“La materia non esiste”

La materia non esiste (La vita felice, 2024), esordio di Marco Colletti, è una silloge divisa in tre sezioni: Mens, Cor e Sensus. Non il reale è oggetto di questa poesia -il reale anzi resta inconoscibile- ma la sua registrazione attraverso la mente, il cuore, i sensi. Le tracce del reale, dunque: il suo linguaggio.

La materia non esiste, recita il titolo, eppure viene rappresentata con vividezza, attraverso una ricerca che potremmo definire del correlativo oggettivo se non sapessimo che in questa poesia l’oggettivo non esiste. Prendiamo in esame alcuni versi, a pagina 35:

Mi hanno sempre fatto paura

le rose, profumo e dolore, quella

bellezza crudele che nasconde

aghi che trafiggono l’anima

versi seguiti da una specie di delirio sinestesico che delirio però non è, poiché la qualità limpida delle immagini ci tiene ancorati alla realtà di un lavoro di cesello, di un un deragliamento controllato lucidamente. Oppure osserviamo questi versi, a pagina 46:

C’è sabbia nella mia mente,

la polvere finissima ma graffiante

sugli occhi della vita, le conchiglie

aguzze e quelle smussate,

che lasciano intravedere opaco

il mare

Sembra che la poesia, nella sua concretezza, s’incarichi di essere l’unica materia, l’unica realtà disponibile. Fortissima, in tutte le sezioni, è la presenza della morte: la morte della madre, rievocata in liriche misurate e allusive nella loro tersa struggenza; ma anche la consunzione dovuta al tempo che passa, la “morte che si sconta vivendo”. Incombe, sull’universo espressivo di Colletti, un buio che sembra togliere consistenza alla realtà nominata, generando un sentimento di derealizzazione che forse è il sentimento principe della nostra epoca, il più rappresentativo di un momento storico in cui reale e virtuale si mescolano, l’intelligenza umana e quella artificiale si confondono e perfino i rapporti sociali assumono il carattere di rapporti non con persone ma con entità, con oggetti tra loro intercambiabili. La società liquida è la società della derealizzazione e la poesia assume su di sé il compito di ripristinare l’unica forma di realtà possibile, quella che può essere nominata. Ma nominare un reale come il nostro significa ribadire la dichiarazione, già così assertiva, del titolo, lasciando così irrisolto il conflitto tra esistente e non esistente, materia nominata e materia inconoscibile.

Le sezioni presentano accenti diversissimi -soprattutto la prima si distacca dalle altre due per un tono più sapienziale- ma sono accomunate dal contrasto tra il disincanto dei contenuti e l’incandescenza del verbo che li esprime: un contrasto che dà luogo a una musica ancipite che ricorda certe pagine di Cioran -ma non del Cioran francese, bensì di quello rumeno, giovanile, quello di Al culmine della disperazione, che dedica pagine stupende al sentimento della melanconia usando parole incendiarie: ciò è evidente soprattutto nella terza sezione, Sensus, dove la vita dei sensi appare associata a una forma di stanchezza e di torpore. Eppure, a questo prismatico universo di sentimenti e significati non manca mai l’eleganza: raramente i versi vengono meno alla loro misura musicale, ottenuta mescolando sonorità montaliane a un certo languore decadente. Paiono poesie scritte come scriveva Kavafis, accumulando verso su verso per mesi, anche anni, su fogli in cui la parola si deposita lentamente, al modo dei coralli. Una tonalità interiore ben espressa da questo breve frammento, a pagina 112, con la sua allitterazione finale che ha il suono buio di una campana a morto:

Vagano nel disoriente

le campane accese come fiamme,

il giallo oro che non trafiggerà

che sguardi assenti e corpi stanchi

di trascinarsi lenti. Quel tornado

che appare, ma non visto,

che non lacerati lascia uomini

e case, mentre tutto intatto muore

(foto di copertina di Dino Ignani)

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