“Olimpia”, penultimo atto: “La permanenza, la distanza dal limite”

di Giorgio Galli

Della sesta sezione del poema si apprezzano subito il tono il tono gnomico di molti versi (che ricorda i racconti degli araldi nelle tragedie) e uno scenario più movimentato e chiaroscurato. La dialettica fra gli elementi (le figure dell’Essere e quelle del Divenire) si fa più impervia, i contrasti più spigolosi. Se nel Sogno la violenza del dio irrompeva come tragedia ineluttabile, qui siamo nella dimensione del drammatico, nel frenetico attivismo di contrasti non ultimativi. È un apeiron dove tutto è possibile, o meglio è il luogo dell’infinita possibilità. È il momento in cui tutto accade e può accadere. È, anche, il momento in cui la parola poetica assume decisamente i contorni di parola nella polis. Infine, costituisce il ritorno (con tutto il cammino alle spalle) delle esperienze iniziali, generatrici del poema e della poesia: le esperienze del morire e del mutare.

Col primo frammento l’anima si distacca dalla materia e la osserva.

Non sacrificavo che la spalla

la mia statua reggeva il marmo

sulla testa

l’immobilità eretta

le mani d’ebano

il volto completava il nero

ardente della pietra

dei tre volti, uno solo

era nel suo pieno sorriso

Ad agire non è chi dice io, ma la sua proiezione eternizzata in una statua. Materia vivente ne resta sempre meno. I tre volti della statua simboleggiano le tre età delle vita, e insieme le tre Parche con la loro diversa sapienza. Solo uno dei volti è “nel suo pieno sorriso”: le Parche non hanno ancora completato la trasformazione della vita in forma, ma la perfezione inizia a delinearsi, e delineandosi a chiudersi in sé: “soltanto il liscio della pietra / completava la pietra”, è la chiusa del frammento. Solo l’unione delle tre età -e delle loro diverse sapienze- permette la piena armonia, il pieno sorriso. Solo la loro unione dà la piena conoscenza. E dove si realizza quest’unione? In un luogo fuori dal tempo. La perfezione ha questo di strano, che l’oggetto perfetto appartiene sia a un passato rimpianto che a un futuro verso cui si tende. Capiamo allora il perché della visuale tanatocentrica dell’autrice: guardare dentro la morte è guardare dentro il non-tempo della perfezione, della forma che si è formata.

Col frammento successivo, lei-Olimpia appartiene sempre più alla morte, ma dialoga colla vita attraverso i segni che essa ha lasciato impressi. Nel paesaggio deumanizzato della morte, l’agire umano si manifesta attraverso i suoi segni duraturi, la traccia incistata nella pietra. Ma la traccia non appartiene più solo alla biblioteca fossile espressa dalla storia degli stili, e si carica di risonanze più liriche, di più struggenti tracce del dolore umano:

fuori prende la nostra infanzia

la porta lontano, la cattura

la mano del figlio,

nella mobile pena concilia

incompreso e incomprensibile

Questa non è la nostra condizione ideale, quella cui tendiamo col Rito. Questa è la nostra realtà. La “mobile pena” concilia ciò che non abbiamo compreso con ciò che mai comprenderemo. Non possediamo la conoscenza. Il tempo è una traiettoria tra due ignoranze. Al “figlio” spetta il compito di tenere uniti il già stato coll’ancora da venire. Egli è il Werden. Ma un Werden bidirezionale: passato e futuro, incompreso e incomprensibile sono compresenti. È venuto il momento di confrontarsi davvero con la Caduta, fuori del mito. In questo luogo fuori del tempo, tutto il tempo fa la sua comparsa, non solo sotto forma di storia degli stili, ma sotto quella più cocente del dolore storico e delle tragedie della storia. Si alza un canto dalle tragedie della storia -da tutte le tragedie di tutta la storia. Lo scenario di questi versi può appartenere a tutte le epoche -e appartiene, purtroppo, anche alla nostra:

un soffio di sciagura

preme sopra, si alza

del tutto andato a male

inondati là su quelle isole

dal torbido rumore sotterraneo

spingono il canto accerchiati

È forse in virtù di questo confronto con la Storia che nel terzo frammento la parola poetica si declina più decisamente come parola nella polis, come la parola religiosa e laica della tragedia, che “spinge in basso le creature dell’attimo” nel superamento catartico.

Nella sua sostanza di silenzi

eseguiti, lei era immobile e armata

sotterranea presenza di tutte le cose

centro

congiunzione tra spazio e tempo,

colossale dentro la superficie,

simile a una guglia rocciosa,

incarnata

I “silenzi eseguiti” sono una straordinaria immagine della parola interiore, della parola poetica che irradia le sue vibrazioni anche quando il suono è cessato. La poesia-Olimpia-la madre è presenza irradiante, non viva forse, ma centro di vita. Una presenza (parola-presenza) potente, “armata” perché vittoriosa sul momento storico. Ma le tragedie della storia rientrano col quarto frammento. La città è madre, poesia, ma anche morte: e, proprio come la morte, tutto accoglie.

In una notte insolita lo spazio

mobilizzato presso l’ingresso

la città nella polvere non lascia

chi si perde

non abbandona neanche i ladri

esclusi dall’infanzia

Olimpia si trasforma nell’intero teatro del mondo ed anche nella città infernale di Dite. S’intravedono le migrazioni, le carestie, le guerre. È la morte che accoglie tutto questo. Ed è una morte rimandata, allontanata, ma verso cui ci dirigiamo senza scampo. Una morte anche cercata, voluta. Qui è la parola stessa a farsi polis. La parola poetica squarcia uno scenario di morte, una civiltà della morte. Tra le incarnazioni del morire incontrate finora, questa è la più cupa:

popoli in pieno movimento

la sorpresero nel suo quadrato

gli uni verso gli altri

un coro di popoli

la toccò, occhi enormi ebbe

il canto

attorno al tepore si fermarono

lì dove si alzò piccolo il vento

ciò che videro fu il loro abbandono

e ancora

-che ci veda, che venga a noi

vicino, sia dato a noi-

lo chiamano e lui spinge più in là

il confine…

Rispetto alla civiltà della morte, la civiltà estetica non si contrappone: piuttosto si responsabilizza, assume su di sé il compito di dar voce ai relitti della storia. Nell’ethos umanistico di questa poesia, la Bellezza è anche giusta. Creare è una responsabilità e un peso. La parola poetica ha un peso sulla bilancia della giustizia. E la città di Olimpia assume su di sé il compito immane di tutti salvare, tutti accogliere.

Il frammento successivo è diverso. È sensuale e luminoso. Sono proprio le prime parole ad annunciare la schiarita:

dopo la notte il soffio penetrò

vide nel suo volto le cose

violate, traendole a sé,

*

un cristallo di respiro addosso le gettò

il primo sole, la brezza dell’alba,

un’onda di luce attraversò il corpo vivo

la carezza, al vuoto e nudo corpo

Siamo al capo opposto dell’origine, nel punto dove dall’indistinto potrebbe nascere la vita. Il mare in cui siamo immersi è liquido amniotico, è un mare diverso da quello solcato dalle tragedie. Amore, nascita: qui lo scomparire non è più un procedere verso il nulla, è l’identificarsi col Tutto. Morte e nascita hanno un nucleo comune. È il gesto a decidere se si tratta di vita o di morte. Ma, che sia vita o morte, è sempre dolore. Solo “un cristallo di respiro” può sottrarci al dolore, liberarci dal dolore del vivere e del morire cristallizzandolo, eternizzandolo. Un cristallo di respiro: espressione presa a prestito a Paul Celan, il poeta che visse sulla propria pelle “l’Accaduto”, la tragedia storica per eccellenza, la Shoah. La città della vita non ha dimenticato quella della morte. Non può esserci oblio in un luogo ove tutto è compresente. Il cristallo di respiro è la rinascita che si compie attraverso la forma:

… tutto può nascere dopo un’infinita

attesa, la nuova bellezza placa

il vortice verso i fondali, al culmine

la vita che si tocca, il filo del ritorno

nei più piccoli moti del suo segno

La rinascita si realizza attraverso il “segno”, ultima, decisiva parola della poesia. Il “segno” è complementare al “gesto”: entrambi danno la vita e la morte. Siamo al cuore dell’ispirazione poetica di Sorrentino. I titoli delle sue sillogi (C’è un padre, La nascita, solo la nascita) suggeriscono la centralità del problema dell’origine. Olimpia affronta anzi la connessione arcaica tra origine e fine, e individua la poesia come unico strumento per conoscerla. Ma quanta gioiosa sensualità in questa rinascita, quanto lontani siamo dagli astratti discorsi poetologici e vicini alla magia pura e vitale della poesia:

poi si accostò ai capelli in uno slancio

eterno, le braccia erano slegate,

il suo strascico disperse sulle spalle…

Eppure dopo questo lungo momento luminoso si scende sempre più a fondo nel morire, ci s’incunea in esso:

è il morire che vedo

il venir meno, questo

incepparsi improvviso del respiro

mentre si accascia il nostro fare

e poi

la dimensione del corpo

si disintegra in frammenti

di memoria

La memoria eterna gesti e attimi. È a partire da essa che si può creare e plasmare. Il corpo morto va nel suo stampo. La morte ha bloccato il divenire. È allora che l’aedo può cantare. Ma la vita non vuole abbandonare se stessa, e lotta:

con gioia pensiamo al giorno

quando nella luce potremo

uscire per abbandonare

ciò che la nostra primavera

vincola

*

ecco di cosa moriamo

*

l’animale umano costretto

si ritrae

nella rupe di marmo

della sepoltura, veniamo meno,

stanchi come colonne

spezzate dalla furia

del potente, caro ci fu ingoiare

il rimasuglio della nostra vita

Tutti gli elementi di Olimpia vengono assoggettati a questa furia della vita che vuole vivere. Nel regno della tragedia s’è introdotto il dramma: si è introdotto l’attivismo dei contrasti, mentre il destino rimane comunque deciso -un destino di morte.

La permanenza è la sezione più lunga e movimentata del poema. Ma v’è al suo interno una “zona” che sembra rimasta immune ai conflitti della Storia, che sembra stare in mezzo a tanta furia come una fortezza irrefragabile. Le lotte, le urla dei prigionieri e dei naufraghi, l’incarnarsi della morte vi appaiono distanziati, è presente un germe di trasfigurazione -immagini e toni sembrano appartenere all’inizio del poema:

l’esistenza terrena

raccoglie la presenza della natura

ad essa si fonde

discende per afferrarla

Questi versi fan parte del terzultimo frammento. È difficile non cogliervi l’eco di Hölderlin. Subito dopo leggiamo

lo spazio bianco

spaccato dalla costola

dallo sterno si stacca

come un’apparizione tagliata

L'”apparizione tagliata” è figura della ri-creazione operata dalla morte (la nuova vita del Segno), ma è anche un’immagine rilkiana, il calco svuotato del suo contenuto umano e diventato forma pura. In un altro frammento, troviamo che “la mappa di un mondo risale alla luce”. Non è il mondo a riemergere, ma le sue coordinate, i fondamenti della sua visione della realtà. È in altre parole il tramandarsi della conoscenza, ennesima figura della vita umana che si trasforma in esistenza oggettiva. In controluce continuiamo a scorgere le tragedie della storia; ma su di esse si accanisce il silenzio di Dio. Nulla trova risposta. Siamo nel punto più disperato del poema. L’unica risposta è quella suggerita nel frammento intitolato Gli insorti (uno dei pochi frammenti titolati del poema): lo sciogliersi nel canto, l’abbandonarsi alla notte e al nulla:

chiede l’umano il movimento

la notte adolescente canta

il cuore orfano del nulla

Il mondo è “ormai privo d’acqua / abitato solo dal vento”. La morte ne è l’unica presenza. È la caduta di ogni senso di appartenenza all’umanità. Le zone del poema che credevamo estranee alle falcate della Storia non erano in realtà “zone insensibili”: erano tentativi di resistenza, sforzi di tenere in piedi il repertorio della storia degli stili come repertorio della nostra appartenenza all’umanità.

Diversamente dagli altri finali in prosa, che segnalavano una stazione del percorso e costituivano un momento di distensione anche ritmica, la prosa intitolata La deformazione non arresta la corsa drammatica del discorso, e semmai ne esaspera i contenuti. “Sempre di più, il morire”, inizia. E questo addentrarsi nel morire prende connotati espressionistici: “spaesamento”, “smantellamento”, “spostamento”, “inversione”, “grumo di forze distese” sono le parole che segnalano uno spastico acuirsi dei contrasti. Contrasti che non hanno la violenza dello scontro ctonio della fontana col dio, ma una violenza più lenta, che provoca una sofferenza più stridente: quella della deformazione, appunto.

(Le immagini di questo articolo e degli altri che seguiranno sono costituite da dipinti del pittore svizzero Arnold Böcklin)

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