05 Dic Elisa Ruotolo, “Alveare”
di Giorgio Galli
“Inutili divoratori di spazi e mense
mai sazi della carne
ingombranti e fragili, restiamo in questa
casa monda di ogni misericordia.
L’attesa è nell’ombra, mescolata al rumore
e al delirio.”
“Nulla si sceglie – tutto si desidera
nell’infinito possibile avresti avuto intenzioni
di volo o di passo?
Di briglia o resurrezione?”
“È una landa breve, la terra
e il cielo un vuoto troppo ripido per arrivare al fondo
-all’ultima porta- dove si pesa il dolce
e l’amaro
che siamo stati”
Sentirsi indifesi di fronte a una bellezza troppo intensa per essere sopportata e amare sentirsi così: è questa la reazione che si prova alla lettura di Alveare (Crocetti, 2023), l’ultima creatura di Elisa Ruotolo. Non c’è parola che non scuota, non pulsi, non sanguini.
Ogni opera nuova della scrittrice contiene in sé le precedenti: e così, Alveare condivide con Il lungo inverno di Ugo Singer la dimensione della fiaba -anche se questa è una fiaba più crudele, mossa dalle leggi immutabili della specie e del destino anziché dai sentimenti pressoché umani delle tartarughe di Ugo– e condivide con Luce, l’ultimo racconto pubblicato la scorsa primavera, l’andare incontro a un orizzonte luminoso, benché sia un orizzonte anche di morte, e benché per la maggior parte del poema l’orizzonte rimanga, più che luminoso, arroventato: la luce di Alveare è una luce accecante, una luce che disegna il suo buio. Leggendo, ho pensato alle atmosfere della tragedia greca, la sezione intitolata Voci spezzate mi ha ricordato Pindaro e Hölderlin, la danza nel sole uno dei Sonetti a Orfeo di Rilke, il modo lapidario in cui sono delineate natura e funzioni delle api evoca certi impassibili -e pur intensissimi- epigrammi di Spoon River e dell’Antologia Palatina.
Sì, ci sono i temi più cari alla scrittrice: il corpo e il desiderio come in Quel luogo a me proibito, la smisurata voglia di vivere contrapposta a una ridotta energia vitale come nella precedente raccolta di poesie Corpo di pane, ma stavolta c’è qualcosa di completamente nuovo e di più tragico: il tragitto di Alveare è una delle infinite ripetizioni possibili di un tragitto già scritto e mille volte ripetuto; l’unica eternità possibile alle api è l’eterno ritorno. La loro condizione può esser metafora di quella umana a patto d’intendere anche la condizione umana come un carcere governato da una legge di necessità irrefragabile. La poesia finale stempera tutto in un volo luminoso, ma, se mi è concesso questo accostamento, è un volo che somiglia al girotondo conclusivo di Otto e mezzo di Fellini: un momento liberatorio, un sorriso malinconicamente vitale, ma anche un sogno funebre. La morte non si allontana mai dalla vista in questo poema. In Ugo Singer il topolino Sam escogitava un rimedio, un affettuoso espediente per fingere con l’amico di esserne immune; qui è la morte che crea la vita, la distruzione è condizione del costruire, e lo sa bene il personaggio dell’Architetto, che non a caso porta nel suo nome uno degli appellativi “laici” di Dio.
Elisa Ruotolo ha sempre scritto opere di qualità, e la sua produzione recente mostra una crescita ulteriore, che l’ha condotta là dove è concesso solo a pochi. La sua scrittura s’inscrive nella più autorevole tradizione italiana. Non era sbagliato, perciò, il titolo di una recensione uscita due anni fa: Sono tornate le lucciole. In un errore integrale qual è la nostra epoca, dominata da un intrattenimento sfrenato e aproblematico e dalla logica dell’autopromuoversi e dell’apparire, Elisa si mette pochissimo in mostra e porta avanti quasi in segreto la sua altissima idea di letteratura. E il suo sforzo silenzioso viene ripagato da un successo editoriale insperato per opere di questo tenore. Grazie a lei sappiamo che le lucciole possono tornare.
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