L’impegno duplice dell’impegno

di Dario Pontuale

(Questo testo è stato pubblicato come introduzione a Virgilia d’Andrea, Tormento, Ensemble, 2019)

L’Abruzzo è una regione duplice per natura, al contempo patria di montagna e di mare. Seppur ne sia stata talvolta tradita, resta una terra che rispetta tanto gli dei degli Appennini, quanto quelli dell’Adriatico. Sommersa e scossa rimane duplice e forte, popolata da figli tosti come muli, fieri come purosangue, cresciuti sopra un suolo capace di partorire papi che emigrano da San Pietro, Vati che capeggiano reggimenti, sceneggiatori che riscrivono il cinema. L’Abruzzo ha le cime aguzze della A o della Z e le curve ondulanti della O, oppure della B; le forme dei monti e delle onde nella stessa parola. Di conseguenza l’Abruzzo regala anche vicende duplici, di quelle perdute nel tempo, nascoste tra i grandi capitoli della storia. Così capita di ascoltare la vicenda di una dodicenne che, nel lontano luglio del 1900, tra i banchi di un rigido collegio di suore appare assai scettica nel pregare per la memoria del “povero” re Umberto I. Il regicidio, come noto alle cronache, è stato commesso a Monza per mano di Gaetano Bresci e sebbene la giovane scolara non sappia precisamente chi sia quell’uomo venuto dall’America, nutre per lui un’istintiva simpatia. Virgilia d’Andrea, questo il nome della diffidente adolescente, è nata nella città cara a Ovidio, a Sulmona, un mucchietto di case piantate in mezzo alla Valle Peligna, tra il torrente Vella e il fiume Gizio, con la Majella e il Morrone a fare da monolitici guardiani. Virgilia è orfana, la madre è morta, il padre l’hanno accoltellato per una vicenda di gelosia e due fratelli sono deceduti ancora fanciulli. Di certo la sua non può dirsi un’infanzia né fortunata, né spensierata. Ad appena sei anni, davanti al cancello dell’orfanotrofio, le rammentano: «Ricordatevi che siete sola, che non avete più nessuno: perciò non potete permettervi i capricci delle altre bambine. Pensate a farvi da sola una vita». (1) La bambina è intelligente, obbedisce, entra in collegio, studia molto, legge pure qualcosa di sconsigliato specialmente in quell’ambiente conservatore e autoritario. Scopre una poesia intitolata Regicidio, l’autrice si chiama Ada Negri, poetessa e insegnante lodigiana prima donna a essere stata ammessa all’Accademia d’Italia. Virgilia legge i versi, capisce che la realtà è ben altra, che il mondo poggia su equilibri malati, perciò conclude gli studi, proprio così come suggeritole, si “fa la sua vita”.

Nel 1910 si iscrive all’Università di Napoli, comincia a insegnare in scuole elementari di paesini attorno a Sulmona, fa lezione alla gente consumata dallo sforzo dell’esistere, ai diseredati, agli ultimi. Quell’innato senso di giustizia sociale straborda in lei, la libertà dell’essere umano dev’essere un diritto, non una concessione. Viene il 1915, l’anno sanguinoso della scesa in guerra dell’Italia, ma prima ancora delle bombe gli dei delle montagne tradiscono l’Abruzzo. Il terremoto ingoia la piana del Fucino, la Marsica conta migliaia di vittime eppure le macerie e la miseria interessano ben poco ai Savoia che se ne restano comodi al Quirinale. La d’Andrea ne soffre, aumenta il grado di ribellione e appena due anni più tardi capeggia le donne socialiste abruzzesi. Proclamala pace, lotta affinché l’Italia esca dal conflitto, intanto la Prefettura dell’Aquila la iscrive nelle liste dei cospiratori. Virgilia conosce un suo compaesano, un certo Mario Trozzi, un avvocato che, per le proprie idee anarchiche,  presto viene confinato all’Impruneta. In Toscana è segregato anche il bolognese Armando Borghi, anarchico ed elemento di spicco dell’Unione sindacale Italiana (USI). La d’Andrea e Borghi condividono gli stessi ardori, la stessa fame di giustizia e si frequentano seppur lui sia già sposato, ciononostante nasce: «un amore ‘libero’, dicono taluni, come se potesse esistere l’amore schiavo». (2)

Non si separano nemmeno quando, nel 1918, il confino viene spostato a Isernia, neppure quando vivono in una stanzetta senza acqua e servizi igienici, neanche quando la spagnola ne mina profondamente i corpi. Ne mina i corpi forse, certamente non gli animi, giacché nello stesso anno viene pubblicato “Guerra di Classe”, foglio del quale la d’Andrea è direttrice e responsabile. Nel frattempo finisce la guerra e pure il confino, la coppia di anarchici si stabilisce a Milano, in via Mauri 8, nella sede dell’USI. Assieme a loro vive anche Errico Malatesta che proprio in quel periodo pubblica il primo numero di “Umanità Nova”. L’ammirazione tra il massimo esponente libertario italiano e la «maestrina del popolo che entrava in classe con i capelli a coda di cavallo» (3) diventa attiva e decisa. Non appena scatta l’autunno delle occupazioni delle fabbriche, la d’Andrea si prodiga in comizi e manifestazioni per esortare gli operai alla lotta, alla resistenza. Nell’ottobre del 1920, tuttavia, imperversano le repressioni, vengono arrestati molti degli esponenti dell’USI e, ovviamente, Borghi e Malatesta sono tra i primi a varcare le celle di San Vittore. Pochi giorni dopo anche la d’Andrea viene catturata perché accusata di «cospirazione contro i poteri dello Stato e incitamento all’insurrezione». Scarcerata a fine novembre con libertà provvisoria, firma la sua prima raccolta di poesie. Anche Borghi esce di prigione, ma la marcia su Roma e il vento nero del Fascismo rendono l’attivismo anarchico pericoloso, tanto che Armando e Virgilia vengono scacciati dagli alberghi, nessuno intende dargli nemmeno una camera in affitto. Fuggire dall’Italia sembra l’unica alternativa. Nel dicembre del 1922 sono a Berlino, ma appena superato il confine scatta per loro un nuovo mandato di cattura, restare in Germania diventa quindi obbligatorio. Anche all’estero la vita risulta faticosa, Virgilia accusa malanni crescenti, la denutrizione peggiora una salute già estremamente cagionevole.

Partono per Amsterdam, infine scelgono una stanza nel Quartiere Latino, accanto al Pantheon, vicino ad altri intellettuali fuggiaschi: Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Claudio Treves. Nonostante l’insonnia e la costante debolezza accusate da Virgilia, l’aria parigina induce di nuovo alla battaglia per l’Ideale, così viene fondata la rivista “Veglia” e data alle stampe L’ora di Maramaldo, un’invettiva contro i comportamenti prepotenti, sopraffattori e goffi di Benito Mussolini. Sfortunatamente nel 1926 Borghi è costretto, per la propria incolumità, a espatriare clandestinamente in America e soltanto due anni dopo la d’Andrea può raggiungerlo grazie a un permesso temporaneo concesso dal consolato statunitense. Negli Stati Uniti, da costa a costa, la “propaganda sovversiva” dell’anarchica abruzzese prosegue senza requie, suo malgrado però le forze iniziano a mancarle, la malattia avanza impietosa A Boston, inoltre, la raggiunge la dolente notizia della morte dell’amico Malatesta e pochi giorni dopo l’annuncio viene ricoverata di urgenza per una grave emorragia. Operata da Ilya Galleani, figlia dell’anarchico Luigi, sembra ristabilirsi e ritrovare le energie necessarie. Riprende l’attività di propaganda e di scrittura, firma Torce nella notte, raccolta di scritti e riflessioni, ma il male e gli atroci dolori riprendono. Occorre un secondo disperato intervento che però non lascia speranze, così il 12 maggio del 1933 il corpo della d’Andrea, la coraggiosa maestrina di Sulmona, la valorosa anarchica abruzzese, viene calato nel cimitero comunale di Green-Wood, a  New York, nella zona di Brooklyn. Quello che resta, quasi cento anni dopo, è un misto commovente ed esemplare di impegno letterario e civile, di sforzo lirico e politico. La d’Andrea non lascia solamente un testamento filosofico, poetico, giornalistico, ma essenzialmente spirituale, la sua esistenza tramanda un pensiero tramutatosi in parola scritta, in versi o in prosa, pronunciata in fabbriche e piazze. Una parola che si trasforma in azione mai animata dall’odio, piuttosto spinta dalla ferma volontà di liberare l’essere umano, qualunque essere umano, dall’abuso, dalla protervia, dal giogo, insomma dal Potere. La parola come mezzo per raggiunge i cuori e le menti, una lirica che predilige una forma soave nonostante lo scopo, una lingua che salda assieme i verbi dell’agire e del pensare, senza disperder lo scopo primario, senza mai abbandonare la delicatezza d’animo che la contraddistingue. Quando nel 1922 esce Tormento, l’autrice viene denunciata perché le poesie «trasmodano di felina bile contro l’Italia nei suoi poteri e nel suo assetto sociale, sono versi scritti pensatamente con studio per istigare a delinquere, eccitare all’odio e vilipendere l’esercito». Un capo d’accusa sproporzionato, ma non infondato. Le poesie della d’Andrea non istigano a delinquere, non eccitano alla violenza o al vilipendio, semmai spingono all’azione, al coraggio di muoversi, alla tenacia di non piegarsi. Non trasudano felina bile contro l’Italia, piuttosto spronano il popolo italiano a destarsi dall’incubo vissuto, a evitare la deriva verso la quale sta naufragando, il totem littorio attorno al quale va radunandosi. Versi che scuotono dal sonno spiegando con parole semplici e metafore immediate il senso del vero che lentamente sfugge. La purezza del pensiero anarchico, il sentimento autentico che questo filosofico insegnamento dona, riempiono liriche vergate con un duplice intento: portare la speranza e portare conoscenza. Un intento duplice e pugnace come l’Abruzzo.

Note

1 D’Andrea V., Torce nella notte, New York, 1933

2 Borghi A., Mezzo secolo d’anarchia, Napoli, Edizioni scientifiche, 1954

3 Ibidem

Bibliografia

dd.oo., Dizionario biografico degli anarchici italiani, Pisa, ehm, 2003

Borghi A., Mezzo secolo d’anarchia, Napoli, Edizioni scientifiche, 1954

D’Attilio R., Virgilia d’Andrea: maestra, poetessa, Archivio Pinelli, Milano, 1994

D’Este C. M., Virgilia d’Andrea: scrittrice, poetessa, sindacalista anarchica, Centro regionale Beni Culturali, 2014

Galzerano G., introduzione a Tormento di Virgilia d’Andrea, Galzerano Edizioni, 1976

Piccioli F., Virgilia d’Andrea, storia di un’anarchica, Chieti, csi, 2002

No Comments

Post A Comment