20 Lug L’ossessione di essere visti. Sulla bramosia e la vanità degli uomini vuoti
di Lucrezia Lombardo
Immagini di Anna Weyan
Nell’era delle immagini e dello spettacolo a buon mercato si assiste a un regresso alla stato bestiale e istintuale dell’essere umano. Una condizione in cui al progresso tecnologico raggiunto, non corrisponde un’evoluzione morale altrettanto strutturata. Al contrario, gli individui si ritrovano oggi sempre più soli, circondati da rapporti fasulli e incastrati in un’esistenza virtualizzata e burocraticizzata.
La politica, elitaria e lontana dai reali bisogni delle masse, lungi dall’emancipare i cittadini, li ha mutati in servitù: corpi spremuti attraverso le regole della flessibilità neo-liberista e menti esaurite dalla competizione costante, oltre che dalla fatica di stare al passo con le aspettative sociali e con i costi della vita.
Entro un simile scenario, la solitudine degli individui è il terreno su cui affonda le proprie radici quella passività, che impedisce autentici cambiamenti. E, tuttavia, neppure tale premessa è in grado di spiegare le ragioni profonde per cui oggi dilagano specifici atteggiamenti sociali -potenziati dai social e dalla virtualizzazione delle esistenze- come il bisogno di sentirsi speciali. Proprio questo bisogno necessita, difatti, di essere sviscerato nelle sue componenti molecolari, per giungere al cuore pulsante del problema.
Mentre le democrazie rappresentative occidentali vivono la loro peggior stagione -dominate come sono da una classe politica corrotta e disancorata dal reale, mentre gli uomini e le donne comuni sopravvivono a fatica- il web e, nello specifico, i social network, costituiscono la valvola di sfogo immediata per individui frustrati e sui cui grava un senso costante d’impossibilità.
La rabbia, derivante dal non contare nulla, dal vedersi esclusi dal gioco sociale, precarizzati sotto il profilo lavorativo e affettivamente incerti a causa della fluidità delle relazioni, è stata canalizzata verso l’unico orizzonte su cui il soggetto contemporaneo riesce ancora a esercitare una qualche forma di controllo: la virtualità. È in questo modo che la rete ha risucchiato le esistenze concrete, diventando il surrogato che tutti gli sconfitti bramavano, mentre, fuori dalle mura di casa, il mondo e gli altri sono divenuti perenni minacce.
Nella rete è infatti possibile indossare maschere, modificare la propria personalità presentandosi come ciò che, effettivamente, non si riesce ad essere. Nel web, i desideri prendono la forma della simulazione: un gioco talmente eccitante, che si finisce con il credere ad esso.
L’io isolato, frustrato, sottopagato, schiacciato da una realtà sociale sempre più diseguale e disumana, viene così “consolato” attraverso la concessione di un palcoscenico virtuale, sul quale ciascuno può diventare ciò che vuole: uno, nessuno, centomila.
A ben guardare, tuttavia, tale sublimazione collettiva cela uno specifico meccanismo disciplinare, ovvero la neutralizzazione della rabbia sociale -potenzialmente rivoluzionaria, se indirizzata e coordinata- mediante un surrogato -il web, appunto- attraverso cui far sfogare le masse ferite.
Del resto, il biocapitale ha compreso già da tempo che la rabbia sociale poteva essere normalizzata, se utilizzata per contrapporre gli individui tra di loro e se pilotata verso obiettivi fittizi, attraverso tecniche in grado di neutralizzare il vero cambiamento.
Sulle piattaforme social, dunque, persino il soggetto più complessato è in grado di mostrarsi come uno spaccone, mentre l’hikikomori riesce a raccontarsi come il più socievole degli individui. E, se da un lato i manuali di psichiatria sfornano di continuo nuove psicopatologie riguardanti fasce d’età sempre più precoci, dall’altro lato manca un’interrogazione morale -e, quindi, di stampo filosofico- che risalga alle condizioni di possibilità di una simile tristezza dilagante. Tutte le psicopatologie menzionate sono inquadrabili come “dolori” derivanti da un’assenza di senso, dalla noia di una generazione viziata, e dalla promozione di un’idea errata di libertà, perché scissa dalla responsabilità e dunque dalla relazione con l’altro. È entro tale ragionamento che è possibile comprendere l’insorgenza di un nuovo diffuso bisogno. Un bisogno tanto forte da farsi compulsivo e superare i confini geografici e culturali: quello di essere visti. È tale bisogno che i giovani tentando di sanare mentre si filmano in azioni violente ed è un tale bisogno che i tanti, che usano il proprio corpo come mezzo di provocazione sessuale, tentano di colmare, così come è tale bisogno, che coloro che ricorrono costantemente alla chirurgia plastica per migliorare i propri apparenti difetti, cercano di acquietare.
Anche se occorre farsi del male, anche se è necessario imprimere sulla propria carne marchi indelebili, ciò che che conta è essere notati e uscire, almeno per una volta, da quell’anonimato massificato e massificante in cui il mondo confina il singolo, sebbene, d’altro lato, non faccia che invogliarlo all’apparire. Questa schizofrenia sociale diviene, perciò, schizofrenia individuale, che genera soggetti divisi in se stessi e ossessionati dal ricevere quel riconoscimento che li salvi dall’isolamento atavico dell’era postmoderna.
Sentirsi parte di qualcosa, essere notati -seppure con gesti atroci- è quindi più forte di qualsiasi cammino edificante che, di contro, richiede fatica, attesa e una non immediata visibilità. Allo scopo di raggiungere un tale sentimento di appartenenza -che compensi il sostanziale vuoto interiore di uomini e donne, che non sanno chi sono- si è così disposti a prostituire persino la propria storia, impiegando meccanismi di autovittimismo o, viceversa, di eroicità autoproclamata. In entrambi i casi domina una profonda superbia, derivante dal capriccio e dalla convinzione che gli altri ci debbano qualcosa, per il semplice fatto che noi siamo ciò che siamo.
Del resto, una società che educa alla pretesa, all’idea che i modelli a cui ispirarsi siano coloro che “si sono presi ciò che volevano, senza badare a remore morali”, è una società che non può che produrre mostri: individui bramosi e privi di autocritica, perché completamente incapaci di fare i conti con la realtà di se stessi e del mondo e totalmente incapaci di accettare il senso del limite.
Entro tale logica dello strabordamento, ogni traguardo e realizzazione non sono vissuti come tappe per una crescita che non si conclude mai e che richiede costante umiltà, bensì come elementi per primeggiare sugli altri, mediante il vanto. Ciò che conta, difatti, non è più il piacere di ciò che si compie, né l’amore per ciò che si fa, bensì avere oggetti materiali da esibire, titoli da mostrare, beni da possedere, relazioni da osannare, carriere da immortalare, corpi da fotografare, allo scopo di sentirsi superiori agli altri. Questa tracotanza pare essere il fine ultimo dei figli dell’epoca delle immagini e della società dello spettacolo. Un’era che educa, sin da ragazzini, all’esibizionismo, al capriccio, alla non accettazione di correzioni, come dimostra la crisi radicale della famiglia e del sistema scolastico e formativo.
Tant’è che il palcoscenico virtuale diventa il luogo in cui l’identità fragile del soggetto contemporaneo si maschera da identità forte, mentre i vuoti interiori sono colmati da un esibizionismo che si basa sui followers e sugli apprezzamenti. Dinanzi a tale obiettivo, i dubbi morali -che prevedrebbero la capacità d’interrogarsi sulle autentiche intenzioni degli atti che compiamo- divengono un ostacolo da rimuovere con celerità, anche perché l’epoca delle macchine e del disamore non ammette attese: tutto è da prendere e subito!
Ciò che muore, nel mare caotico contemporaneo, è la stabilità e, con essa, la responsabilità che ogni scelta autenticamente costruttiva implica. I confini, difatti, sono oramai considerati come null’altro che impedimenti, perdendo il loro ruolo essenziale di condizioni di possibilità di ogni forma, dall’io, all’amore, alla politica, alla coppia. È così che la relazione – intesa in quanto cura per l’altro- si disintegra nel gioco perverso della noia e dell’egoismo edonistico: tutto ciò con cui si relaziona l’uomo dei nostri giorni, è ridotto a oggetto da impiegare strumentalmente allo scopo di potenziare l’io. Ragion per cui, la gran parte dei rapporti sono, in realtà, contaminati da interessi personali. L’odierno uomo robotico e anaffettivo, la donna in carriera contemporanea, non hanno infatti alcuna intenzione di scomodarsi per gli altri, né di mettersi al servizio di costoro o di abbassarsi al livello di chi non ce la fa, poiché hanno da occuparsi della propria auto-glorificazione. Tuttavia, un simile atteggiamento d’indifferenza, alla lunga, genera un incolmabile vuoto, poiché è nella natura delle cose che la gioia derivi dalla condivisione e dalla comunione con l’altrui presenza.
Soli, denudanti, vuoti, pateticamente ossessionati dai risultati, da un’eterna giovinezza, dal successo materiale e da ruoli di potere che comportino l’altrui asservimento, gli individui dei nostri giorni sono ridotti a misere caricature di se stessi. Eppure, questi stessi individui privi di empatia, sono coloro che -in caso di necessità– non sapranno fronteggiare la fatica, né sapranno rinunciare a quella vita di riconoscimenti e comodità che si sono illusi di possedere. Per costoro, una ruga che spunta sulla fronte diviene ragione di disperazione, così come il cambiamento della propria condizione sociale -derivante dai tanti imprevisti che la vita presenta- si muta in causa di una radicale depressione.
La banalità del male dei nostri giorni si caratterizza, dunque, per tre fattori: l’incapacità di esercitare un pensiero critico, l’incapacità di porsi dubbi morali e l’incapacità di sentire l’altro. Tutt’e tre questi fattori s’intrecciano, andando a costituire una soggettività perfettamente massificata, perché chiusa in se stessa, ossessionata dal proprio personale successo – in nome del quale è disposta a mettere da parte la coscienza – e indifferente all’altrui sorte. Difatti, la personalità scissa appena descritta, ha a cuore gli altri esclusivamente in quanto mezzi per giungere a un ruolo di primo piano ed è perfettamente obbediente agli imperativi sociali, rivelandosi disposta a compiere anche le peggiori azioni (si pensi alle politiche violente portate avanti dalle attuali classi dirigenti globali) pur di non perdere l’egemonia che ha ottenuto.
L’idea che la nostra personale realizzazione sia lo scopo essenziale della vita -sacrificando per essa i rapporti, la spiritualità e tutto ciò che non è funzionale- ha così prodotto una massa di potenziali sociopatici, educati esclusivamente a pensare a sé stessi e legittimati in questa ossessione dall’attuale sistema socio-economico, culturale ed educativo. Tant’è che le dinamiche dei social network non sono che il riflesso di ciò che gli uomini e le donne dei nostri giorni covano in cuore: un furioso bisogno di ottenere quel pezzo di visibilità che pretendono gli debba essere riconosciuto, quasi come se, nel buio dell’incertezza attuale, non restasse loro altro che il folle attaccamento all’io e al corpo. Eppure, quando giungerà il momento di fare i conti con la verità su noi stessi, chi riuscirà a sopportare il peso di quel vuoto a cui ci siamo offerti in sacrificio?
Francesco
Posted at 09:15h, 21 LuglioOttimo articolo
Complimenti
Grazie
Xenia
Posted at 11:54h, 18 AgostoNulla da togliere, nulla da aggiungere. Grazie!