22 Feb Dorina Corso Majorana
di Giuliana Ferrara Sardo
Nel 2012 visitai la mostra ARTE DONNA. Cento anni d’arte femminile in Sicilia 1850 – 1950 ed ebbi modo di conoscere un cospicuo numero di opere riguardanti la produzione pittorica femminile isolana. All’interno del Reale Albergo delle Povere di Palermo la prof.ssa Anna Maria Ruta – curatrice della mostra- aveva raccolto circa duecento opere realizzate da trentatré artiste vissute negli anni a cavallo tra i due secoli, la maggior parte di esse sconosciute ai più. Nel ricco e curato catalogo della mostra Dacia Maraini constatava con amarezza la svalutazione critica e artistica che era toccata a queste opere: «Nessuno spiega analiticamente la ragione di questa sottovalutazione […] Si dà per scontato che le donne siano una categoria umana inferiore per storia e tradizione consacrata. Nessuno si è dato la briga di andare a vedere, a studiare, ad approfondire questi dipinti, dando per scontato che essendo di mano femminile, sia in partenza arte marginale, trascurabile, infantile, primitiva, irrilevante […] quante pittrici siciliane e quanto profonde e originali! Ma perché non sono conosciute? Perché il mercato le ignora? Perché alcune di queste splendide tele non hanno prezzo degno sul mercato internazionale? Perché nessuno le ha messe in catalogo? La risposta più conosciuta, tanto da diventare luogo comune, dice: perché si tratta di pittura minore».
Per quanto riguarda il contesto culturale isolano e non solo, l’assenza della donna nell’arte come esecutrice, come autrice di opere d’arte, affonda le radici in tempi lontanissimi, dovuta principalmente alla rigida ripartizione dei ruoli che i due generi hanno storicamente esercitato all’interno della famiglia e della società. Soffermandoci in un contesto culturale esclusivamente siciliano, le pittrici e scultrici documentate nei libri di storia dell’arte sono delle eccezioni! Nella maggior parte dei casi erano o monache o donne legate a una figura maschile già affermatasi nel mondo dell’arte, come Rosalia Novelli, figlia del più celebre pittore monrealese Pietro, o Rosalia D’Anna, figlia del pittore Vito, che oltre essere la sua modella pare abbia eseguito delle opere d’arte di cui, però, non rimane traccia. La terza possibilità per una donna di poter dedicarsi all’arte – senza l’aggancio di un artista uomo in casa – era contemplata esclusivamente per le donne che provenivano da un ambiente aristocratico o comunque benestante. Ciò consentiva ad esse di ricevere un’educazione da parte di precettori che basavano il loro lavoro su letteratura, musica e arte. È il caso della celebre Sofonisba Anguissola, pittrice cremonese siciliana d’adozione, di Adelaide Atramblé Sommariva, delle sorelle Felicita e Amalia Alliata di Villafranca e d’Ucria.
A questa terza categoria apparteneva la catanese Salvatrice Corso. Scoprii il suo talento pittorico grazie ad una pala d’altare che raffigura il Transito di San Giuseppe, custodita presso la chiesa Maria S.S. del Rosario di Passopisciaro, piccola frazione ai piedi dell’Etna, dove la famiglia Corso trascorreva lunghi periodi di villeggiatura. Mia nonna paterna aveva una casa li vicino ed era legata molto a quei luoghi: fu lei, in una delle tante gite in da quelle parti, a spiegarmi chi aveva dipinto la tela raffigurante il Transito di San Giuseppe. Fino a non molto tempo fa quest’opera nella mia mente era stata catalogata come facente parte di quelle che Francesco Orlando chiamava “Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti”. Solo in tempi più recenti, quello che per me era esclusivamente un personale punctum barthesiano, ripensando a tutte le opere esposte nella mostra palermitana, si è poi trasformato in studium, indagando su cos’ era esistito prima della pala d’altare, se c’era stato un dopo: un’opera dipinta con una delicatezza del genere non poteva essere un caso isolato.
Salvatrice nacque a Catania il 2 marzo 1876, unica figlia dell’ingegnere catanese Luciano Corso e di Maria Catena Felsìna, appartenente all’aristocrazia terriera di Castiglione di Sicilia. Con estro trasformò Salvatrice in Dorina, dal greco doron (dono): sarà il nome che userà per tutta la vita e con il quale firmerà le sue opere. Come consuetudine per le ragazze appartenenti a un ceto benestante, si dedicò alle arti, dipingendo molto e suonando il piano. La Corso manifestò precocemente questo innato talento per la pittura, dimostrando grande abilità nel disegno fin da subito. L’ambiente di origine giocò un ruolo determinante per questo percorso di formazione: essa crebbe in un ambiente che assecondava le sue inclinazioni. Dalla grossa mole di opere e disegni preparatori si capisce che quest’attività pittorica era assecondata dalla famiglia, che tra l’altro vantava l’amicizia di un pittore dal calibro di Giuseppe Sciuti. Apprese i primi rudimenti sul disegno dal padre e si servì di testi e stampe per esercitarsi su opere di celebri artisti: ne sono prova i quaderni con gli schizzi e un buon numero di tele che testimoniano il gusto e l’evoluzione del suo stile pittorico. Seppur con una spiccata preferenza per la pittura accademica, non aderì a correnti pittoriche particolari, e ciò probabilmente fu dovuto sia a scelte personali che alla complicata situazione della cultura figurativa dell’Ottocento in Sicilia, carente di una linea omogenea da seguire. Ciò era dovuto a molteplici fattori: gli artisti siciliani non erano estranei al dibattito artistico nazionale, ma la consolidata rivalità fra la zona occidentale e orientale dell’isola aveva causato una diversità di orientamento e gusto sia dal punto di vista tematico che stilistico. Si era creata quella che lo storico e critico d’arte Giuseppe Frazzetto definisce una “storia di singoli individui”. Nonostante ciò, è possibile individuare delle linee generali che contraddistinguevano le diverse correnti artistiche dell’isola. Nella zona occidentale spiccava la pittura vedutista con Francesco Lo Jacono, Antonio Leto, Michele Catti, specializzati nella raffigurazione del paesaggio siciliano, con marine, panorami, a volte animati da figure. Nella zona orientale, principalmente a Catania, dal punto di vista tematico dominavano invece il ritrattismo, la pittura di tema sociale o storicizzante. I maggiori esponenti erano Michele Rapisardi, Francesco Di Bartolo, Pasquale Liotta Cristaldi, Natale Attanasio e Giuseppe Sciuti. La loro formazione era avvenuta tra le principali accademie di belle arti del tempo, come Napoli, Roma e Firenze, ma anche presso pittori locali come Antonino Gandolfo, che a sua volta discendeva da una famiglia di artisti, tra i quali Giuseppe che era stato nella metà dell’Ottocento il più importante ritrattista della Sicilia Orientale. Tra gli allievi del Gandolfo si ricordano Alessandro Abate, artista eclettico ricordato soprattutto per la sua attività di affreschista, e Gaetano D’Emanuele. Quest’ultimo, coetaneo della Corso, era figlio di un decoratore scenografo che aveva affrescato numerose volte per palazzi, ville e case della media ed alta borghesia catanese.
È quasi certo che le famiglie D’Emanuele e Corso si conoscessero e non si esclude la collaborazione tra l’ingegnere Luciano e Damiano D’Emanuele nella progettazione e decorazione di alcune dimore catanesi; inoltre, le abitazioni delle rispettive famiglie si trovavano entrambe in via Etnea a pochi metri di distanza. Gli affreschi presenti nel palazzetto Corso probabilmente furono eseguiti proprio dal freschista Damiano. La Corso, quindi, visse gli anni giovanili in questo entourage artistico costituito dal sodalizio di ingegneri, architetti, pittori e decoratori alle prese con il nuovo volto di Catania. Assorbì chiaramente gli influssi della Sicilia orientale: la sua produzione pittorica spaziava attraverso svariati generi, come pittura sacra, paesaggi, pittura di genere, nature morte, scene di ambientazione agreste e ritratti, ma erano proprio quest’ultimi il genere in cui l’artista eccelleva. La peculiarità di queste opere è data da un’eccezionale verosimiglianza dei soggetti raffigurati e dalla cura dei particolari descrittivi. Con certezza si esclude la sua frequentazione di accademie: il suo fu chiaramente un talento naturale che coltivò esercitandosi continuamente eseguendo schizzi e copie di quadri celebri. I suoi interessi pittorici, che spaziavano dalla natura morta alla pittura di genere, dalle tematiche dell’arcadia alla pittura di paesaggio, ci consentono di capire il ricco e variegato bagaglio culturale che essa possedeva.
Oltre le copie, che servivano come esercitazione, la Corso sviluppò una propensione e uno spiccato talento per l’esecuzione dei ritratti. Dall’ impostazione neoclassica sia nella posa che nello sfondo neutro, la loro peculiarità sta nel realismo dei personaggi raffigurati: lo sguardo acuto e penetrante che sembra fissare l’osservatore, i lineamenti e i caratteri fisionomici del volto, carichi di forza espressiva. Vi è piena padronanza della tecnica, un’estrema definizione dei dettagli. La luce illumina i volti e li rende vivi contrapponendosi al fondo scuro, le composizioni sono equilibrate e non vi sono più i chiaroscuri marcati delle prime opere giovanili. La sua produzione pittorica segue il fil rouge degli affetti, e la raffigurazione di essi mira ad ottenere la massima somiglianza fisica combinata con l’aspetto interiore che ci viene comunicato attraverso lo sguardo dei soggetti. Lo sfondo monocromo intorno alla figura non fa altro che esaltare la sua verosimiglianza con la cura dei dettagli del viso e degli abiti indossati.
La genesi della pala d’altare raffigurante il Transito di San Giuseppe si intreccia con la storia di quel periodo: la Corso, per lato materno, discendeva da una delle famiglie più antiche e facoltose di Castiglione di Sicilia, i Felsìna, che vantavano importanti figure all’interno dell’ambiente ecclesiastico. Essi, oltre il palazzo all’interno della Città Animosa, possedevano estensioni agricole, che verso la fine dell’Ottocento, con la crescente domanda di vino proveniente dalle zone etnee, vissero un momento di grande trasformazione e ricchezza che comportò un aumento d’impiego di manodopera tale da costituire ben sette frazioni. In ognuna di esse sorsero numerose aziende vitivinicole, ciascuna con la propria casa-palmento, di diversa architettura, grandezza e sfarzosità, a seconda se di proprietà di contadini, borghesi o nobili. Passopisciaro era una di queste, e qui, nel 1880, l’ingegnere Luciano Corso edificò quella che successivamente diventerà Villa Corso – Majorana. Con l’aumento della popolazione per ogni borgata si sentì il bisogno di costruire scuole e chiese per agevolare gli abitanti del posto, così che nel 1895, per volontà del canonico Rosario Pennisi Cesarò, tesoriere della cattedrale di Acireale, iniziarono i lavori per la costruzione di una nuova chiesa.
Era consuetudine delle famiglie aristocratiche partecipare all’abbellimento degli edifici di culto. Solitamente esse si affidavano ad artisti in voga del periodo. Poco più che ventenne invece, ma con una solida esperienza pittorica alle spalle, Dorina, di comune accordo con le personalità ecclesiastiche della neocostituita Diocesi di Acireale, realizzò il Transito di San Giuseppe. L’opera è una copia di una tela eseguita da artista molto in voga di quel periodo, il veronese Vincenzo De Stefani, pittore che aveva riscosso notevole successo nelle mostre nazionali e internazionali, tanto che nel 1912 la Biennale di Venezia gli avrebbe dedicato una mostra personale a dimostrazione dell’influsso sull’arte del tempo. Il prestigio di questo artista è rimarcato dal fatto stesso che del Transito di San Giuseppe esistono sia due versioni da lui realizzate -una per la Chiesa dei Ss. Apostoli a Verona e una seconda presso la Chiesa di San Michele Arcangelo di Andria- che diverse copie eseguite da altri pittori, tra cui ricordiamo quelle presenti a Milano presso la chiesa di San Carlo al Lazzaretto e Torre Boldone (Bergamo) nella chiesa San Martino Vescovo. Dunque, nel 1897, la Corso si cimenta nella sua unica opera pubblica. È una tela di notevoli dimensioni rispetto alla sua produzione da cavalletto. Sappiamo che fu eseguita all’interno della chiesa stessa, ed essendo l’artista di corporatura minuta, per agevolare il lavoro si fece costruire una sorta di impalcatura. Dal momento che la Corso, da qualche anno, era legata all’ingegnere Fabio Majorana, si suppone che la scelta di raffigurare il Transito di San Giuseppe possa essere una forma di ex voto legata “alla buona morte” per il (futuro) suocero Salvatore Majorana Calatabiano, che si spegnerà nello stesso anno. Questo episodio, riguardante il santo colto nel momento del passaggio dalla vita terrena a quella eterna, è narrato nei Vangeli apocrifi. Il santo viene raffigurato tra le braccia di Gesù, mentre Maria lo assiste tenendogli la mano destra. Alle loro spalle una schiera di angeli, in atteggiamento di profonda venerazione, sembra voler accompagnare la sua anima in quel cielo che già nello sfondo appare rischiarato dalla luce del Paradiso. Accanto alla panca su cui San Giuseppe sta spirando è poggiato un giglio, che denota la caratteristica della sua santità, ovvero la virtù della purezza.
La peculiarità di quest’opera è data sia dal fatto che è eseguita in maniera magistrale, ma soprattutto va notato che è piuttosto raro – ancora oggi- trovare all’interno di edifici religiosi opere eseguite da donne. Per rimanere nell’ambito della Sicilia orientale, sono solo tre le pittrici che vantano loro opere all’interno di edifici ecclesiastici. Tra queste, la celebre pittrice cremonese Sofonisba Anguissola, che nel 1570, negli anni della sua breve permanenza nella città di Paternò, ebbe il privilegio di eseguire la Madonna dell’Itria per il Convento di San Francesco dell’Ordine Dei Conventuali. Nella Chiesa Madre di Piraino, in provincia di Messina, si trova un dipinto, datato 1663 e intitolato Santa Maddalena, Santa Rosalia e San Francesco in estasi, di Rosalia Novelli, figlia del più noto Pietro, tra i più importanti e influenti artisti del Seicento in Sicilia. Di un periodo decisamente più recente rispetto all’Anguissola e la Novelli, successivo anche alla Corso, è l’affresco ubicato nella cripta etnea dei monaci dell’Eremo di Sant’Anna di Valverde raffigurante la Vergine dei Cipressi, eseguito da Ginevra Bacciarello nel 1913.
Il 2 dicembre 1899, Dorina Corso sposò a Catania l’ingegnere Fabio Massimo Majorana. Nel 1901 nacque la primogenita Rosina, cui seguirono Salvatore, Luciano, Ettore e Maria. La Corso, seppur con meno costanza, continuò a dipingere, trasmettendo l’amore per la pittura alle figlie e in particolar modo a Maria, ma con il passare del tempo la possibilità di dedicarsi personalmente alla pittura venne meno. La Corso era sempre meno attratta dai nuovi generi pittorici che si andavano affermando in quegli anni e, se qualche influenza liberty la elaborò nelle opere della maturità eseguite con le figlie, era invece completamente restìa all’ondata futurista che stava raggiungendo Catania. I primi anni del Novecento li dedicò all’educazione dei suoi cinque figli, seguendoli negli studi insieme al marito; successivamente, come tradizione delle famiglie Felsìna e Majorana, Salvatore, Luciano ed Ettore continuarono gli studi nella capitale presso il collegio Massimo dei Gesuiti, mentre Rosina e Maria studiarono dalle suore dell’Istituto Sacro Cuore di Trinità dei Monti. Intorno al 1921 si stabilì definitivamente con la famiglia a Roma, non trascurando mai le residenze di Catania e Passopisciaro. I maschi, nel frattempo, avevano intrapreso gli studi universitari: Salvatore diventò dottore in legge e Luciano in ingegnere civile, mentre Maria si diplomò presso il Conservatorio di S. Cecilia. Ettore invece, che aveva mostrato la sua spiccata intelligenza fin da bambino, diventò uno dei più alti luminari della fisica e nel marzo del 1938, con la sua scomparsa, entrò nella leggenda. Per la madre sarà un dolore mai sopito. Mai rassegnatasi, sopravviverà ad Ettore altri ventotto anni, e morirà a Roma il 25 gennaio 1966, all’età di novant’anni.
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