17 Mag Giorgia Mastropasqua: esordire maturi
di Giorgio Galli
Al mondo vuoto di Giorgia Mastropasqua (Controluna, 2024, prefazione di Ilaria Palomba) è più che un libro d’esordio: di solito i libri d’esordio presentano uno squilibrio fra intenzione ed esecuzione, sono opera di un autore che si sta appropriando della sua voce poetica ancora acerba: Mastropasqua invece rivela una consapevolezza linguistica, una nitidezza di pensiero e una capacità di tradurre atmosfere e stati d’animo in immagini sonore che non sono per nulla da esordiente. Pare venire al mondo già matura, dotata di una radicale eleganza, della semplicità commovente di chi si muove con naturalezza, con consapevole levità nei campi magnetici della poesia. Probabilmente è arrivata alla scrittura dopo aver trascorso tanto tempo in umile lettura, dopo aver fatto decantare contenuti e forme in un lungo lavorio interiore.
La prima cosa che colpisce dei suoi versi è la loro musica, una tersa nenia di suoni staccati al silenzio, tesa, a metà tra il ricordo di paesaggi e sentimenti terrestri e il volo oltreumano della metafisica. È un suono con cui facciamo conoscenza subito, dai primi componimenti: un suono che è uno stato d’animo e che sale salmodiando, si avvita a un’immagine fantasmatica -non importa se di sogno o di ricordo: queste poesie arrivano da una zona dove la cosa evocata appartiene tanto a un futuro verso cui si tende quanto a un passato non più recuperabile, dove l’umano e il non umano si saldano, come nella splendida sinestesia di questi versi:
Ricordo un giardino vigoroso
e abbondante
d’arbusti inferociti
e pietà di colori
viola, lilla, ambizioni di rosso
nella mia mente
o come in questo agglutinare corporeo e incorporeo per disperderli in un’unica dissolvenza:
del mio corpo notizie frammentarie
risalgono l’oceano
del buio e di silenzio
o nello slancio di quest’invito a seguire la voce poetica in un suo Eden triste:
Vieni a farmi visita in periferia
dove stiamo
dietro le finestre ad aspettare
dove ci annunciano i cani da guardia
noi, le ragazze giovani
cantiamo nel coro di almeno due chiese
una al paese, una al rione.
Mastropasqua percorre un paesaggio noto ma senza più segnali, dove si fanno labili anche i confini fra Io e Tu, tra chi invia e chi riceve il messaggio:
Perché ho paura
di perdere
la mia lingua peculiare
il tuo ricordo
*
lo affido al ritmo
della stagione breve
al tamburo automatico
della scatola armonica
Sembra che i versi nascano da un Dopostoria non rassegnato alla morte, in cui recuperare il passato è condizione per accedere al futuro:
che gioia restare
dove si canta
al lume rosato
della dimora vivente
e il cittadino mi è simile
mi è amico
Difficile non avvertire un equilibrio, una grazia nate dal desiderio tenace ed umile di ricomporre qualcosa che s’era rotto. Lo possiamo sentire in questi versi:
Comincerebbe qui
la tua ascesa
e invece hai scelto ancora
la nostalgia per le schegge
e i deliziosi frantumi
o in questi, bellissimi:
Io vorrei mi ricordassi
per almeno due toni di voce
timbro profondo e trillo d’uccello,
per l’incedere vario
l’avanzare diagonale
a misura di ripresa
e la tenacia delle scale
tutta verticale
La forza di chi fa poesia così è nella pazienza con cui accumula i materiali. Le immagini arrivano dalla vita della provincia italiana del Sud, fatta di immobilismo e indolenza, di attesa, cui si aggiunge una nota visionaria, come in queste due strofe, che appartengono a componimenti diversi e lontani:
e continuano a battere i vicoli del centro storico
tendini e gendarmi appresso al fantasma dell’ebrezza
le ombre lunghe degli africani
più alti
*
Cantano i vagabondi. Seduti in circolo
all’ombra del monumento dei caduti.
Cantano nel tepore di un autunno
che non si avvia al termine – ancora
Non minaccia con il gelo, l’oscurità
la tosse. Perché tu possa invidiarli
ancora per un poco – reticolo di rami, radici capovolte
In questi paesaggi carichi d’attesa, corrosi dal tempo e dal degrado, la voce poetica cammina in cerca di un senso, con una disposizione tra il metafisico e il miracolistico, nello stato d’animo di chi cerca un varco, una fessura aperta su un altrove -magari pronta a richiudersi, ma che almeno lo riveli per un attimo- mescolando memorie ataviche a un bisogno tutto contemporaneo e attuale, con un amarissimo mitologizzare che può ricordare Pavese:
Dimmi cosa pensi
della mia vita,
ci domandiamo molli
con le mani in tasca
mentre la risacca
ritira i doni abissali.
Resta la roccia lucida
le labbra salate
il rischio della caduta
è concreto
sulla via per le osterie
per un portico elegante.
In questo vagabondaggio per metà estetizzante e per metà metafisico, da film in bianco e nero di Antonioni, l’altro è qualcuno che sfugge, che si sottrae all’incontro:
Ti abbiamo amato per sottrazione
esiste una parte di te che non puoi vedere
disciolta nell’oblio di cui sono capace
Eppure c’è una chiave d’accesso anche a quest’altro che si ritrae: è una lenta ricomposizione di frammenti, un tender l’orecchio ai minimi segnali:
Ho cominciato a decifrarti
nell’iniziale istoriata
della mia prima lingua
canto cifrato dei passeri.
La fede poetica dell’autrice, il suo credo di donna che vive una certa realtà d’oggi, è scolpito nitidamente in questi quattro versi:
La verità, piuttosto, ha la consistenza
dell’architettura
è fortezza eretta da nessuno
di fronte al gelido inverno.
Giorgia Mastropasqua è una costruttrice: procede meticolosa in un lavoro ch’è frutto di una sapienza antica, seguendo una bilancia interiore che la salva dal deragliamento tutto moderno della “bussola che va impazzita all’avventura”: è un’ape, una voce esile e determinatissima che insegue e infine conquista una pienezza di vita e di sguardo:
Eppure, fra queste foglie e sul filo
della terra dalle diverse essenze
mi hanno detto che sei andata a piangere:
stanzette motori ebbrezze.
Sei andata a piangere anima mia
incontenibile primavera di città.
E temi la nebbia come nient’altro al mondo.
È talento eludere la notte, a piacimento.
(In copertina: Nicolas De Staël, Veduta d’Agrigento.)
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