Come un corpo solo: Kieślowski, Piesiewicz, Preisner, Jacob

di Giorgio Galli

 

Kieślowski non persegue il film perfetto, ma un’indagine che si realizza nel corso di più film -come della trilogia dei colori, come in Decalogo, come nel mai realizzato trittico dalla Divina commedia. Nella sua produzione matura, La doppia vita di Veronica è l’unico film che sta a sé, e per questo forse è meno rappresentativo della sua idea di cinema. Con una trama esilissima, tenuta insieme da minimi dettagli sempre al confine fra la realtà e la fiaba, con il suo essere quasi privo d’azione, quasi privo di credibilità drammaturgica ma pieno di forza evocativa, potrebbe essere un eccezionale esempio di quello che Pasolini chiamava “cinema di poesia”. È forse il film più enigmatico e sottovalutato del regista, e il più poetico insieme a Film rosso. Il volto di Irène Jacob, la sua recitazione soave incarnano il lato estatico dell’universo espressivo del regista. Se l’interpretazione più riuscita di un personaggio femminile nella sua opera è quella di Juliette Binoche in Blu, le due pellicole realizzate con la Jacob sono quelle in cui attrice e regista si dimostrano più in sintonia.

Chi lo ha conosciuto racconta che Kieślowski non parlava quasi mai di film, men che meno di cinema: era un uomo concreto, i film li faceva. Li viveva con trasporto, ma anche con distacco. Gli attori, sotto la sua autorevolezza, si trasformavano. Non aveva bisogno d’essere severo. Sceglieva persone che la pensavano come lui. Irène Jacob imparò il polacco e recitò Veronica in polacco. Poi fu doppiata da un’attrice che non aveva il suo accanto straniero, ma intanto aveva recitato in polacco.

Zbignew Preisner, il compositore nonché grande amico, racconta che Kieślowski gli diede la sceneggiatura, poi gli telefonò due giorni dopo e chiese: -Allora, per la musica?

-Eh- rispose Preisner -Che cosa?

-Non hai letto il copione?

-Sì.

-E quindi?

-Ma a cosa ti riferisci?

-Alla scena in cui Veronica “canta una bella canzone”.

-E non hai idea di come debba essere la canzone?

-No.

In quel momento Preisner seppe che quella era la scena in cui il pubblico doveva conoscere il talento musicale di Veronica. Trovò in un locale una studentessa di canto con una voce divina. Compose il pezzo e glielo fece registrare. Ma bisognava che Irène imparasse a respirare a tempo, doveva sembrare che stesse davvero cantando. Nessuno del pubblico doveva notare un’imperfezione, nessuno doveva dubitare che quello che stava accadendo non era vero. La scena doveva essere magia. Il pubblico semplicemente doveva convincersi che Veronica era un grande talento. Irène imparò a respirare e a muoversi in sincronia col canto. Ci volle molto lavoro. Non si risparmiarono. Preisner le insegnò a respirare, provarono la scena molte volte, e ogni volta il compositore individuava un errore e la faceva ripetere, finché Irène non si trasformò in Veronica e il suo corpo cantò la canzone. Questo voleva dire, per Kieślowski, lavorare con gente che condivideva le sue idee.

Se Veronica è, nella produzione matura del regista, l’unico film che sta a sé, anche la musica è perfettamente autosufficiente. Le partiture composte per la trilogia dei colori si richiamano a volte l’un l’altra -a tacere del fatto che la musica di Film blu ripercorre per metà pellicola quella del precedente Senza fine, con cui condivide l’elemento funebre. Veronica invece gode di quella che forse è la più bella colonna sonora di Preisner. Le musiche di Film blu, Bianco e Rosso contengono brani eccezionali, ma, per continuità di tensione e bellezza, la partitura di Veronica le supera.

La doppia vita di Veronica è anche il secondo film, dopo il nono episodio di Decalogo, in cui compare il fittizio compositore olandese Van den Budenmayer. Perché, nella cinematografia severa di Kieślowski, ci fu spazio anche per un colossale scherzo. Andò così. Un giorno Preisner e Kieślowski chiacchieravano davanti alla sceneggiatura di Dekalog. Kieślowski voleva mettere in una certa scena una musica di Mahler. Comprare i diritti di Mahler però, in Polonia, era complicato. Allora Preisner propose di comporre lui la musica. -Se non funziona, disse, -compri i diritti di Mahler. Se funziona, facciamo che l’ha scritta un altro compositore.

-E chi?

-Lo inventiamo. Troviamogli un nome.

Diedero un nome all’immaginario compositore: Van den Budenmayer. Gli diedero anche un’epoca, il diciottesimo secolo. Van den Budenmayer era un compositore olandese del diciottesimo secolo riscoperto solo di recente, e come tale compare ne La doppia vita di Veronica. Si parlerà ancora di lui anche in Film blu e Film rosso. Un giorno Kieślowski ricevette una lettera dai curatori dell’enciclopedia Larousse che volevano notizie su Van den Budenmayer: era una voce mancante… Qualcuno, siccome le musiche di Van den Budenmayer somigliavano a quelle di Preisner, accusò Preisner di plagio, e Preisner dovette spiegare alla società francese degli autori e degli editori che Van den Budenmayer non era mai esistito. Il gioco era riuscito troppo bene. Ad esser sinceri, la musica di Preisner, compresa quella attribuita a Budenmayer, ha uno spiccato carattere tardoromantico, e degli “sbalzi d’umore” così tipicamente slavi che ci vuole una bella ingenuità per credere che sia stata composta in Olanda alla fine del diciottesimo secolo. Ma, drammaturgicamente, funziona. Non credo di esagerare se dico che, a tenere insieme un film dall’intelaiatura diegetica così esile come Veronica -dove nella prima parte la protagonista pronuncia pochissime parole e che forse è il più scarno di dialoghi di tutta la cinematografia del regista- è soprattutto l’atmosfera creata da Preisner con una partitura piena d’estasi e furore. La musica avrà un ruolo di primo piano anche in Film blu, non solo perché è parte della trama, ma soprattutto perché è l’inno finale di Preisner a rendere possibile la saldatura tra le due anime del film, quella gelida e disperata della prima parte e quella, carica di vita e d’emozione, del finale.

L’esile trama di Veronica era in embrione già nei dialoghi di Decalogo 9, dove faceva la sua apparizione anche Van den Budenmayer. Il mondo di Kieślowski è un mondo dalle molte ricorrenze: ricorrenze di personaggi e di attori –e vengono in mente le riapparizioni, in Film bianco e Film rosso, dei protagonisti delle pellicole precedenti, o il richiamarsi l’un l’altro degli episodi di Decalogo. Ci sono poi le ricorrenze di situazioni –come l’anziana signora che fatica a buttare l’immondizia e che si ripresenta in molti film, permettendo di analizzare le diverse reazioni dei personaggi. Veronica è anche un’opera di confine tra i due periodi della vicenda umana e artistica di Kieślowski, che inizia come documentarista, continua con film che ritraggono la vita della Polonia negli ultimi anni del regime e poi vira, con Senza fine, verso temi metafisici. In Decalogo c’è ancora un senso corale, dovuto, a tacer d’altro, al fatto che i protagonisti vivono tutti nella stessa triste palazzina socialista; compaiono ancora motivi sociali –evidenti nel discorso contro la pena di morte innalzato in Decalogo 5, poi ampliato in Breve film sull’uccidere. Nei lavori del periodo francese questa caratteristica si va attenuando: nella prima parte di Veronica vediamo qualche momento delle proteste antigovernative nella Polonia degli anni Ottanta, ma nella trilogia dei colori il mondo scompare a poco a poco: c’è, debolmente, in Film blu e paradossalmente in Film bianco, ma si dissolve in Film rosso, dove ci sono quasi solo i due protagonisti, la ragazza e il giudice, e gli altri personaggi sembrano disporsi a raggiera intorno al discorso che intrecciano –personaggi, oltretutto, molto astratti, quasi pure figure attanziali. La doppia vita di Veronica, in un certo senso, annovera tra le sue molte letture possibili anche quella di essere la doppia vita di Kieślowski…

Stanley Kubrick, che non era tipo da complimenti, ne riservò uno speciale al collega polacco: “Sono sempre restìo a sottolineare una caratteristica specifica del lavoro di un grande regista, perché ciò tende inevitabilmente a semplificarne e sminuirne il lavoro. Ma riguardo a questa sceneggiatura di Krzysztof Kieślowski e del suo coautore, Krzysztof Piesiewicz, non dovrebbe essere fuori luogo osservare che essi hanno la rarissima capacità di drammatizzare le loro idee piuttosto che raccontarle solamente. Esemplificando i concetti attraverso l’azione drammatica della storia essi acquisiscono il potere aggiuntivo di permettere al pubblico di scoprire quello che sta realmente accadendo piuttosto che semplicemente raccontarglielo. Lo fanno con tale abbagliante abilità, che non riesci a percepire il sopraggiungere dei concetti narrativi e a materializzarli prima che questi non abbiano già raggiunto da tempo il profondo del tuo cuore”.

Kubrick colse nel segno. Una delle caratteristiche del genio di Kieślowski -quella che fa di lui un regista incredibilmente moderno- è il perfetto lavoro di squadra che sapeva realizzare insieme a Preisner e a Piesiewicz: regista, musicista e sceneggiatore -e, nei film con Iréne Jacob, anche interprete- si muovevano veramente come un corpo solo, come un’unità di pensiero e di espressione che forse non ha eguali in tutta la storia del cinema. Spirito integralmente moderno, Kieślowski non credeva nell’autore-demiurgo: credeva nell’opera, e un film è un’opera che non si fa da soli. Questo, tuttavia, non deve sminuire l’eccezionale personalità del regista, perché l’atmosfera che si creò fra lui, Preisner e a Piesiewicz era in gran parte una sua creazione. Prova ne è che, dopo la scomparsa del regista, né il musicista né lo sceneggiatore ritrovarono quella magia: Piesiewicz, dopo qualche altra sceneggiatura, tornò alla sua professione d’avvocato per poi dedicarsi alla politica; e Preisner scrisse altra musica, sì, anche bella, ma non tornò ad essere l’animatore di edifici sinfonico-corali in cui il dolore del vivere è tutt’uno con la dirompente meraviglia del nostro stare al mondo.

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