26 Mar Una connaturale attitudine all’apertura: Franco Basaglia
di Dario Pontuale
Pochi film nella storia del cinema hanno vinto tanto e soltanto tre, a Hollywood, possono vantarsi di aver collezionato le cinque statuette più prestigiose. In questa ristrettissima élite c’è Qualcuno volò sul nido del cuculo. Miglior film, miglior regista, miglior attore, miglior attrice, migliore sceneggiatura non originale. Centoventinove minuti di pellicola a colori tratta dal romanzo omonimo di Ken Kesey. Regia di Miloŝ Forman, anno 1975, tanti giovani attori: Louise Flatcher, Denny De Vito, Christopher Lloyd e un Jack Nicholson in stato di grazia. Nicholson interpreta il protagonista McMurphy, un criminale segregato all’interno di un ospedale psichiatrico per determinare se la sua malattia mentale sia reale o meno. È scontroso, indisciplinato, ribelle. Con quel berretto nero di lana calcato fino agli occhi fronteggia le inumane regole ospedaliere riuscendo, perfino, a far insorgere gli altri pazienti. Il film è un capolavoro, la maschera di Jack Nicholson altrettanto e da sotto quello sguardo vitreo, la fronte aggrottata e i capelli arruffati, mentre attende seduto su una panca di esser punito con un elettroshock, rivolge una domanda a Grande Capo, suo compagno di sventura. Una domanda apparentemente ovvia, ma che riassume l’intero film, denunciando la disumana logica di pensiero di cui sono vittime. McMurphy chiede: «Che ci facciamo qui Grande Capo? Che ci facciamo noi due, in questo posto di merda? Andiamocene via».
La proposta di fuga non è semplicemente un tentativo di evasione, bensì una richiesta di aiuto scagliata da chi subisce la brutale inefficacia di una terapia. Far comprendere il secolare errore, però, è complicato. Sradicare la retrograda concezione che marchia un uomo affetto da dei disturbi, come pazzo, folle, matto senza possibilità di guarigione è impresa difficile. Abbattere l’impostazione psicologica positivista che classifica una malattia tramite dati empirici non è semplice, soprattutto se a questa semplicistica classificazione segue una prognosi e, purtroppo, un trattamento. C’è qualcuno, tuttavia, che si lancia nell’arduo tentativo, invece di innalzare muri di isolamento, cancella i confini, non sbarra cancelli, porte o finestre, ma smonta serrature e chiavistelli. È il 1975 quando nelle sale cinematografiche fa la sua comparsa Qualcuno volò sul nido del cuculo, una data importante tanto quanto il 13 maggio del 1978, giorno della legge 180, comunemente nota come Legge Basaglia.
È Franco Basaglia, nato a Venezia nel 1924, a sfidare in Italia la sacra visione positivista. Preoccupato di riformare l’errata considerazione medica che riduce lo psichiatra a mero osservatore e catalogatore della specie umana, si batte per mostrare quanto la psichiatria debba, invece, concentrarsi sulla complessa interiorità del paziente. Bisogna ascoltare e capire le loro storie, schierarsi dalla medesima parte, instaurare con il degente un rapporto di partecipazione emozionale, di condivisione del vissuto. Soltanto in questa maniera si potrà, forse, farli riemergere dal profondo gorgo nel quale è incappata la loro psiche e reinserirli in un allargato contesto sociale. Nessun isolamento, nessuna segregazione, nessun lento abbandono verso derive bestiali. La sfida di Franco Basaglia, tuttavia, parte da lontano, dalla laurea in medicina e chirurgia presso l’Università di Padova, dalla specializzazione in malattie nervose e mentali. La curiosità da lettore onnivoro e la passione da studioso impenitente lo attirano verso autori come Maurice Merleau-Ponty, Edmund Husserl, Karl Jaspers, Martin Heidegger, tutti esponenti del pensiero fenomenologico. Non a caso sarà proprio la fenomenologia il solido perno concettuale sul quale ruoteranno le principali considerazioni basagliane, teoria che rifiuta «l’oggettivizzare» del paziente, rigetta la semplificazione del disturbo convinta che:
Ogni fenomeno mentale, ogni atto psicologico ha un contenuto, è diretto a qualche cosa (l’oggetto intenzionale). Ogni credere, desiderare etc. ha un oggetto: il creduto, il desiderato.
Lo psichiatra veneto, sempre più sicuro delle proprie ricerche, ottiene nel 1958 la libera docenza, ma la ferma volontà di cambiamento genera attriti con l’ambito accademico. Appena tre anni più tardi rinuncia al posto di ruolo e si vede dislocare all’ospedale psichiatrico di Gorizia. Il trasferimento sembra avere tutte le sembianze di un confino duro e punitivo. Credendo di trascinarlo alla resa, invece, gli viene offerta la condizione ideale per scardinare il sistema dall’entrata laterale. Proprio in Friuli, affiancato da Antonio Slavich, intraprende la prima esperienza anti-istituzionale nell’ambito della cura dei malati mentali. Il mutamento è a dir poco epocale, spariscono legacci, cavi e pillole, lucchetti e catene. Viene annullato ogni trattamento di imposizione fisica, abolita qualunque “cura” elettroconvulsivante, ridotta al minimo ogni terapia farmacologica e, addirittura, tenuti aperti i cancelli dei reparti. L’esperimento perplime una folta pletora di addetti ai lavori, ma tempo e tenacia presentano risultati indiscutibili. Giunge il momento di raccoglierne i frutti, di spiegare all’opinione pubblica un altro modo di procedere, perciò nel 1967 Basaglia pubblica Che cos’è la psichiatria?, l’anno successivo edita L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico. Il pubblico si interessa all’argomento, qualcosa sembra muoversi tra la gente. Il dottore veneziano trasloca a Colorno, vicino Parma, due anni dopo passa a dirigere il manicomio San Giovanni di Trieste, lì prepara l’ennesima rivoluzione. Ribadisce che le cure farmacologiche non bastano, servono rapporti umani e sociali, perché il malato abbisogna delle medesime necessità di qualunque altro essere: affetto, passioni, un luogo di appartenenza e denaro. Nella struttura giuliana si inaugurano, allora, laboratori di pittura, teatro e arti manuali per i pazienti che, ottenuta la possibilità di fondarsi in cooperativa, iniziano a svolgere un regolare e retribuito impiego. Questa, a tutti gli effetti, è la migliore interpretazione della parola «reinserimento» e lo stesso Basaglia con lealtà intellettuale su Salute mentale scrive: «Aprire l’Istituzione non è aprire una porta, ma la nostra testa di fronte a “questo” malato».
Tuttavia qualcosa non soddisfa ancora l’obbiettivo basagliano ed è quella fastidiosa denominazione che precede la parola «Trieste» sulla targa dell’ingresso, ossia il termine «manicomio». Quella struttura ormai è qualcosa di profondamente diverso, quindi perché ostinarsi a chiamarla così? «Manicomio» va cancellato, meglio ancora chiuso e sostituito da una rete di servizi esterni che provveda alle necessarie assistenze sanitarie. Il dibattito sociopolitico diventa serrato e raggiunge momenti di forte tensione, poi nel 1973 Trieste viene designata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come «zona pilota». L’esperimento di Basaglia non è più una questione soltanto italiana, l’esperienza assume un’eco mondiale. Bastano quattro anni affinché il manicomio triestino chiuda i battenti, affinché quella terminologia venga cassata e promulgata la legge sulla riforma psichiatrica, la legge 180, la Legge Basaglia appunto. La legge sulla «chiusura dei manicomi» non è soltanto una conquista, ma una riforma capace di cambiare il modo di pensare di un intero Paese, un segno tangibile che eleva il livello di civiltà di uno Stato.
La passione inquieta e senza fissa dimora trascina lo psichiatra oltreoceano per presenziare a dei seminari in Brasile. Scrive, parla, racconta, spiega, testimoniando personalmente le esperienze incontrate negli anni, esperienze poi raccolte nel volume Conferenze brasiliane del 1979:
Io ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece questa società riconosce la follia come parte della ragione, e la riduce alla ragione nel momento in cui esiste una scienza che si incarica di eliminarla. Il manicomio ha la sua ragione di essere, perché fa diventare razionale l’irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in un manicomio, smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato. Il problema è come sciogliere questo nodo, superare la follia istituzionale e riconoscere la follia là dove essa ha origine, come dire, nella vita.
Quattordici conferenze che rappresentano un documento di notevole integrità intellettuale, una sincera, quanto pubblica, riflessione sul significato complessivo professionale ed esistenziale, un bilancio critico che sprigiona tutta l’energia comunicativa di Basaglia. Tra San Paolo, Rio de Janeiro e Belo Horizonte affronta temi quali le tecniche psichiatriche come strumento di liberazione o di oppressione, il lavoro dell’equipe psichiatrica nella comunità, la scienza e la criminalizzazione del bisogno, la repressione e la malattia mentale. Non basta. Il suo sguardo oltrepassa i confini prettamente disciplinari, ha una veduta più organica, si parla di salute e lavoro, potere dello Stato e assistenza psichiatrica, violenza nell’ospedale psichiatrico, struttura sociale, salute e malattia mentale. Basaglia parla a tutti, studenti e professori, curiosi e luminari, accetta i seminari a cui viene invitato e con sagacia li smonta pezzo dopo pezzo. Sfrutta il tema di partenza per trascinare rapidamente il discorso in territori più ampi, di maggiore respiro e illuminati da una luce innovativa. La moglie e collega Franca Ongaro, intanto, registra e ordina il materiale prodotto che comporrà poi Conferenze brasiliane, probabilmente l’opera migliore per avvicinarsi e conoscere le idee basagliane. Un libro specialistico che mai adopera un linguaggio specialistico, capace di rifuggire ogni stereotipo concettuale e pronto nel proporre un atteggiamento per: «vedere se insieme si può cambiare il nostro ruolo di oppressori». Parole elementari, schiette, tremendamente rivoluzionarie. Un libro attuale come trent’anni fa, perfino più di allora. Pagine che oggi hanno visto concretizzarsi quelle che ieri potevano apparire farneticazioni, esperimenti senza futuro, principi senza aspettative.
Al rientro in Italia una poltrona importante si libera a Roma per Basaglia, sarà il coordinatore dei servizi psichiatrici della Regione Lazio. Purtroppo, però, il tempo messo a disposizione dal destino è davvero esiguo. Nella primavera del 1980 una massa tumorale al cervello si espande rapidamente e in estate quel male incurabile toglie ogni speranza.
Muoiono gli uomini, ma non le loro idee, per fortuna, e neppure i loro insegnamenti. Franco Basaglia resta, in ogni caso, un personaggio che si è battuto affinché ogni dimensione corporea restasse inalienabile, affinché qualunque natura avesse la possibilità di manifestare la propria specificità. Un’idea del prossimo che mai prescinde dal rispetto per la dignità, tollerante e servizievole verso il fragile stato mentale di un individuo. Nessuna coatta emarginazione né violento trattamento terapeutico può indurre un essere umano a uscire dalla personale caverna di dolore, semmai lo reprimono ancora più nell’angolo.
Nonostante trentennali critiche e tentativi di revisione, la legge 180 regola tutt’ora l’assistenza psichiatrica in Italia, ma la memoria di Basaglia non vive soltanto in essa o nelle successive generazioni. L’impegno vitale di questo psichiatra di frontiera continua anche grazie a Psichiatria Democratica, una società, fondata da lui stesso, nel 1973 per combattere l’emarginazione di pazienti e promuove un particolare approccio al disagio mentale. Nient’altro, quindi, se non le parole di Franco Basaglia, sanno rispondere a quel grido di aiuto lanciato da McMurphy:
Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c’è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione.
Poche righe, semplici, oneste, lucide. Concetti chiari con i quali dare scacco a un sistema alienante, anzi con i quali dargli scacco “matto”.
L’irrecuperabilità del malato è spesso implicita nella natura del luogo che lo ospita.
(Franco Basaglia)
(estratto da: Dario Pontuale, Ho visto il film, valigie rosse, 2023)
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