20 Feb La fanciullezza sottoproletaria e la maturità borghese; cosa si cela nel mezzo? L’adolescenza problematica dell’operaio
di Lorenzo Gasparini
Parliamo di Pier Paolo Pasolini, delle categorie anagrafiche e sociali che caratterizzano la sua opera e le sue chimere, per richiamare il titolo del recente lungometraggio della regista Rohrwacher; così, Pasolini, immaginiamo si aggirasse tra le catacombe di un mondo antico, destituito dalla superficie fatta di nuovi costumi, nuovi soggetti. E il poeta-regista non ne vedeva più la Grazia, di questi nuovi soggetti. A lui cara, invece, l’allegria del Lumpenproletariat – dei poveri. Avversa e nemica, per vicende e attitudine, la compagine del mondo borghese italiano, definitosi sotto i suoi acuti occhi, tra gli anni ’60 e gli anni ’70. Nella dialettica e nella critica pasolinista si sono sempre stabiliti due poli opposti, a buona ragione: il conflitto tra il mondo borghese e quello sottoproletario. A buona ragione perché, ovviamente, tutta la produzione pasoliniana concentra le sue risorse nell’indagine del mondo sottoproletario, verso i suoi elogi. Sembra, esso, ricalcare le qualità del fanciullino, incarnare la spensierata età infantile. Non sono pochi i riferimenti in questo senso. La contentezza e la spensieratezza molto spesso, se non sempre, si congiungono nell’assioma di un giovane sottoproletario – nella letteratura e nel cinema di Pasolini. Si pensi a Gennariello di Lettere Luterane, al Riccetto e la sua banda di Ragazzi di vita, ad Accattone. Gli esempi sconfinano nella poesia, nella dedica di Saluto e Augurio, poesia in friulano in cui Pasolini si rivolge ad un giovane ragazzo fascista. L’infante, l’inconsapevole – il contadino, il sottoproletario. Poiché è l’incoscienza di classe che dona la Grazia, come viene ricordato ne Le ceneri di Gramsci – “la sua natura, non la sua coscienza” (1.) In opposto, il ruolo dell’uomo in carriera, del borghese emergente, della vita di Carlo in Petrolio. La bruttezza, l’amorfismo dei volti degli uomini di potere che popolano taluni salotti nei quartieri benestanti di Roma: “davanti a quelle facce di maschi, tra i trentacinque e cinquant’anni, divorati da vite spese in interessi, tutto sommato schifosi, così che i corpi – da cui quegli interessi erano in concreto vissuti – avevano subito una specie di degenerazione, Carlo era come un bambino tra i grandi” (2). Alla tensione positiva giovanile corrisponde la colpevolezza dei visi adulti borghesi. Ma tra l’infanzia e l’età adulta, corrispondenti, come abbiamo tentato di mostrare, al sottoproletariato e alla borghesia, cosa si innesta nel mezzo? C’è un adolescente problematico: il proletario. Egli, non totalmente povero, ma impoverito, non è nemmeno totalmente borghesizzato – non ancora, almeno nel momento in cui Pasolini scrive (una questione di difficile determinazione, che meriterebbe un ulteriore spazio, muovendo i suoi passi dalla Frankfurter Schule). Nelle stagioni della vita, dalla beatitudine del grembo materno, immaginario caro a Pasolini (3), alla consapevolezza dell’età adulta, che irrimediabilmente corrompe, potremmo azzardare ad inserire il proletario come figura di mezzo: tra una sconcertante forza vitale sottoproletaria ed una lugubre infezione borghese. L’operaio, pertanto, suscita enorme interesse nel contesto della produzione pasoliniana, proprio per la sua natura sfuggente. Pasolini, ammette lui stesso, non riesce a collocarlo nella dimensione artistica dei suoi lavori. Egli manca nella riproduzione del suo linguaggio. Il proletario, in quanto cellula industriale, vive un mondo chiuso – per dirla alla Ottieri, quando nel 1954 sulla rivista Il menabò di Vittorini e Calvino, afferma che “se la narrativa e il cinema ci hanno dato poco sulla vita interna di fabbrica, c’è anche una ragione pratica, che poi diventa una ragione teorica. Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso. Non si entra e non si esce facilmente” (4). Così, coerentemente alla sua opera, Pasolini, in una intervista con Gideon Bachmann del 1965, ci conferma che “una cosa non posso fare: rendere espressivo, artistico, e quindi umano, il linguaggio dell’operaio in quanto operaio” (5.) Lo spazio dell’operaio è problematico, è adolescenziale. Nell’ortodossia della teoria marxista, il proletario è il polo antietico che induce alla risoluzione. Nella pratica dell’Italia, ma anche dell’Europa, del boom economico degli anni ’60, tra l’intellighenzia marxista ci si comincia a chiedere se l’operaio non fosse ormai inglobato in una meccanica schiacciante e annichilente, che l’abbia privato della sua carica rivoluzionaria. In Pasolini, l’esame interessante da non dover precludersi, è quello di tentare di formulare una risposta al precedente quesito. La meravigliosa constatazione da poter fare è che, però, non sembra esserci una definizione netta. La figura operaia è sviluppata in Pasolini, soprattutto nella produzione poetica, con una sua andatura altalenante. Non rappresenta mai la priorità delle ramificazioni poetiche e ricopre la scena in contrasto alla mancata pro-azione del PCI. Così, l’operaio appare un disilluso complesso di lavoro e tenerezza, come ne Le ceneri di Gramsci, ne Il pianto della scavatrice, in Trasumanar e organizzar e ancora ne Il PCI ai giovani. Tuttavia, esiste l’interesse, inevitabilmente, dell’autore verso il mondo operaio, verso l’indagine del suo linguaggio. Seguirne le trame è, quindi, possibile. Si riscoprono delle incrinature tra le immagini che Pasolini ci offre, come La tosse dell’operaio, una piccola elegia al lavoro di un operaio contenuta nella rubrica Il caos. Ritroviamo, oltre che i parallelismi sul dato anagrafico del lavoratore e la sua classe sociale, la tenerezza e il furore che si conciliano nella figura del proletario
– “egli sopporta il male, e se lo cura, immagino, come noi da ragazzi. La vita per lui è rimasta decisamente scomoda […] e quando viene il male, esso è accolto eroicamente: un operaio ha sempre diciotto anni, anche se ha figli, più grandi di lui, nuovi agli eroismi” (6). Un manovale, un operaio, è sempre un adolescente, e lo è in modo problematico, giacché il suo linguaggio è di impossibile rappresentabilità. E se per Pasolini la rappresentabilità è la crema della vita, all’operaio
– creatura mitologica irriproducibile – quale intento rimane? Scardinato dalla sua possibilità di comunicazione, appare come un elemento inerme. Sembra, in alcuni tratti della produzione pasoliniana, che “la ragione profonda di tale impossibilità di mimesis è appunto l’identificazione potenziale del linguaggio dell’operaio col linguaggio della fabbrica” (7). Il problema risiede nella percepita congruenza tra linguaggio del borghese e quello del proletario, vale a dire l’opera della cultura borghese volta a fagocitare le particolarità delle altre classi. Così, “pare non si possa far parlare la fabbrica, usufruire della sua lingua, reperirvi un margine di libertà, riviverla” (8). Pare proprio che sia così. La fabbrica totalizza e poiché, in una certa misura, è coercitiva (trovandoci in accordo col Foucault di Sorvegliare e punire), rispecchia la mimica del suo padrone. Il proletario, cellula attiva del processo di produzione, non è esente dall’assoggettarsi alla dialettica padronale. Ma, da qui il fascino per un autore inconsumabile, Pasolini offre una nuova strada da percorrere – Teorema, 1968. Un progetto ibrido, come la natura stessa del proletario, un’opera anfibia, come la definisce il critico Cesare Garboli, che nel film interpreta il giornalista della primissima scena.
Anfibia soprattutto per la sua genesi, avvenuta quasi in contemporanea, sia letteraria che cinematografica. Lo stesso Pasolini, nell’introduzione all’edizione scritta la definisce “una prosa poetizzante” (9) – Teorema, infatti, “è nato, come su fondo oro, dipinto con la mano destra, mentre con la mano sinistra lavoravo ad affrescare una grande parete (il film omonimo)” (10). Un lavoro dalla doppia lettura. Nel contesto di interesse in cui finora ci siamo spesi, Teorema è di primissima importanza. Il film si apre, non come di consueto con i titoli di testa, ma con una scena fondamentale che li anticipa. È quella di un giornalista che intervista gli operai della fabbrica che appartiene a Paolo, il padre della famiglia le cui vicende si sviluppano in Teorema. Nel film questo episodio anticipa tutto, mentre nel libro è posto come penultimo capitolo. L’interazione con gli operai è fondamentale. Il giornalista incalza i dipendenti di Paolo con domande pungenti, dal linguaggio, però, definito dal narratore nel libro “di bassa lega, di cultura per cittadini medi” (11). Chiedendo se fosse giusto che il padrone avesse ceduto la fabbrica ai suoi operai, se il dono fatto non fosse l’ennesima riprova di un esercizio di potere da parte del borghese, domandando se la mutazione di ogni uomo in piccolo borghese non fosse già ormai totale, il giornalista non riceve dagli operai se non poche parole timide di risposta, quasi un silenzio. Nel libro, invece, il silenzio è definitivo e assordante. Le domande del reporter non ricevono risposta, nelle righe del dialogo presente nel libro. Dialogo che, infatti, sembra un monologo di domande del giornalista. E, dunque, se il linguaggio del piccolo borghese giornalista è riproducibile in modo perfetto da Pasolini, quello operaio rimane irrappresentabile. Pare che, nel silenzio, si nasconda ancora l’impossibilità di riproduzione linguistica, che celerebbe, oltre la problematicità del soggetto proletario, anche la sua forza rivoluzionaria. Egli, l’operaio, sembra funzionare come l’uomo di colore per Pasolini, poiché “un negro che presenti la sua faccia – nient’altro che la sua faccia, ossia la sua negritudine esistenziale – […] compie evidentemente un atto di rivolta” (12). L’operaio, per il solo fatto di esserlo e di esistere come tale, è già una cellula di potenziale astrazione nei confronti del mondo piccolo borghese. Darà sempre scandalo, concetto caro a Pasolini. L’autore sembra poter confermare questa tesi, quando scrive in Petrolio, nel 1975, che “in fondo assomiglia [la realtà] al gesto meccanico di un operaio: che è insieme un gesto della produzione a cui egli collabora come un ordinato ingranaggio, e un gesto carico di minaccia rivoluzionaria” (13). Pur trattenendo nel significante dell’operaio la sua essenza ibrida, non smentisce mai, e anzi rimarca, la sua natura rivoluzionaria, almeno potenziale. Infatti, continua Pasolini, “questa ambivalenza del suo gesto [dell’operaio] comprende quindi l’intera realtà. Mai un borghese potrà compiere un simile gesto” (14). Egli stesso parla di ambivalenza e, inoltre, colloca l’operaio in una posizione assolutamente contrastiva rispetto al borghese – ma non solo in un senso storicista puramente marxista. Ovvero, per Pasolini, il proletario pare non essere solo un elemento necessario alla dialettica di uno scontro di classe. Non unicamente questo. Se il borghese, con il suo gesto, non può ricoprire l’intera realtà, l’operaio riesce in questa impresa. Non è un rapporto, quindi, solo dialettico – l’operaio, ricoprendo l’intera realtà col suo gesto, non dipende dialetticamente dal borghese. Questo è un ritaglio di autonomia che Pasolini crea per l’operaio. Non è il pensiero di un marxista ortodosso – di fatti, siamo qui di fronte all’ultimo Pasolini, che nel 1975 aveva abbracciato una differente Weltanschauung rispetto al concetto stesso di Storia e altre macro-tematiche:
La realtà non si divide, da una parte, nella società conformista, che segue l’evolversi del capitalismo, e nell’altra parte, in coloro che si oppongono a questo attraverso la lotta di classe: la realtà comprende e integra tutte due queste parti, perché la realtà, lei, non è manichea, non conosce soluzioni di continuità. (15)
(1) Pasolini, P. (2021): Pasolini. Le grandi poesie. Garzanti. pp. 55
(2) Pasolini, P. (2014): Petrolio. Mondadori. pp. 260
(3) Si veda a tal proposito l’articolo Thalassa del 25 Gennaio 1975 in Scritti corsari, Garzanti, 2017
(4) Ottieri, O. (1954): Taccuino industriale. Menabò, in: Industria e letteratura, a cura di: Elio Vittorini. P. 21
(5) Pasolini, P. (2015): Polemica Politica Potere. Conversazioni con Gideon Bachmann. Chiarelettere editore. P. 83
(6) Pasolini, P. (2016): Il caos. Garzanti. pp. 268
(7) Pasolini, P. (1972): Empirismo eretico. Garzanti. pp. 107
(8) Ibidem
(9) Pasolini, P. (2021): Quarta di copertina, in: Teorema. Garzanti
(10) Ibidem
(11) Pasolini, P. (2021): Teorema. Garzanti. pp. 186
(12) Pasolini, P. (2016): Il caos. Garzanti. pp. 89
(13) Pasolini, P. (2005): Petrolio. Oscar Mondadori. pp. 423
(14) Ibidem
(15) Ibidem
No Comments