08 Apr Immergersi nell’alterità. I mondi d’acqua di Rachel Carson
di Rebecca Rovoletto
immagine in copertina: Anna Conad, street art
“Sono stata successivamente un piovanello, un granchio, uno sgombro, un’anguilla e altri cinque o sei animali” [1]. Così Rachel Carson descrive il suo obiettivo di “acquisire la percezione d’un mondo interamente acquatico” e di “evitare il più possibile la prospettiva umana” nell’affrontare la scrittura del suo Under The Sea–Wind. Uscito in questi giorni per Aboca col titolo Storie dalle profondità del mare, è l’ultimo pubblicato in Italia, ma il primo della sua trilogia del mare [2], quello a cui era più legata e da cui “seguì tutto il resto”.
Le parole di Carson danno la temperatura esatta di questo libro. Pur legandosi ai successivi due per l’osservazione attenta del mondo marino, il rigore scientifico e la prosa poetica, pur raccontando del possente protagonismo dell’oceano – soggettività realmente centrale – si distingue per l’intensità di alcuni aspetti.
Il primo è senz’altro lo stile narrativo. Storie dalle profondità del mare nasce a seguito di un incarico ricevuto nel 1935 dall’US Bureau of Fisheries, che le chiese l’introduzione a un report governativo sulla vita marina. L’articolo – The World of Waters [3] – le fu scartato perché mancava di quel freddo distacco che si richiede a un lavoro ufficiale, ma le permise di sperimentare – a dispetto dell’ingessato linguaggio scientifico – quella che sarà la sua nota distintiva nel raccontare la creaturalità del mondo. In Storie dalle profondità del mare, più che altrove, la prosa diventa particolarmente vibrante ed evocativa, quasi fiabesca, poiché si tratta di spingere una lingua fatta per gli oggetti oltre i confini didascalici, attraverso quella che Robin Wall Kimmerer chiama una “grammatica dell’animazione” che sappia restituire incanto e mistero, avventura e stupore.
C’è un laghetto, sotto a una collina, dove le radici sinuose di molti alberi – sorbi, hickory, querce e conifere – trattengono la pioggia in una spessa spugna di humus. […] quanto agli strani richiami – simili all’ansimare d’un mantice, che essi emettono mentre si muovono ondeggiando, standosene in mezzo alle tife, nascosti in un confondersi di luci e ombre – tra chi li ascolta qualcuno pensa si tratti della voce di uno spirito invisibile del lago (p. 167).
Ma non basta la maestria nell’uso del linguaggio. Per fare entrare il lettore nel mondo-degli-altri, Carson mobilita quelle capacità antropologiche che l’infanzia adopera spontaneamente: immedesimazione, vicarianza, “fare come se”, valicare i limiti della percezione umana. L’incipit di quel primo articolo-embrione chiarisce, infatti, la postura che fa di quest’opera un vero laboratorio per le successive:
Chi può dire di conoscere l’oceano? Né io né voi, con i nostri sensi terreni, conosciamo la schiuma e l’onda che si abbatte sul granchio nascosto sotto le alghe, nello specchio d’acqua creato dai flussi di marea, tra le rocce dove ha la sua dimora; o il ritmo del lungo, lento ingrossarsi dell’oceano, dove banchi di pesci erranti cercano prede e a loro volta diventano preda e dove il delfino infrange le onde per respirare in superficie. Né possiamo conoscere le vicissitudini della vita sul fondo dell’oceano, dove la luce del sole, che filtra attraverso una massa di acqua profonda un centinaio di metri, non è che un debole chiarore bluastro e dove si adagiano la spugna e il mollusco, la stella marina e il corallo, dove sciami di pesci minuscoli brillano nell’oscurità come una pioggia argentea di meteore, e le anguille stanno in attesa tra le rocce. Ancor meno è dato all’essere umano di scendere lungo quella imperscrutabile profondità di sei miglia fino ai recessi dell’abisso dove regna il silenzio assoluto, il freddo immutabile e la notte eterna. Per intuire questo mondo d’acque, familiare alle creature marine, dobbiamo abbandonare le nostre percezioni umane di lunghezza e larghezza, di tempo e spazio, e immedesimarci in un universo dove l’acqua permea tutto.
Si tratta dunque di andare oltre l’empatia mediante la facoltà immaginativa e la sospensione dell’incredulità, sostenute dall’osservazione: come conosce il mondo un granchio? Come lo percepisce, a quali luoghi ha accesso? Chi è e cosa racconta – del mondo e di me-nel-mondo – attraverso la sua peculiare morfo-conoscenza?
È questo il cuore delle sue dichiarate intenzioni e della narrazione che incontriamo. La sua attitudine all’immedesimazione, che in questo testo trova compiuta espressione, è uno degli strumenti principali per sviluppare una prossemica conoscitiva, di fare esperienza somatica e approssimare i confini tra alterità. Alterità pienamente rispettate nelle proprie diversità, che in alcun modo sono ricettacolo di attributi umani, men che meno moralistici, senza per questo assumere una visione meccanicistica o puramente istintuale del comportamento animale. Carson – a volte accusata di “antropomorfizzare” – ricorre ad analogie e soprattutto a quei tratti di un’etologia coevolutiva umano-nonumano senza i quali non vi sarebbero relazione e conoscibilità, senza i quali saremmo davvero alieni su questo comune pianeta.
A mostrare un qualche colore erano solo gli occhi neri, simili a bottoncini di scarpe […] Stava aspettando che un crostaceo talitride si tradisse con un movimento incauto. Il granchio fantasma lo sapeva bene: con la bassa marea i talitridi si nascondono tra le alghe (p. 36).
Suddividendo il testo in tre parti, l’autrice si immerge nella prospettiva dei corpi senzienti di tre animali, seguiti nei rispettivi territori esistenziali: una femmina di piovanello tridattilo che chiama Silverbar lungo le linee costiere, lo sgombro Scomber in pieno oceano aperto e l’anguilla Eel nel suo misterioso viaggio dagli abissi del Mar dei Sargassi agli estuari dei fiumi. Attraverso le loro vite e quelle polifoniche delle moltitudini che incrociano, attraverso le migrazioni, le nascite e le riproduzioni, le fughe dalle catture e la ricerca di cibo, attraverso la potenza delle masse vento-marine che segnano le sorti di ogni essere, Carson ci parla delle interdipendenze tra mondi, individui, specie, forze cosmo-planetarie.
In tutta la narrazione, l’umano è solo una figura occasionale di sfondo, che partecipa alle vite degli altri in qualità di predatore. Ciò non di meno è lui il destinatario del suo invito all’attenzione e all’apprendimento compartecipe. Una delle sue maggiori preoccupazioni è infatti quella di riuscire a stimolare e trasmettere la capacità di sentire la meraviglia e il mistero della natura come fondamento per un’etica ambientale [4].
La base della sua filosofia dell’apprendimento ecologico poggia sulla relazione intima tra un individuo specifico e un luogo specifico, con tutti i suoi intrecci di vivente, sperimentata in ogni suo aspetto. Sbaglieremmo a pensare che quella meraviglia abbia i connotati disneyani o rassicuranti che tendiamo a raccontarci e a raccontare ai bambini. Aderendo ai principi di realtà e di onestà intellettuale, Carson non indugia in omissioni circa i meccanismi e le tragicità della sopravvivenza: quella da lei suggerita è la meraviglia dell’esposizione al selvaggio, con tutto il suo portato di drammaticità, sublime e tremenda.
[…] quando vide il pescatore camminare sulla spiaggia si precipitò in acqua, preferendo quel rifugio alla fuga. Lì vicino in agguato, però, c’era una grossa ombrina ocellata che in un batter d’occhio catturò il granchio e se lo mangiò. Più tardi, quello stesso giorno, l’ombrina fu attaccata dagli squali e quello che ne rimase venne gettato sulla sabbia dalla marea. Lì i crostacei talitridi, spazzini della costa, sciamarono su di lei e la divorarono (p. 38).
Ma la bellezza sta in questo, nella fiducia empirica che nulla va dissipato, che l’equilibrio dinamico della vita è mantenuto in “una sorta di immortalità della materia”, dove corpi ed elementi incessantemente si trasformano, si dissolvono per rinascere in miriadi di forme diverse.
[1] Carson R., nella sua nota editoriale contenuta in Una favola per il futuro, Aboca, 2023, pp. 79-89.
[2] Under The Sea-Wind è del 1941, The Sea Around Us (Il mare intorno a noi, Piano B, 2019) è del 1951, The Edge of The Sea (La vita che brilla sulla riva del mare, Aboca, 2022).
[3] Pubblicato nel periodico “The Atlantic Monthly” nel 1937 col titolo Undersea e contenuto nella raccolta Una favola per il futuro, cit. pp. 24-32.
[4] Non a caso la sua ultima opera postuma The Sense of Wonder (pubblicato da Aboca col titolo Brevi lezioni di meraviglia, appena uscito anche nella versione illustrata da Elisa Talentino), rivolta all’animo infantile di adulti e bambini, la annovera tra le figure di primo piano in ambito (eco)pedagogico.
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