18 Lug Diciotto più uno fa uno. Lilith e Lola di Elianda Cazzorla
di Massimo Vezzaro
Leggendo i “Diciotto racconti per una storia”, il sottotitolo di Lilith e Lola di Elianda Cazzorla appena pubblicato da Iacobelli editore, la prima idea che affiora è quella di un caleidoscopio. Ad ogni spostamento della ghiera, i frammenti colorati si ricombinano in un’immagine sola, ferma per un istante nel cilindro. Potrebbe essere un’indicazione di lettura: forse i diciotto racconti di Elianda Cazzorla si possono ricomporre in una figura, almeno per un istante?
L’indice offre una prima conferma, insieme alle prime pagine: al centro di tutto c’è una donna, Lilith, la protagonista della storia che fa da cornice alla raccolta dei racconti. Ogni capitolo “diviso in due parti” ha il nome di una compagna di scuola di Lilith. Ciascuna di loro è ritratta in un momento fondamentale dell’esistenza da una voce narrante che lo racconta con gli occhi di Marina, Luisa, Lucia e delle altre. Lola, una sorta di maga che si è piazzata con il suo tavolino davanti ad un supermercato, offre a Lilith l’incanto di un mazzo di carte capace di evocare le vite delle compagne. Lilith potrà così agire come il gioco degli specchi inclinati del caleidoscopio. I segmenti di vita che ogni compagna percorre, se il lettore o la lettrice li uniscono, possono tracciare la linea della vita di Lilith? Forse.
In quella linea si può riconoscere ogni donna, come se Lilith fosse una tipizzazione,incarnasse un archetipo? Questione complessa. Una bella sfida per chi legge.
Dunque, bisogna provarci.
Qualcosa di caleidoscopico c’è anche nella scrittura di Elianda Cazzorla, intenta a captare con la ricchezza dei significati delle parole le indocili evoluzioni che i pensieri delle protagoniste eseguono. Succede in folgorazioni come quella che accosta lo scoppio letale di un’aorta con lo scoppio di una camera d’aria troppo gonfia nell’officina di un meccanico, secondo i dettami medievali della commedia che uniscono contenuti tragici e immagini della vita comune. Capita a Zoe nel racconto nove dal titolo: Vene. Succede anche quando la ghiaia illuminata dal sole radente si anima: “Passo dopo passo, la macchia di colori vivaci diventa un pony marrone, un pesce rosso e un cane dalmata. Sono sagome di plastica e di legno, con molla piantata in pancia, in attesa di bimbi. Giorgio e Simone amavano dondolarsi con tutta la forza che avevano in corpo. Ora sono grandi, i due fratelli sono lontani. E lei, la madre, è lì …”. Ancora Zoe nel racconto dieci:”Temporale”. Nel brio di una scrittura così mossa è possibile tentare di ricostruire la trama unica che sortisce dalle storie delle compagne di Lilith.
Lei accusa un profondo malessere, che si presenta ora come deserto dei sentimenti, ora come bisogno di uscire dalla solitudine, e diventa universale quando seleziona, nel sogno utopico di un autore che presenta il suo libro al pubblico, l‘aspirazione a un mondo di pace con sé stessi e con gli altri. È Lilith a notare queste parole nel racconto due: Mantello azzurro. Per altro il malessere lo si sperimenta già da adolescenti -l’osservazione è sempre di Lilith nel racconto uno: Gonna a pois – e diventa irreversibile con la malattia mentale che appanna l’esistenza, come succede a Mimma nel racconto conclusivo della raccolta.
Il malessere viene dalle cose della vita: innanzitutto scandisce l’inutile “rap quotidiano” proprio dalla condizione umana: “andare tornare, ridere piangere, svegliarsi addormentarsi”. Lucia tratteggia questa sottile angoscia, in cui non è difficile cogliere qualche eco dei colloqui leopardiani con la luna, nel racconto otto: “Talpa”.
Anche gli eventi fondativi dell’esistenza innescano il malessere nelle compagne di Lilith, esponendole alla necessità e insieme alla difficoltà della rassegnazione: la prima volta con il sesso, a volte tanto rapida da non lasciare traccia nella memoria, l’amore, incompiuto in tutte le sue occasioni nonostante il turbamento, la passione, le attese; il parto, alla ricerca di una naturalità strutturata inattingibile; la separazione e il divorzio, con le schermaglie giuridiche e relazionali che si portano dietro; il furto occasionalmente subito che ruba i frammenti di memoria custoditi in borse e portafogli; la morte di chi abbiamo amato, ma anche allontanato, la fine irreversibile che la malattia può imporre.
Insomma, vivere è difficile, sempre. È una corsa a tappe che richiede a queste donne fatica, passione, voglia di arrivare e propone sempre nuovi ostacoli prima che si intraveda lo striscione del traguardo. Poi comincia subito un’altra tappa. Come si può sostenere una condizione difficile come quella umana, anzi femminile, universale e per certi versi duratura?
Le compagne di Lilith hanno goduto dei sogni, dei giochi, delle magie. C’è l’arte, fin dall’infanzia: il teatro di Anna nel terzo racconto con le trecce di Giulietta; la musica nel quarto racconto: “Vinilici frammenti”. C’è la danza che Lilith incontra da bambina, rubando lo specchio e i vestiti alla mamma nel primo racconto: Gonna a pois e ritrova poi da adolescente, ballando ora scatenata nel ritmo ora avvinghiata a qualche ragazzo. È ancora la danza a colorare la vita adulta di Lilith, prima quella esotica del ventre, poi quella delle tradizioni popolari.
Continuare a ballare è continuare a vivere, ad essere.
C’è infine la scrittura, capace di attrarre magneticamente Arianna nel racconto undici:”Corbezzoli rossi”, anche quando urgono la cura dei figli e una sentenza di divorzio in sospeso.
Insomma, l’arte come antidoto al malessere, come qualcosa che rende intensi almeno certi momenti di una vita complicata.
Alternative non ce ne sono.
Gli uomini aiutano poco: appaiono a Lilith, nel secondo racconto: “Mantello azzurro”, come “sacchi di patate”, immobili e assonnati, come teste di serpente, cactus e avvoltoi. Parlano per slogan, si mostrano indifferenti anche di fronte alla tragedia del suicidio, rimangono distanti anche nell’incontro oppure lo mancano, si tirano indietro. Succede a Zoe nel racconto dieci: “Temporale”; ad Arianna nel racconto dodici: “Teflon e Quasar”; a Luisa nel racconto quindici: “Quaderno blu” e nel racconto sedici: “Scrigno d’argento”.
E allora bisogna trovare in sé la forza: la disciplina è l’unica salvezza, proclama Zoe nel racconto nove: “Vene”. Perfino nelle schermaglie d’amore in chat bisogna seguire certe regole, serve la tattica giusta, senza lasciarsi troppo andare e senza lasciare che tutto svanisca per inerzia.
È indispensabile scuotersi, desiderare, andare, decidere, e comunque cogliere il piacere là dove c’è, fosse solo negli arabeschi inafferrabili disegnati dal volo delle lucciole, di notte.
Gli uomini colgono nelle donne l’interscambiabilità, dopo l’ebbrezza, e si muovono per sentenze come proboscidi che arringano, con la pretesa di imporre la direzione da prendere.
Icasticamente Luisa proclama nel racconto sedici: “Scrigno d’argento”: “Io sola decido quale sia la via migliore e ci vado con i miei occhi e con le mie scarpe”. Luisa, infatti, non ha consentito nemmeno a suo padre di decidere per lei.
Nelle sue compagne, insomma, Lilith trova il bisogno radicale e insopprimibile di prendere le distanze da padri e compagni, effettivi e probabili, guadagnando una propria dimensione dell’esistenza con la radicalità necessaria.
Solo le madri hanno peso: in qualche momento, le istruzioni materne ritornano in mente, come una sorta di super-io in quell’operosa dimensione del fare (prova, stai, fai, fai e basta!) che riaffiora probabilmente nell’autonomia di ogni donna, anche di quelle che si sono ribellate ai ruoli consolidati.
Le madri aiutano a vivere, anche quando, come succede a Marina nel racconto sei: “Foglie dentate”, non ricordano il piacere della trasgressione.Infine, danno la vita non solo nel senso legato alla gestazione e al parto, ma anche quando, passati gli anni, regalano la memoria dell’infanzia di cui ogni donna è portatrice.
Nel racconto sette: “Scopa”, Lucia assapora la presenza nell’assenza. Qui il ricordo assume una consistenza quasi materiale, come se la carne fosse fatta anche di questo.
È così per ogni donna?
Leggendo Lilith e Lola sembrerebbe di sì.
Si ha la sensazione di rintracciare qualcosa che è universale nel genere femminile, senza che per questo l’autrice voglia occultare le differenze, le diciotto differenze che compongono, come in un caleidoscopio, l’unità della raccolta.
Biografia
Elianda Cazzorla è di Monopoli, nata a Bari, vive a Padova. È giornalista. Laureata in Filosofia del linguaggio, insegnante di Lingua e letteratura italiana, per ventitré anni, nel liceo artistico di Padova, negli altri anni a Belluno e provincia, docente a contratto nelle università di Padova, Venezia e Verona. Con Giovanna Vignato e Guido Galesso ha curato l’antologia Fabula in 5 volumi, pubblicata nel 1999 da Bruno Mondadori. Ha realizzato raccolte di poesie e racconti nei laboratori di “Immagine e Scrittura” con i suoi studenti, ultima raccolta: Nel mare di Odradec. Per otto anni, dal 2011 al 2019, ha guidato la redazione del giornale scolastico Web con La Repubblica – Scuola, pubblicando gli articoli dei suoi studenti. Ha collaborato alla realizzazione di Un anno di storie, edito dalla Cleup, Padova, per gli anni 2019, 2020, 2021. Nelle Le stanze del grano, edito da Laurana, Milano, maggio 2020, c’è il suo racconto: Temporale. Il suo primo romanzo, Isolina, un martedì, Iacobelli, dicembre 2019, è nato sulle pagine di CarteSensibili, con cui collabora mensilmente dal 2015. Il secondo, Tela di Taranta, Iacobelli 2021 è in via di pubblicazione. Scrive istantanee, articoli e racconti in Letterate Magazine, Leggendaria, Cultweek.
Sito web :: https://eliandagroup.wordpress.com/
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