Il “libro di libri” di Sara Durantini

di Giorgio Galli

Ci sono almeno tre libri in Pampaluna (Dalia, 2024): il libro di memorie di una scrittrice che è stata una bambina con problemi di linguaggio e coi genitori separati; la dissertazione femminista sulla condizione delle donne nel passaggio dalla società contadina a quella cosiddetta di massa; la ricostruzione, tra il nostalgico e il cronachistico, di un’epoca storica di cambiamenti che va pressappoco dal crollo del muro di Berlino alla dissoluzione violenta della ex Jugoslavia. C’è perfino un quarto libro, che interseca prevalentemente i primi due: quello sugli ultimi barbagli dell’Italia contadina, quello, potremmo dire con Pasolini, sulla “scomparsa delle lucciole”. Ciascuno di questi libri ha un suo stile: trasognato, dolceamaro il primo; vibrante e battagliero il secondo; più secco il terzo. Il quarto libro, quello sotteso agli altri o almeno ai primi due, ha un tono tutto suo e più segreto: è il tono del passaggio dal Mito alla Storia, dall’infanzia alla maturità non solo della protagonista ma della comunità intera: dalla soggezione ancestrale alla tradizione tramandata alla presa di coscienza storica. Tanta materia per un libro solo, e difatti all’autrice sono necessari elementi di raccordo, il primo dei quali è costituito dalla cultura pop di quegli anni: le canzoni come Bella signora di Morandi, i cartoni animati come Lady Oscar fungono da cerniera, da fil rouge che lega le diverse anime dell’opera ancorandole nel tempo e facendo rivivere l’atmosfera, la psiche collettiva di quegli anni.

La bambina protagonista e narratrice si chiama Sara: l’autrice non nasconde la natura autobiografica di questo suo “libro di libri”, e difatti chiude la narrazione dichiarando la propria data di nascita: 10 luglio 1984. Io sono nato quattro anni prima di Sara, e la mia infanzia non è stata contadina, ma provinciale e paesana. Ricordo la banda che passava, il dì di festa, a risvegliare gli abitanti del paese di mio nonno, le tombole in piazza, e perfino, nella periferia della mia città, la luce delle lucciole nel buio. Ricordo feste di cui perfino i miei coetanei, che le hanno fatte con me, han perso memoria. Sono stato un bambino diverso, forse autistico, non so quanto amato da genitori troppo presi dai loro dissidi per accorgersi di quelli che avevo dentro. Posso rivedere in me una parte della storia di Sara. Posso riconoscermi nella sua atmosfera interiore. È come se Pampaluna intrecciasse i ricordi trasfigurati dall’immaginario di certe sequenze di Otto e mezzo di Fellini e l’epica del primo atto di Novecento di Bertolucci. Ho detto che ognuno dei libri di cui si compone Pampaluna ha un suo stile, ma ognuno ha anche un suo tempo: il tempo immobile dell’infanzia e del mondo contadino, quello vorticoso di anni storicamente pieni di cambiamenti; e poi il tempo lento e solenne delle battaglie storiche per la conquista dei diritti delle donne. E l’equilibrio tra tutte queste anime è così esile nell’opera che l’autrice alla fine non può che dissolverle, facendo sparire a poco a poco il mondo di Pampaluna e poi Pampaluna stessa -il casale della sua infanzia- e tutta la sua storia, rendendo tutto di nuovo, come nei primi vagiti del racconto, un volatile sogno. Chiedo scusa se parlo di me, ma alcuni miei testi hanno questa stessa dissolvenza finale, come per una difficoltà ad abbandonare la materia della scrittura, o per una nostalgia che rivela che scrivere, in fondo, è sempre un modo di rammemorare. In Sara, questa dissoluzione è preceduta da una misteriosa preghiera che è forse la pagina più bella del libro: lì non c’è più cronaca, né storia, né dissertazione, ma solo l’espressione pura di un dolore, il dolore di tutti i diversi, di tutti gli espulsi dalla vita: è una preghiera in cui in molti ci possiamo riconoscere, perché non siamo uguali agli altri, ma siamo tanti, quelli non tarati sulla realtà così com’è, che vivono l’estremo o che non vivono. E Sara Durantini ha scritto per noi.

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