Editore) al quale ho rivolto qualche domanda, ma come ogni tanto accade, ho dovuto trattenermi dal dilungarmi, sia per la densità della sua ricerca che segna continui ipertesti, sia per il coinvolgimento personale che “la fiaba” evoca. Il taglio dato alla ricerca sull’elemento femminile nasce dal carico simbolico che investe le protagoniste: la strega, le vergini, le principesse, le ninfe.
Come e quando è nata la sua passione e successivamente studio verso il pensiero simbolico?
L’amore per le fiabe e il mito, e il soggiacente pensiero simbolico, nasce dalla mia infanzia. Rappresentava una lontana eco che avevo sentito da sempre in fondo a me stesso e soltanto dinanzi al richiamo del “C’era una volta”, del mondo “in illo tempore”, ho finalmente compreso e deciso che sarebbe stato l’unico cammino per cui aveva senso esistere. Compresi che era necessario fare un passo indietro (un movimento tanto caro a Kerényi nella sua analisi del mito) poiché sappiamo bene che, come ci ricorda il Vangelo di Filippo, «la verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli e immagini» e per raggiungere questa verità arcaica e a volte pre-razionale non basta un animal rationale, poiché non avrebbe gli strumenti per abbracciare tutta la ricchezza e la varietà delle forme della vita culturale umana ma, per seguire l’illuminato pensiero di Cassirer, diventa necessario un animal symbolicum, poiché queste forme, nella loro radice più profonda sono essenzialmente simboliche.
La merce, il mercato e il mito, c’è una dialettica che sovrasta o può scalzare questa relazione?
Il mito – come era ben consapevole Nietzsche nel suo dettato teorico in perenne divenire – rappresenta un tentativo dell’uomo di giungere a un dialogo con la Natura poiché nell’ottica della coscienza mitica (una “coscienza originaria” attraverso cui il mondo acquisisce un senso e un significato per le prime comunità umane) i processi naturali hanno “in sé” un significato specifico e sacro. Questa totalità dell’immagine mitica che Cassirer descrive «nel suo annullare tutte le particolarità individuali delle cose in un’unica sfera mitico-magica» frana nella temporalità figlia di una lingua denominativa e nemmeno la celestiale opera di Hölderlin riesce a riplasmare una “lingua attuale” per l’esperienza mitica. La lingua degli uomini si è disseccata e il “reale” figlio di un Uno-Tutto ormai svanito non si manifesta più sotto il nostro sguardo. Il mito, come sosteneva Wagner, sopravvive nella modernità spesso solo in forma di Arte, ma il capitalismo ha corrotto la linfa stessa dell’uomo e in questo modo l’opinione pubblica si è degenerata in un mercato. L’arte è finita sotto la coercizione della commercializzazione al pari di altri prodotti come gomme, dentifrici o pannolini e viene prodotta, e offerta, come merce sul mercato.
L’Arte, ultimo brandello del mito, dovrebbe possedere una dignità fine a se stessa mentre il capitalismo l’avvilisce degradandola a mero strumento di intrattenimento. La corruzione della società ha corrotto l’Arte e senza una “rivoluzione” della stessa, nemmeno l’arte, e quindi l’uomo, che dell’arte ha bisogno come un assetato nel deserto, potrà trovare la sua vera essenza. Questo stato di cose, rappresenta la “notte degli dèi” descritta da Hölderlin e vede l’uomo prostrato in avanti nell’ideale aleatorio dell’autoconservazione di sé tanto ben descritta da Adorno e Horkheimer.
Per questo fine autoalienante, proiettato dinanzi ai suoi occhi dall’attuale società, l’uomo sacrifica ogni cosa, anche i fondamenti del suo stesso essere, riducendosi a un simulacro nella costante necessità di consumo. Nel non-tempo delle fiabe, ben descritto dai fratelli Grimm, l’uomo torna a essere cullato dagli ultimi frammenti del canto originario e l’incantesimo del “C’era una volta” lo immerge anche solo per brevi istanti nella fonte di Urd da cui anche Odino brama di essere saziato. Solo nel ritrovo insperato di sé e delle proprie radici si può instaurare una nuova relazione tra uomo e società.
Il mito, le storie, i cunti, il fantastico permeano l’educazione dell’uomo. Si legge in Horkheimer: “l’illuminismo prova orrore mitico per il mito.” Nella nostra attualità dove ritrova il mito e qual’ è il sentimento verso il mito?
Nella modernità la massima spinoziana, secondo cui lo sforzo per la conservazione di sé è il fondamento sommo per raggiungere la virtù, è passata (per dirla in termini aristotelici) dalla potenza all’atto, diventa l’asse portante sotto a cui si plasma ogni civiltà occidentale. Questo passaggio è avvenuto grazie allo sviluppo del pensiero illuministico che ha plasmato le fondamenta della modernità e del nostro vivere civile. Ogni espressione umana che non riesca a trovare posto in questo quadro teleologico dell’autoconservazione, viene percepito dall’illuminismo nella nota citazione espressa nella domanda. Questo orrore, e non accettazione, verso chi si affida in modo diretto, utilizzando l’ancestrale pensiero mitico, è il paradosso di una realtà che nella razionalità, e nel suo rapporto “razionale” con l’autoconservazione, vede i fari di un “contratto sociale” che si descrive come aperto a ogni espressione umana purché ricalchi i suoi specifici canoni razionali.
Il pensiero simbolico in questo crepuscolo sopravvive nell’arte e in pochi altri dettati umani, tra cui la narrazione circolare della fiaba perennemente diversa ma eternamente uguale nel suo ripetere “C’era una volta”.
Il mito o i miti, sono un campo dal quale nasce la costruzione immaginifica e la capacità di narrare storie. Queste facoltà a mio avviso sono connesse in modo necessario con il futuro e il suo slancio. Oggi questa facoltà sembra venir meno e così l’assenza di futuro, cosa ne pensa?
Gian Battista Vico in Scienza Nuova sosteneva che i primi uomini «come fanciulli del genere umano», non essendo in grado di formar i cosiddetti generi intellegibili delle cose, ebbero quello che potremo chiamare una “naturale necessità” di plasmare i caratteri poetici, che in verità si rivelano generi o universali fantastici che danno senso al mondo. Essi generano una dirompente forza attrattiva sul particolare (sul finito) che cade nella temporalità dandogli senso e significato. Questo “universale fantastico” ripreso e amato anche da Pavese, è ciò che nel dettato del mito riconnette l’individuo finito, immerso nella temporalità, con l’infinito originario immerso nell’infinita circolarità. Raccontare/cantare il mito significa abbandonarsi alla contemplazione “all’escavazione di quel momento” ridando forza e “slancio” all’uomo in quanto è “santificato” appena immerso nell’Universale fantastico da cui ogni cosa ha preso forma. Perdere questa capacità narrativa e sacrale, propria del meccanismo del mito e della fiaba, significa perdere una parte essenziale dell’uomo che per secoli lo ha identificato.
Il femminile, i personaggi femminili, il femminile e la sua controparte maschile, cosa ha fatto scattare il suo interesse verso questa caratteristica?
Avvicinandosi alla fiaba e al suo mondo meraviglioso ci si rende conto immediatamente di un elemento fondamentale: il ruolo fondante e fondamentale svolto dalle donne in una duplice veste. In primo luogo, come raccoglitrici e narratrici di storie, sono state potremo dire i principali “mezzi” attraverso cui le fiabe (e le leggende) sono sopravvissute e si sono propagate attraverso i secoli. Le donne sono spesso le “fonti” a cui attingono i vari Grimm o Pitrè nello stendere su carta le loro fiabe da leggere dinanzi al focolare, ma non va dimenticato che le donne si annoverano anche tra le letterate che hanno diffuso direttamente queste storie attraverso la stampa, si va dalle francesi Madame d’Aulnoy e Madame de Beaumont alle italiane Gonzenbach e Perodi. Tuttavia, per quanto il ruolo del femminile nella fiaba, visto da questa direzione, ricopra un’indubbia centralità, la sua importanza è destinata a crescere ulteriormente se lo osserviamo attraverso il tessuto narrativo delle fiabe. Attraverso questo punto di vista ci rendiamo presto conto che, proprio come in un affresco teorico pennellato da Bachofen, sono proprio loro le protagoniste indiscusse di alcune delle fiabe più note.
Con la veste di oscure divinità della foresta come la signora Trude o Baba-Jaga, o con quella candida di vergini innocenti come Vasilissa la bella e Rosaspina, ci hanno incantato e terrorizzato, plasmando l’immaginario di tutti noi.
L’arcolaio delle fiabe è un testo che ha una bibliografia ricchissima e colta.
Dall’origine dell’umanità tenta di conversare con i mondi che riflettono il nostro, c’è stato un testo o un autore/autrice che è divenuto il pilastro della sua ricerca? Cosa consiglia a chi vuol avvicinarsi a questi studi?
Quando si lavora su un argomento così “Universale” come la fiaba sia ha sempre la sensazione di aver dimenticato qualcosa, di non aver guardato il proprio oggetto di studi (verso cui non si può che avere un profondo amore) da un punto di vista diverso, da un angolo cieco che permetta di ridare al mondo la fiaba nella sua interezza e autenticità. Questo per dire quanto la bibliografia non sia mai troppo “colma” e soprattutto quanto punti di vista di discipline differenti possano aiutare a darci una visione d’insieme del nostro meraviglioso oggetto di studi. Per quanto riguarda l’autore (o gli autori) che amo maggiormente, è davvero difficile fare un nome soltanto perché spesso riconosciamo parti di noi in autori molto differenti. Sicuramente la scuola romantica di Heidelberg, da Görres a Creuzer, mi ha permesso di guardare tra le pieghe del pensiero dei Grimm ma nell’analisi della fiaba e del mito amo profondamente Kerényi, Otto, Cassirer e Heine ma anche la von Franz, Bettelheim e Zipes. Ci troviamo a essere un po’ come nel noto film di Woody Allen “Harry a pezzi” un’identità che si ricostruisce attraverso diversi frammenti.
Credo che chiunque si approcci a simili studi cerchi nella fiaba (e nel mito) qualcosa di diverso (e personale) ed è giusto che si incammini verso di esso con le proprie forze e il proprio “sacro istinto” per scegliere il suo percorso migliore.
Oggi i temi sul femminile, al femminile, sono al centro di molte dialettiche, polarizzazioni e consapevolezze, qual è il suo punto di vista?
La modernità ci pone dinanzi agli occhi il tema della polarizzazione come unico atteggiamento attraverso cui la società, plasmata dall’illuminismo, sa confrontarsi con qualsiasi problema o nuovo evento. Ci confrontiamo con gli eventi e concetti nel modello ideale che Sartre aveva ben pennellato con la metafora di un oggetto tenuto in mano, la cui solidità crea l’illusione di possederlo. Sartre in “L’essere e il nulla” sosteneva infatti che «la sua inerzia [quella dell’oggetto] simbolizza per me la mia intera potenza». Ho l’illusione di maneggiarlo, possederlo e posso gettarlo a terra quando più mi aggrada. Il problema per riprendere la nota allegoria di Sartre è che, quando ci confrontiamo con simili temi, non abbiamo a che fare con oggetti la cui solidità plastica accarezza il nostro ego ma ci troviamo dinanzi a qualcosa di “vischioso” che rovescia i termini del nostro pensiero. Dopo averlo manipolato (nell’uso che credevamo di fare), allargo le mani per farlo cadere ma «il vischioso aderisce a me, mi succhia, mi aspira», nel togliermelo dalle dita sprofondo in esso rischiando di perdermi.
Quando ci confrontiamo con temi come il femminile, come la fiaba o la favola non ci stiamo confrontando con un oggetto solido e inerte, da buttare dopo averlo “usato”, ma esso nelle nostre mani cambia – e ci cambia – e non esiste altro modo per confrontarsi con esso se non attraverso questo viaggio “doloroso” verso noi stessi, altrimenti ci troveremo a essere imprigionati in uno schieramento dove non saremo altro che i solidi che ci illudevamo di tenere in mano.
Cos’è per lei il femminile? E il maschile?
Un luogo, un libro, un nome, una città.
Essendo quest’anno nel centenario di un autore che amo molto come Italo Calvino non posso che rifarmi a un testo meraviglio come “Le città invisibili” in cui Marco Polo si trova a descrivere a Kublai Khan le città che ha visitato. Ciascuna città di cui parla Marco Polo ha un nome di donna. La forza evocativa di questi nomi (classicheggianti) evocano città meravigliose nel pensiero del Khan mongolo. Quindi per il femminile scelgo senza dubbio “città” ma non posso scindere la città dal “nome” magico che la evoca. Per il maschile scelgo “luogo” poiché prima che Marco Polo pronunciasse quei nomi plasmando davanti agli occhi del sovrano città esotiche e meravigliose la terra, che difendeva con il suo immenso esercito, era solo un luogo piatto e senza significato.
Oligo Editore
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