25 Mar Ragazze selvagge. Funzione narrativa ed evolutiva della selvatichezza. In dialogo con Serena Vinci
a cura di Gianna Cannì e Ivana Margarese
( immagine di copertina “Santa Caterina” di Giovanni Ricca)
Il titolo Ragazze selvagge è un richiamo esplicito al testo di Clarissa Pinkola Estès, Donne che corrono coi lupi, a cui l’autrice sente di dovere molto dal punto di vista metodologico, ma nel corso delle pagine del libro Vinci fa riferimento a molteplici autrici e autori, ma soprattutto a storie, dando forma a un torrente narrativo che non conosce etichette, ma si esprime solo in virtù della forza di evocare una figura ricorrente: la fanciulla selvaggia.
Di età variabile tra i quattro e i tredici anni, a suo agio più nella natura e nel mondo onirico che in quello reale, la fanciulla selvaggia è protagonista di storie distopiche o fantastiche e attinge dalla mitologia greca, dall’archetipo della Kore, che si declina nel mito di Persefone: “Kore vuol dire fanciulla, in greco antico. I personaggi femminili con un’età di transito tra l’infanzia e la maturità, rituale di passaggio emblematico, sono metafore perfette della continua ricontrattazione tra ciò che la società si aspetta dall’individuo e il ruolo che l’individuo intende avere nella propria storia personale”.
Ivana: Vorrei cominciare dal chiederti la genesi di questo testo. Cosa ti ha spinto a scrivere un testo sulle ragazze selvagge?
Ho imparato una cosa fondamentale in questi anni di ricerca accademica e cioè che, indipendentemente dall’ambito in cui si declina e dal grado di libertà di scelta che si è avuta, ognuno di noi si muove questionando il mondo su un fatto particolare che lo riguarda nel profondo. La prima motivazione è dunque inconscia e ha a che fare con un qualche rimosso. Il mio caso non fa eccezione. Io mi occupo di Migration studies e di Gender studies, e sono io stessa in continuo movimento geografico (la mia residenza ballerina lo testimonia) e rappresentante non rassegnata del genere “debole”.
Ma c’è anche una motivazione scientifica e cioè la scarsità di dati sull’argomento: la vulgata che si parli solo di femminismo in questo periodo storico oscura il fatto che si tratta di una goccia nell’oceano dell’indifferenza. Infine, c’è una motivazione contingente e cioè il dialogo fortunato con la collana in cui il saggio si inserisce e una sintonia di intenti con il gruppo di lavoro che mi ha supportata nella scrittura.
Gianna: Restando ancora sulle questioni più generali, tra le fanciulle selvagge c’è la Nina dei lupi di Alessandro Bertante. A conclusione del capitolo dedicato a Nina affermi di non aver riscontrato differenza tra la sua penna maschile e le altre penne femminili nel ritrarre le selvagge. Vuoi riprendere qui questa considerazione?
A mio parere, è importante basare le analisi dei testi sui testi stessi e non sul genere sessuale di chi scrive, per evitare di incorrere in gabbie interpretative che nuocciono alla causa stessa di farsi veicolo di riappropriazione degli spazi culturali per le donne. Solo in una seconda fase possiamo pensare a dare chiavi di lettura con un approccio sociologico o antropologico alla letteratura. Tuttavia, ciò che intendevo sottolineare rimarcando la somiglianza della personaggia di Bertante è un dato rilevante dal punto di vista scientifico e cioè che il cambiamento in atto nella percezione dell’archetipo della fanciulla è talmente concreto che investe ogni genere di autorialità, anche quella a firma maschile. Il che non è poco, perché non si tratta “solo” di un prezioso punto di vista femminile, ma è diventato una caratteristica della narrativa tout court.
Inoltre, nel saggio aggiungo poi che si percepisce un «maggior coinvolgimento dell’autore nel costruire la storia d’amore tra Nina e Alessio, ancora memore dell’impianto tradizionale». Quindi, se è vero che la Nina di Bertante è una vera nuova eroina, è anche possibile rintracciare un maggiore ottimismo nei confronti del topos amoroso da parte dell’autore rispetto a come viene affrontato dalle autrici degli altri romanzi presi in considerazione.
Ivana: Scrivi parlando del libro di Isabella Santacroce:“Gli unici pregiudizi che Lulù deve sconfiggere sono quelli verso di sé, proiezione introiettata di quelli esterni. Lo fa prima quando adotta, come animale domestico, un pipistrello verde, il quale càpita, proprio come accade con i figli ai genitori. Lei l’avrebbe voluto nero, ma la voce interiore Mimì l’aiuta a percorrere la strada dell’amore e Lulù si fa madre accettando l’animaletto, dandogli un nome: Pipistro. Lui a sua volta la ribattezza Lulì, in un lessico familiare che solo in condizioni di accoglienza e di reale capacità di “vedere l’altro” è possibile”.
A mio parere il tema dei pregiudizi verso se stesse che impediscono un autentico rapporto con l’altro è un tema centrale all’interno di ogni percorso di consapevolezza o come dici tu nel “rituale di passaggio che segna l’ingresso nella condizione adulta”. Vorrei una tua opinione in merito.
Per il mio lavoro, sto analizzando i titoli degli articoli di giornale che riportano notizie riguardo ai diritti delle donne. La dicitura più frequente è quella secondo cui questi diritti vengono “concessi”. Rarissimi i casi in cui si parla di “riappropriazione” dei diritti. Nella prima frase il soggetto è un qualcuno che fa regali alle donne. Nella seconda frase, sono le donne il soggetto dell’azione. Ecco, io trovo che la prima appartenga alla retorica assistenzialista e la seconda permetta invece alle donne di intraprendere la strada della consapevolezza della propria autoefficacia. Certo, se una bambina come Lulù fosse cresciuta in un contesto famigliare e sociale favorevole alla propria autorealizzazione, sarebbe stato tutto più facile per lei. Invece, spesso si vive immersi nella introiezione dei pregiudizi, al punto di diventare noi stessi coloro che li perpetuano. Insomma, il cambiamento può partire solo da noi: nessuna di noi ha bisogno di regali che arrivino dall’alto o dal basso.
Gianna: Un tema che ho trovato molto affascinante è il nesso problematico tra parole e selvatichezza. Da un lato c’è Cordelia di Vallorani che non ha quasi accesso al linguaggio e dall’altro c’è Sofia di Troisi che compie il suo apprendistato in biblioteca. Qual è il rapporto tra selvatichezza e parola?
A quanto pare gli esseri umani si differenziano dagli altri animali proprio per la parola. Tuttavia, quando questa parola si fa astratta e dissociata dalla realtà naturale, perde qualsiasi efficacia comunicativa e, paradossalmente, diventa d’intralcio. Dare un nome alle cose è un processo fondamentale per la comprensione del mondo ma il rischio è che non ci si soffermi abbastanza sul significato profondo che ha il concetto o la cosa a cui attribuiamo una parola, un suono che può essere più o meno esplicativo. A volte la parola è onomatopeica e in quel caso il senso profondo risuona in noi, ma non è sempre così. Spesso, nel processo di crescita, abbiamo bisogno di disimparare la lingua e reimpararla nuovamente, più pienamente e in autonomia. Questo è ciò che fa Cordelia. Un altro legame tra parola e selvatichezza è quello che coinvolge l’aspetto emotivo. La pedagogia dà sempre più rilievo all’empatia, all’intelligenza emotiva e all’alfabetizzazione emotiva. Uno dei metodi di apprendimento è basato proprio sulla stimolazione della creatività attraverso l’immedesimazione anche attraverso l’esperienza della lettura. È per questo che una bambina come Sofia (ma non solo lei: lo fanno anche le protagoniste del romanzo di Vorpsi) trova nella biblioteca un veicolo di riappropriazione selvatica – selvatica nel senso di originale e autonoma – del senso delle cose e, infine, di sé stessa.
Ivana: “Il paese dove non si muore mai” di Ornela Vorpsi, di cui parli nel tuo testo, è un libro potente capace di denunciare la violenza in varie forme. È molto interessante l’analisi che la scrittrice fa della bellezza femminile e che tu riprendi. Sull’aspetto fisico si sofferma anche Laura Pugno dove scrivi “In Pugno che la mostruosità indica una risorsa, una virtù angolare, qualcosa di positivo”.
Potresti parlarne?
La bellezza è un tema cruciale quando si parla di protagoniste femminili e lo è in particolare nella sua accezione degenerativa. Non sempre bella significa anche nobile di spirito, anzi. In alcune culture, soprattutto quelle in cui l’individuo non deve distinguersi dal resto del gruppo di appartenenza, né per intelletto né per aspetto fisico, la bellezza è associata principalmente al peccato, alla lascivia e al degrado morale. Dobbiamo ricordare l’etimologia latina della parola mostro: da monstrum, ciò che si mostra come prodigioso, cioè è qualcosa di sorprendente sia in senso positivo che negativo. Dunque, la bellezza che per certi versi è ambita e desiderata, racchiude in sé il suo contrario ed è destinata comunque a una forma di marginalità. Da un altro punto di vista però, la marginalità è il luogo in cui abbiamo più occasione di guardare le cose da una prospettiva insolita, angolare appunto, ed è da lì che possono partire tutte le possibili rivoluzioni.
Gianna: Nel capitolo dedicato a Nascita e morte della massaia di Masino, la selvatichezza è collegata al matricidio, che può anche assumere la forma dell’”uccidere la madre in se stesse”, nel rifiuto della maternità e nel santificare – da vergini – l’esperienza di vita. Sono passaggi molto complessi. Vuoi dirci qualcosa al riguardo?
Il matricidio – nel senso di rinuncia alla maternità – che compie la massaia è l’attuazione estrema di quel principio necessario alla creatività e alla realizzazione di sé che Virginia Woolf chiama «uccidere l’angelo del focolare». Ciò che Woolf intendeva era cambiare i connotati al ruolo della donna, per troppo tempo coincidente con quello di “madre”. In un contesto sociale in cui questo è davvero difficilissimo, non c’è spazio per i mezzi termini, per le negoziazioni e per i compromessi. Perciò, alcune donne, come la massaia o alcune figure di religiose come la stessa Caterina da Siena, scelgono percorsi estremi pur di affermare la propria libertà come individui. Di base, però, deve sempre esserci un momento in cui si vive allo stato selvaggio (leggi: di rifiuto) per consentire alle donne, ma in generale alle persone, di rompere gli schemi e, se necessario, attuare una sorta di violenza biologica su sé stesse, che solo apparentemente è in conflitto con la vicinanza alla natura.
Ivana: Mi interesserebbe sapere quali testi filosofici sono stati basilari per questo lavoro.
Prima di tutto intendiamoci sulla definizione di testi filosofici. Io mi riferisco ai testi come letteratura in generale. Per esempio, per me è un testo filosofico Bartleby lo scrivano di Herman Melville, perché con il suo «Preferisco di no», descrive perfettamente ciò che intendo io per selvatichezza e cioè il rifiuto di un’imposizione scollegata da ogni necessità naturale. Mi interessa molto analizzare i testi come se stessi andando a scandagliare la psiche. Infatti, per me è un testo filosofico L’interpretazione dei sogni di Freud, che dà una chiave di lettura veramente profonda delle dinamiche narrative. Del resto, la critica letteraria di orientamento psicoanalitico lo sa bene. Geniale è anche il breve testo Il perturbante di Freud, la guida migliore con cui avventurarsi nei meandri della narrativa fantastica di ogni tempo. Per quanto riguarda l’ermeneutica delle fiabe sicuramente devo molto a Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estés. Per quanto riguarda le questioni di genere, la mia mente è certamente impregnata dei testi di Adriana Cavarero, in particolare Donne che allattano cuccioli di lupo: icone dell’ipermaterno e Nonostante Platone: figure femminili nella filosofia antica. Però, alla base delle riflessioni sulla figura femminile, c’è certamente Il secondo sesso di Simone de Beauvoir e, provocatoriamente, il Manifeste de la Femme futuriste di Valentine de Saint Point.
Gianna: Nel prologo dichiari, giustamente, che non intendi fornire un elenco esaustivo delle selvagge della narrativa italiana, ma mi piacerebbe sapere se inizialmente avevi preso in considerazione altre personagge, che poi per qualche motivo hai scartato.
I nove romanzi che ho scelto hanno una forte radice tematica in comune e una temperatura narrativa a mio parere similare, il che consente di costruire un percorso dialogico e analitico efficace e produttivo. Altri testi, come per esempio Menzogna e sortilegio di Elsa Morante o L’arte della gioia di Goliarda Sapienza, hanno sicuramente protagoniste le cui caratteristiche potrebbero e dovrebbero essere oggetto d’attenzione di uno studio sull’evoluzione dell’archetipo della fanciulla, ma possiedono una focalizzazione diversa, un’afflato narrativo più esteso, uno spettro tematico più ampio, che richiedono altri tipi di considerazioni e contestualizzazioni. Ho anche selezionato i testi in base allo stile delle autrici e dell’autore. Mi avevano incuriosita i romanzi di Desy Icardi e di Lorenza Ghinelli, ma all’analisi cronotopica si sono rivelati troppo divergenti rispetto agli altri e inserirli non avrebbe reso loro giustizia.
Mi avrebbe fatto poi piacere raccontare anche le vicende di Lia de I Malavoglia di Verga, ma non sarebbe stato coerente né con la mia narrazione né con quella verghiana. Come vedi, scartare non significa escludere testi di poco valore, quanto piuttosto attribuire il giusto valore tanto ai testi scelti quanto a quelli scartati.
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