17 Nov Elga (parte prima)
di Cristi Marcì
Stasera non so letteralmente cosa mi sia preso.
Sono qui, sola con i miei pensieri e in compagnia della mezzanotte scoccata da poco.
Pronta a ricordarmi, manco fossi Cenerentola, che l’incantesimo si è appena concluso.
Che la fiaba vissuta sino a qualche secondo prima è giunta al termine, aprendo un sipario dove le mie paure sono libere di portare in scena il proprio dramma. La propria Opera.
Non saprei dire con esattezza quando si siano affacciati per la prima volta, sta di fatto però che questa moltitudine di pensieri ha letteralmente preso piede nella mia testa, contaminando quel rimasuglio di serenità che faticosamente stava per trasformarsi in equilibrio.
Da quando ho lasciato l’orfanotrofio per essere adottata, queste strane creature hanno iniziato ad avere vita propria, un codice segreto che per anni ha stanato il filo della mia crescita.
Perfino le psicologhe e le assistenti sociali non ci hanno mai capito un cazzo dell’essere che sono, figuriamoci poi della voragine provocata dall’amalgama di ricordi che in questo preciso istante mi costringe a restare immobile sul mio letto.
Assomigliavano in tutto e per tutto a dei criceti rinchiusi in una gabbia, senza alcuna via di uscita se non una stupida ruota dove lasciar correre all’impazzata le loro idee e loro certezze.
Provavo compassione per loro perfino per tutte le volte che, visitandomi, tentavano di cavarmi testimonianze di un passato che ancora oggi mi tiene in bilico fra il desiderio di vivere e quello di sparire per sempre.
Mi sentivo una criminale alla quale estorcere la confessione delle confessioni, il tutto per sbrogliare finalmente il mio cazzo di caso da etichettare come risolto. Spiegato. Tradito con futili diagnosi.
Nel mentre che ripenso alle loro facce nascoste dietro le lenti della psicoanalisi mi viene da ridere; erano arrivate perfino a covare risentimenti nei miei confronti.
Tutti i voli pindarici che hanno dovuto compiere per spolpare l’osso della mia intimità, non hanno mai portano da nessuna parte.
Perdevano già in partenza, con i loro modelli e le loro stramaledette convinzioni. Che idiote.
Bastava invece che mi guardassero, che esprimessero un pizzico di curiosità per quella che ero, non per quella che invece si aspettavano che dovessi essere: un contenitore da svuotare delle sue macerie. Una cavia sulla quale costruire la loro professione e dove poter gettare le basi della propria stupidità.
Perché è così che mi sono sentita per anni: imbottita di tante cose che non ero lontanamente in grado di nominare, schiacciata da ricordi sfocati che una volta impressi nella mia mente non si lasciavano afferrare; tantomeno sedurre da persone estranee.
Si insinuavano come formiche impazzite nel buio della mia anima alla ricerca di una tana dove poter collaudare il proprio operato, cospargendo ovunque ci fosse spazio, il seme della loro essenza, un liquido pronto a insudiciare la mia fottuta testa.
E a disegnare una mappa di cicatrici sul mio corpo.
Proprio quell’ammasso di carne fatto di fegato e polmoni che a dieci anni è stato violato senza il mio consenso; trafugato di un’innocenza che anche stasera dubito possa ancora tracciare nuove strade da percorrere.
Sento la voce silente dei ricordi ribellarsi, scalciare con prepotenza dentro la pancia per raggiungere a tutti i costi le soglie della mia coscienza. Una centralina dalle funzioni impazzite e tuttavia capace di sbattere la porta in faccia a quel passato che di allontanarsi non ne vuole proprio sapere nulla.
Perché lui è sempre lì in agguato, pronto a traghettarmi su isole tra loro sconnesse, dove nulla sembra poter cambiare.
Dove tutto resterà così come allora.
Ricordo che l’istituto dava asilo a tanti ragazzi, alcuni della mia età altri invece molto più grandi di me, di otto o nove anni. Dormivamo in stanze miste dove la distinzione di genere non era contemplata ed ogni metro cubo un vero formicaio di odori; dove la tua paura si fiutava fuori dai cancelli.
Non gliene fregava un cazzo a nessuno di chi tu fossi, da dove venivi o quanti anni avessi.
Eri una persona come tante, gettata in quell’inferno
Con alcuni di quei numerosi ospiti giocavamo a rincorrerci o addirittura a nascondino, con altri invece la situazione era ben diversa: mi ci nascondevo sul serio, semplicemente per accelerare le lancette del tempo.
Tra questi ce n’era uno in particolare, alto, magro e un po’ emaciato in viso, il quale con fare gentile mi invitava sempre a iniziare dei giochi insieme per poi finire a fare cose che non conoscevo, che la mia mente di bambina si rifiutava di scoprire e tantomeno a tradurre sotto forma di piacevole ricordo. Ma non c’era verso o spiegazione che tenessero, perché per quanto fosse gentile e mostruoso, quel ragazzo più grande di tre anni, mi offriva sempre quello che nessun altro essere umano era stato in grado di darmi in quei primi dieci anni di vita: un’attenzione particolare.
Tutta per me.
Solo per me.
Io esistevo per lui
Lui esisteva per me.
Era il mio fottuto equilibrio.
A volte le sue premure erano talmente chirurgiche da non rendermi conto della piega che prendevano all’interno del mio corpo vergine e indifeso. Sempre costretto ad accogliere qualsiasi forma d’amore o di contatto pur di rinnovare in un tacito accordo il suo esistere.
Pur di continuare a vivere
Eravamo nati tutti e due in Romania, lui in un quartiere degradato e periferico di Slobozia, io invece nella capitale a Bucarest. Ma come tutti gli altri bambini di quel terribile anno, millenovecento novantaquattro, i nostri destini sembravano già segnati, la nostra innocenza derisa e pronta ad essere data in pasto alla mercé di predatori sconosciuti: pronti a rubarci l’infanzia e a contaminarla di tutta la bruttezza del mondo.
Da grande ho scoperto che a quei tempi era in vigore la politica malsana di Ceausescu, la cui logica perversa si era abbattuta come un fulmine a ciel sereno su di me, mandando fuori rotta la bussola della mia esistenza.
Per incrementare il numero di nascite aveva diffuso uno slogan a favore di una promiscuità sessuale che rischiava tuttavia di lasciare fuori posto il secondo o terzo bambino/a della nidiata.
Perché si sa, il troppo stroppia.
Ce ne erano molti in quel periodo, forse troppi e io sono stata una di quelle numerose bambine partorite da un regime che anziché tutelarmi mi aveva portato al macello nel primo orfanotrofio. Dove piangere non era ammesso, la punizione la norma e la sopravvivenza un semplice istinto.
Mia madre non l’ho mai conosciuta, non ho fatto in tempo. So soltanto che di cognome faceva Yvena e di nome Elenia. Dicevano fosse una bella ragazza dagli occhi verdi. Di una bellezza che purtroppo, a soli dieci anni non tardò a sbocciare sui lineamenti del mio viso e sul resto del mio corpo; facendomi diventare più sviluppata di quanto avrei realmente desiderato.
Perché in quell’istituto la tua carne era solo un mero strumento di scambio grazie al quale potevi ottenere cibo, acqua e amore purché la tua pelle e la tua anima venissero poste al servizio dell’altro.
Yussef, questo era il suo nome, fu il primo ad accorgersene e non impiegò molto tempo perché mi rendesse partecipe della mia stessa e inconsapevole fioritura.
Il momento peggiore non era quando accadevano quelle strane cose, ma al contrario quando una volta terminata l’opera mi lasciava sola, con una sensazione di vuoto, sporcizia e disgusto che mi facevano rivoltare lo stomaco e impazzire di rabbia.
La trama era la stessa.
Quel gioco l’unico appiglio che la vita mi aveva ironicamente offerto.
Col tempo subentrò anche la violenza, entrava in me giorno dopo giorno ormai ci avevo fatto il callo. In quegli istanti avevo imparato perfino a viaggiare con la mente lontana da quel corpo inerme e al servizio di un altro essere umano. Ero spettatrice di un’altra me che non sapevo come aiutare.
Ma quello che più di ogni altra cosa mi toglieva il respiro prendeva forma nell’appuntamento che sapevo avrei avuto con quella creatura mostruosa e dal volto scuro.
Bollente come la lava e appiccicosa come il liquido che dopo quegli incontri mi restava appiccicato sulla pelle la solitudine che provavo negli istanti successivi all’atto, mi tarpava le ali e qualsiasi altra cosa potesse consentirmi di spiccare il volo.
Quasi sempre ci vedevamo la sera, subito dopo che gli educatori avvisavano tutti quanti noi che ora di andare a dormire nelle nostre camere. Ma il luogo dei nostri incontri non erano le stanze, ma il bagno, dove una gabbia mattonelle color senape aveva accolto sulla fredda superficie il liquido rosso della mia verginità. Che dal mio sesso tracciava una rotta a me del tutto sconosciuta: quella della sconfitta.
Ricordo gli odori, la sua mano che mi tappa la bocca per non farmi gridare e un dolore sordo provocato dall’ingresso di un corpo estraneo, viscido e duro come la pietra.
Col tempo quegli appuntamenti erano entrati nella mia routine, anzi a dirla tutta facevano parte di un rituale grazie al quale allontanare l’abbandono di mia madre. Era la mia medicina. Il mio anestetico. Una subdola e distorta distrazione con cui alleviare un dolore che sapevo in cuor mio si sarebbe ampliato sempre di più. Costringendomi a cercare con il corpo, la bocca e i miei occhi un qualcosa di nocivo e tuttavia indispensabile. Un miscuglio inesauribile di piacere e dolore che puntualmente cambiavano forma e contenuto la notte, prima di addormentarmi.
(L’immagine di copertina è di Balthus)
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