25 Gen “I Greci, i Romani e… il mare”
di Francesco Castronovo
“I Greci, i Romani e… il mare” è una recente pubblicazione della collana “I Greci, i Romani e…” diretta da Simone Beta e Tommaso Braccini. La collana, in breve, raccoglie testi divulgativi di antropologia del mondo classico. Libri, quindi, che hanno l’obiettivo di farci vivere il mondo greco-romano attraverso gli occhi degli antichi, ricostruendo il senso di pratiche, usi e costumi, ma anche di idee e metafore dei nostri classici.
Il libro di Donatella Puliga è un esempio concreto di antropologia del mondo antico: la studiosa, attraverso una serie di testi – presentati nella traduzione curata dalla stessa – incentrati sull’universo marino, cerca di guidare i lettori e le lettrici a vedere il mare con gli occhi degli antichi. Infatti, ogni capitolo si apre con una discussione su un argomento specifico, al quale segue una breve selezione di passi tratti dalle letterature greca e latina, di modo che sia possibile arrivare ai testi con gli strumenti idonei per leggerli con competenza.
Ma cosa significa ‘vedere il mare con gli occhi degli antichi’? Anzi, in che modo possiamo conquistare una visione altra della realtà, doppiamente aliena, sia per ragioni di contesto che temporali? In breve, l’approccio antropologico consiste nel ricostruire il senso simbolico della realtà, a partire da una lettura interna dei significati di cui si compone l’oggetto osservato, in relazione a una precisa comunità. Questa focalizzazione ‘dal di dentro’ è detta approccio emico ed è la disposizione che permette all’antropologo di cercare di assumere il punto di vista della comunità osservata, attraverso i valori della stessa comunità, cercando di non giudicare secondo parametri che appartengono ad un altro sistema di valori. L’altro tipo di approccio, quello critico, basato su un giudizio esterno su ciò che l’antropologo osserva, è detto approccio etico, e consiste nel guardare alla comunità osservata ‘dal di fuori’, senza assumere il punto di vista degli uomini che si studiano.
“I Greci, i Romani e… il mare” percorre la via del punto di vista emico, motivo per cui la studiosa lascia ampio spazio ai testi. Infatti, l’antropologo che vuole osservare la ‘tribù’ dei Greci e dei Latini si trova a operare in un campo prevalentemente letterario e, pur adoperando gli strumenti dell’antropologia, deve fare i conti con una testualità scritta, muta e inerte, se non sapientemente interrogata e adeguatamente sollecitata.
Ma di cosa parla il libro? I vari capitoli affrontano diversi aspetti del mare: il mare come generatore di vita, sia di mostri che di dei, ma anche latore di morte; il mare come altra terra, ma anche come elemento di sfida per la navigazione; il mare anche in relazione al genere, dato che i testi ci presentano diversi esempi di eroi navigatori (al maschile) e di diverse eroine (quindi l’universo femminile), spesso intrappolate sulla spiaggia o su un luogo ad attendere il ritorno dell’eroe navigante, figure quindi relegate all’attesa o alle isole (per l’attesa si pensi a Penelope, per le isole all’isola di Circe, di Calipso, delle Sirene, ma anche a Nausicaa, che Odisseo trova su una spiaggia); il mare in relazione al potere e alle leggi; ma anche come luogo di naufragi e generatore di metafore per filosofi, poeti e scrittori.
I brani dell’antologia hanno la funzione di dimostrare quanto affermato nei rispettivi capitoli, ma anche di mostrare l’effettiva espressione degli elementi analizzati dalla studiosa. Quindi, la selezione dei passi serve tanto come prova delle argomentazioni e delle indagini dell’autrice, quanto come esempio e lenti attraverso cui vedere il mare con gli occhi dei classici. I versi annotati e tradotti, tuttavia, conseguono anche un altro scopo, ovvero la restituzione di un breve e coerente corpus che rubrica autori notissimi a fianco di altri quasi sconosciuti. Quindi, lettori e lettrici hanno modo di scoprire scrittori come Antonino Liberale, Artemidoro, Claudio Eliano, Elio Aristide, Minucio Felice, Mosco, Oppiano, Silio Italico, Sinesio e Vegezio, oltre a una serie di autori dell’”Antologia Palatina”; accanto a nomi inclusi nel canone degli autori e delle autrici che s’incontrano anche e con più probabilità fra i banchi di scuola.
Lo stile di Donatella Puliga è semplice, lineare e chiaro, perfettamente allineato alla chiarezza che un testo divulgativo richiede. Tuttavia, la particolarità delle doti tanto di divulgatrice quanto di autrice vanno cercate nella costruzione dei periodi o in alcune scelte sintattiche. Nel seguente passo, ad esempio, la scrittrice apre il sesto capitolo (intitolato “Racconti dalla riva”) di colpo, con un’introduzione che ammicca alla curiosità di lettori e lettrici:
«Un approdo che si cerca affannosamente, una meta a cui si aspira per trovare scampo alla furia del mare: questo, a partire dall’Odissea, è il tratto costitutivo della riva.» (pag. 111)
Un inizio in medias res, che parte dalle funzioni che, in potenza, la riva assume, ovvero quelle di approdo e di meta salvifica a cui il povero naufrago aspira; quindi, dopo averne costruito l’immagine in relazione al tema del naufragio, l’autrice rientra nel porto della letteratura, presentando il modello imprescindibile per un discorso sulla riva, l’ “Odissea”. Si tratta di un attacco dove le qualificazioni dell’oggetto osservato – la riva – precedono la definizione dell’oggetto medesimo, nel quale, quindi, si crea una dislocazione del tema principale, funzionale a creare attesa e desiderio di proseguire in chi legge.
L’ottavo capitolo, invece, presenta due casi esemplari relativamente all’accostamento di termini familiari se presi singolarmente, ma di grande effetto nella loro funzione connotativa. Il primo esempio è rappresentato dal titolo del capitolo, “Disperazione e (poca) allegria di naufragi”, il quale rimanda alla raccolta del poeta Ungaretti, instaurando un legame fra i temi della guerra e della precarietà con la condizione del naufrago. Non credo sia casuale che, in questo capitolo, l’autrice affronti il tema del naufragio, puntando gli occhi sul nostro tempo per poi passare, in un secondo momento, al ruolo del naufragio nel mondo antico. Proseguendo lungo la lettura del capitolo, c’imbattiamo nel secondo passo degno di nota per il discorso sulla sintassi e sull’uso connotativo che stiamo portando avanti. Scrive l’autrice:
«Forse proprio per la sua pregnanza fatta di immagini, sensazioni fisiche e psichiche che hanno colonizzato la mente umana fin dal momento in cui l’uomo ha sfidato il mare, il naufragio ha acquistato anche una forte valenza filosofica […].» (pag. 155)
Innanzitutto, la scrittrice disloca ancora una volta l’oggetto della riflessione: in questo caso, tutto il discorso è incentrato sul naufragio, concetto che si rivela solo dopo un primo periodo, il quale assume il suo pieno significato proprio a partire dalla lettura della frase che segue alla virgola (“il naufragio ha acquistato anche una forte valenza filosofica”); inoltre, risulta fortemente connotato l’uso del verbo “hanno colonizzato” in riferimento all’atto del costituirsi di un campionario immaginativo radicato nella mente dell’uomo: in questo caso, l’idea che il naufragio colonizzi la mente crea un legame con l’azione del colonizzare, caratteristica che si associa proprio ai lunghi viaggi, soprattutto per mare.
Un’ultima riflessione riguarda le interferenze col presente: la studiosa, nel trattare con serietà la materia di cui rende conto, senza distogliere l’occhio e il racconto dall’argomento principale, in alcuni casi punta il suo sguardo sul presente senza esimersi dal registrare i drammi del nostro tempo e della nostra posizione rispetto al mare dei frequenti (purtroppo) naufragi. Si tratta di brevi pause dal racconto principale e queste riflessioni non costituiscono certamente la caratteristica identitaria del libro, ma dimostrano che uno studio metodico e fondato su strumenti seri (in questo caso quelli forniti dagli studi classici e quelli che fanno parte della valigia dell’antropologo), non si sottrae dall’affrontare drammi e problemi del nostro tempo.
Ho a cuore questo argomento, perché troppo spesso vedo e sento che lo studio del mondo antico viene assimilato a un hobby o a un interesse accademico (laddove per accademico s’intende ciò che è avulso dalla vita vera, quindi col significato negativo con cui comunemente il termine viene utilizzato e non nell’accezione neutra di riferimento al mondo degli studi superiori). Invece, osservare il mare con gli occhi arricchiti dello sguardo dei classici, restituisce un senso e una profondità nuova, sia rispetto all’elemento del mare, ma anche in relazione alle questioni politiche e legali che con l’argomento mare inevitabilmente si intrecciano.
Del resto, che la scrittrice abbia sott’occhio il presente è evidente già dall’introduzione, dove racconta di una sua personale esperienza, dei tempi in cui studiava all’università, dell’incontro fra una collega e il mare e dell’effetto che la visione della distesa equorea ebbe nella vita della collega e “borsista straniera”. Del resto, il libro, parlando del mare, ci racconta anche di uomini e di donne, di vita e di morte, di sogni e speranze. Allenare la mente a leggere i classici e la realtà attraverso i loro occhi non può che arricchire il nostro sguardo e il nostro presente.
Donatella Puliga, “I Greci, i Romani e… il mare”, Carocci editore, Roma, 2023, pagg. 215, isbn: 978-88-290-2122-2
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