Afrodite viaggia leggera. In dialogo con Francesca Sensini

 

a cura di Ivana Margarese

 

Afrodite viaggia leggera è un testo ricco di rimandi letterari e iconografici, che con leggerezza scardina anche alcuni luoghi comuni su Afrodite. La sua lettura offre un viaggio alla scoperta della dea, ritratta non come figura femminile indolente ma come dea combattiva e guerreggiante. Scrivi: “Anche io sono combattiva. Atena va in giro vestita da oplita per esibire la sua pericolosità. A differenza sua io non ho bisogno di armature e uniformi da uomo. La bellezza e l’amore che rappresento – chiamatelo eros, se amore parola troppo usurata – includono la forza, la tensione, la mischia.[…] La parte di me guerreggiante eimperiosa è stata amputata, perché è incompatibile con l’idea di bellezza e di femminilità dominante”. Dell’intreccio tra amore e lotta sembrerebbe essere rimasto solo il riferimento al più celebre amante di Afrodite, Ares. Eppure Afrodite è una dea esigente, come tutti gli dei, capace di sfidare chi mette in dubbio il suo potere (come ad esempio il giovane Ippolito),Comincerei con il chiederti in merito al coraggio di Afrodite e a questa “amputazione” che ha finito col legare la sua immagine a una bellezza quasi passiva.

Quando pensiamo ad Afrodite/Venere, forse il nostro primo pensiero corre alla statua della Venere di Milo esposta al Louvre di Parigi: una donna seminuda senza braccia, vigorosa e insieme inerme, riproposta indefinitamente in merchandising di vario tipo e valore, dal kitsch al design, o reinterpretata nella storia dell’arte (mi vengono in mente, nel Novecento, la Venere di Milo coi cassetti di Salvador Dalì, la Vénus de Milo di Niki de Saint Phalle, la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto), citata in opere cinematografiche (The Blonde Venus di Josef von Sternberg con Marlene Dietrich,  Dreamers di Bertolucci, Twin Peaks di David Lynch). Ma non che pochi esempi, per me particolarmente.
Della storia di questa scultura iconica, francamente pop, del suo ritrovamento, Afrodite stessa, nel mio libro,  racconta le peripezie e non manca di soffermarsi sulle sue braccia mancanti, di cui racconta un possibile destino, un gesto possibile, romanzescamente verosimile.
Nonostante questa amputazione, la Venere di Milo è diventata icona di bellezza femminile (insieme alla Venere di Botticelli, intera ma non tridimensionale, e comunque già di pertinenza di un altro mondo rispetto a quello antico). In fondo, sembra bastarci quello che vediamo: un viso misterioso, assolto, un seno grazioso, il rigoglio di un corpo di donna insieme giovane e matura, la linea dei fianchi e la promessa di un disvelamento, rappreso nei drappeggi che sono sempre lì per cadere mostrarci un nudo integrale che, però, resta sempre di là dal mostrarsi. Man Ray nella sua Vénus restaurée fece di questa disabilità un tratto significativo, prevalente sull’aspetto erotico. A me pare molto interessante per riflettere su questa icona del famoso – e famigerato – “eterno femminino” di goethiana memoria.
Ricordo di aver visto un manifesto di Non una di meno che impiegava la Venere di Milo come immagine di impotenza delle donne di fronte alla violenza. A questa fragilità, incarnata dalla donna per antonomasia – una donna bella ma senza braccia –  si contrapponeva una lista di azioni praticabili in virtù delle braccia ideali di una comunità femminile consapevole e della sorellanza.

Afrodite conosce l’amore per un uomo. Celebre è la vicenda che la unisce eternamente ad Adone. Dietro la coppia Afrodite/Adone si riconoscono le coppie, più antiche di Inanna/Tammuz e Ishtar/Dumuzi. Potresti parlarmi di questo schema ricorrente che lega una dea potente a un mortale.

Si tratta di coppie di pàredri, di divinità che stanno una accanto all’altra ed esercitano un potere condiviso. Anche Elena e Menelao sono venerati come divinità locali pàredre nella regione della Laconia. Così ci dicono le testimonianze archeologiche. Zeus ha un’antichissima pàredra in Dione, secondo una versione del mito madre di Afrodite. L’elenco sarebbe lungo.

In ogni modo, troviamo un riflesso di queste coppie divine nelle storie d’amore tra una divinità femminile e un mortale di umile condizione – un pastore, un cacciatore – che, in quanto prescelto dalla dea, diventa anche signore del suo popolo. Ritroviamo questo schema anche nella storia di un antico re di Roma, Servio Tullio che, prediletto e amato dalla dea Fortuna, ottiene il trono. Ci sarebbe molto da dire su questo tema, davvero appassionante.

Nel libro ricordi la poetessa locrese Nosside. Di lei ci restano pochi epigrammi nell’Antologia Palatina la e la sua voce fa parte di una zona sommersa di voci dimenticate di donne, di cui in genere viene ricordata Saffo per tutte. Ti sono grata anche per questo ricordo e mi piacerebbe un tuo breve ritratto.

Grazie a te. Sì, nel mio libro ci sono due poete: la celebre Saffo, nella storia ambientata sull’isola di Lesbo, e la meno nota magnogreca Nossìde, vissuta tra il IV e III sec. a.C, in età ellenistica, a Locri Epizefiri, fiorentissimo porto, oggi Locri in Calabria. Probabilmente ben istruita e di classe aristocratica, Nosside si dichiarò emula della poeta di Lesbo. La sua opera è ben rappresentata nell’Antologia Palatina (dodici componimenti poetici a lei attribuiti), anche se questo non è bastato a darle particolare notorietà nel canone letterario greco.
Nel Novecento, la poeta imagista inglese H. D. (Hilda Doolittle) dedicò un poema, per me sto molto bello, a Nosside, Nossis.
La poesia di Nosside è composta in un dialetto dorico letterario. La maggior parte dei suoi epigrammi riguarda donne. Scrisse principalmente epigrammi per dediche religiose ed epitaffi. A differenza degli epigrammi dedicatori ellenistici, che sono solitamente scritti da un io poetico neutrale, non coinvolto direttamente, la voce nelle dediche di Nossìde suona in connessione con il committente o la committente, come nel caso della storia che racconto ambientata proprio a Locri nel tempio di Afrodite. C’è un rito notturno sul mare, c’è la descrizione di un luogo sacro e di una balaustra di marmo scolpita con un bassorilievo che, su un lato, rappresenta la nascita di Afrodite, nota comunemente con il nome di trono Ludovisi, c’è la poesia di Nossìde intonata da una comunità di devota di Afrodite e un’amicizia che è anche un modello di amore. Non ne dico di più. Lascio a chi legge la scoperta di questa tappa di viaggio nella nostra penisola.

 

In uno dei capitoli del libro entrano in scena desiderio e inganno attraverso l’incontro con un’altra dea, Era, moglie di Zeus. L’accostamento tra le due dee permette anche di sottolineare il legame di Afrodite col desiderio, con la pulsione e la tensione più che con l’ordine del vincolo matrimoniale. Chi erano le donne che si consacravano al culto di Afrodite?

L’accostamento tra le due dee mi è parso interessante perché sono insieme complici e rivali in diversi episodi del mito antico. Nel libro mi sono soffermata soprattutto sulla loro complicità, sul loro modo di cooperare. Era ella è la sposa per eccellenza, il modello olimpico della moglie che, con il marito, esercita e spartisce un potere e gode di uno status che, separatamente, perderebbe. Non c’è ordine olimpico senza la coppia Era/Zeus. Litigano, si detestano, Era genera per dispetto, da sola, Efesto, Zeus la investe dei peggiori improperi ma…il legame tiene perché il potere conta più della gioia amorosa. Nel dominio della dea Era l’amore è uno strumento per regnare. Per Afrodite, invece, l’amore è un regnare per sé. Afrodite non teme la libertà dell’altro, la fine di un amore, perché l’amore è lei stessa; da sola non metà, non manca di niente. Questo non vuole dire che Afrodite non soffra quando ama un mortale come Adone. Afrodite è anche dea della festa di nozze, del momento rituale che segna un passaggio e, in qualche modo, della condivisione con la comunità di riferimento della gioia di un momento in cui i due innamorati, i due futuri sposi, si avvicinano – e, forse, per un attimo stringono a se, stringendosi null’altro – la beatitudine vertiginosa e il senso di eternità che è solo degli dei.
Le due si incontrano e si scontrano in modo particolarmente significativo nella vicenda d’amore il sangue che vede coinvolti killer o Giasone la principessa Medea. Ho voluto tornare su questa storia, molto nota ma molto difficile da illuminare nel profondo, per sottrarre il personaggio di Medea alla luce sempre fosca che le stinge addosso fino a offuscare i suoi tratti positivi, non di vittima di un uomo ma di emissaria sapiente di un ordine divino dove il sangue è solo preludio di una rinascita. Ma anche qui non voglio dire troppo.
Chi erano le donne che si consacravano al culto di Afrodite non è agevole determinarlo. Saffo era particolarmente devota alla dea e, per quanto sappiamo, proveniva da un’agiata e potente famiglia dell’aristocrazia dell’isola di Lesbo. Delle donne che si consacravano alla dea praticando, nei templi a lei consacrati, quella che si è soliti chiamare prostituzione sacra – ma il tema è complesso e oggetto di dibattito e non ho spazio di trattarlo qui con la dovuta precisione –  poco si sa nel dettaglio. Nel mio libro ho provato a raccontare di loro ricavando dati dalle testimonianze storiche e letterarie.

Il testo è anche un percorso geografico tra i luoghi cari ad Afrodite. Tra questi Pithekoùussai, odierna Ischia, in cui immagini una storia di fantasia. In questo racconto compare un uomo di nome Enareo, che ha caratteristiche singolari per un uomo. Puoi dirmi qualcosa su Enareo?

Enareo mi è molto caro e ti ringrazio di chiedermi di lui. Infatti è un personaggio di invenzione, come ne esistono altri nel mio libro. Sono vuol dire, letteralmente, “non uomo”. Gli Enarei (Ἐνάρεες) – ce ne parla Erodoto nel primo volume delle sue Storie – sono una casta sacerdotale scita (gli Sciti erano una popolazione iranica orientale di cavalieri nomadi) dedita alla divinazione. Non sono uomini, non sono neanche donne; sono degli androgini, all’incrocio e oltre le determinazioni tradizionali di sesso e genere. Sarebbe stata Afrodite, come racconta Erodoto, ad averli trasformati dopo la razzia del suo tempio ad Ascalona (oggi Ashkelon in Israele) perpetrata da un gruppo di cavalieri sciti di passaggio. Offesa, la dea avrebbe rivendicato così il suo potere, mescolando,, nel popolo che l’aveva oltraggiata alla mascolinità la femminilità, confondendo i sessi, favorendo un nuovo genere con suo prerogative straordinarie, come il potere divinatorio. Curiosa punizione, che mi ha molto affascinato. Così come mi ha affascinato la presenza di un culto di Afròditos a Cipro: si tratta di un compagno – un paredro – di Afrodite, barbuto e con il sesso virile ma rappresentato in abiti femminili.
Il personaggio di Enareo deriva il suo nome da questa casta – di cui è un lontano discendente, come egli stesso racconta – con cui condivide un aspetto non convenzionalmente maschile né femminile, non-binario, direi, facendo una torsione lessicale anacronistica ma non impropria. Nello specifico, la sua bellezza, il suo abbigliamento, il suo carattere, rimanda a una delle mie ‘ossessioni’, la figura del cosiddetto Principe dei Gigli, rappresentato negli affreschi del Palazzo di Cnosso a Creta, oggi conservato al Museo archeologico di Heraklion. Su di lui ho fantasticato moltissimo e alla fine è nato Enareo e il suo modo di essere uomo e donna e nessuno dei due, in armonia con un idea del sesso e del genere che la natura più antica di Afrodite – e le sue radici orientali – include e interroga.

 


L’ultima domanda riguarda una nota sulla magnifica copertina, che mostra un particolare de La nascita di Venere di Amaury-Duval, un gesto, uno spazio aperto tra il braccio e il collo, capaci secondo me di evocare la leggiadria e birberia di ogni giovane donna ( e non solo).

Il dipinto è a mio gusto bellissimo. Risale al 1862 ed è conservato a Lille al Palais de Beaux Arts. Il suo autore, Eugène-Emmanuel Amaury-Duval, era un allievo di Ingres, considerato un maestro della pittura neoclassica. Si riconosce la scuola. La grazia del gesto – e a mio avviso la bellezza cui rinvia Afrodite è fatta soprattutto di movimenti, gesti, modi di stare nello spazio e di intonare l’aria a una musica interiore – è tanto più leggiadra e provocante perché non viene da un piano, da un’intenzione, da un progetto seduttivo. Non è compiuto per nessuno, nessuna. Se si osserva il dipinto nella sua interezza, si vede che la dea si trova su una spiaggia deserta di sabbia dorata che si stende come un tesoro a far risaltare l’azzurro metafisico alle spalle della dea.
Insomma, quel gesto, quella leggiadria irresistibile, la curva che prende il collo, la spalla, fa parte del modo di essere della dea. D’altra parte, nella sua essenza originaria, la più composita e più difficile da addomesticare e anche da capire fino in fondo, favorisce e protegge l’amore come inteso come libera scelta, soggetta a una verifica continua, costitutivamente precaria, come libertà degli amanti, come gioia da ricercare e non come obbligo, come ricatto. Afrodite dunque non vuole sedurre, la sua malìa non è frutto di un’astuzia, ma del suo carattere, della sua intelligenza; tutte cose che si raffinano con l’età, come le vicende di Saffo, nel mio libro, hanno cercato di illuminare.

 

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