IN GIRO PER PALERMO

DI GIADA BROCATO

 

Nessun angolo sporco in particolare e nessuna strada, ma molti angoli e molte strade sporche. Quasi tutta Palermo resiste con la sua stanca bellezza all’incuria, nella prolungata assenza di responsabilità: nessuno in particolare è colpevole, se chiedi a qualcuno se sa qualcosa ti risponde “boh”.

Anch’io non penso a sindaci, amministratori o categorie simili. Nomi e volti fanno presto a sparire, invece vedo una gigantesca mano di lattice nero, che fruga dappertutto e arraffa quello che vuole senza sporcarsi troppo.

Ormai non è più così strano camminare scansando rifiuti, lo faccio automaticamente in zone quasi centrali, l’abitudine allo slalom fra pozzanghere, buche e strati di cartone bagnati è ormai consolidata.

Cerco di non guardare troppo i muri screpolati, i pali arrugginiti, i fili elettrici arruffati come capelli negli eterni cantieri a norma di legge, se capita raccolgo un fiore di pomelia e salto di manifesto in manifesto senza leggere nulla. Assaporo solamente le macchie di colore, poste dagli attacchini un po’ qua e un po’ là. Alcune pubblicità sono gigantesche e cangianti, una specie di magica fisarmonica le smuove dall’interno, di onda in onda e di desiderio in desiderio, solitamente sono luoghi o oggetti lontanissimi a piedi, offerte già scadute, minchiatissime, fisserie col botto.

Mentre faccio i miei soliti giri, colgo a pieni polmoni ciò che di bello e civile mi si offre.

Un modesto signore versa l’acqua della bottiglietta sulla pipì del cane, la prima, la seconda e la terza volta, finché l’acqua finisce e le pipì non so.

Una splendida settantenne aspetta alla fermata degli autobus: vestito rosso di taffetà e scarpe con tacchetto da ex ballerina, gambe nervose ancora incredibilmente belle, biglietto in mano per non dimenticare di pagare la corsa, sarà un po’ svanita, sorride quasi a tutti e intorno a lei sento una specie di musica.

Un furgone è carico di operai neri a torso nudo o in canottiera, addentano panini ed è sempre vero che hanno denti bianchissimi.

Una mamma col passeggino cerca le strisce pedonali, ma deve inventarsele e blocca tutti con la mano.

Un gruppetto di turisti giapponesi fa riprese a 360° con l’asta dei selfie, cerco di sfuggire alle loro storie in mondovisione dicendo “sorry” e sorpassandoli.

Ogni volta Palermo me la bevo così, a piccoli sorsi, pensando che è una bottiglia d’ottima annata quasi finita e che non c’è più speranza di niente.

Ogni volta cerco di superare gli scontri con i ricordi e i luoghi del passato che non riconosco più, nell’avvicendarsi convulso dei franchising e delle mode passeggere.

Per qualche minuto ritorno bambina, mano nella mano con mia madre, lei ha un cappottino di pelle color cognac, io un maglione Fiorucci con Mickey Mouse a rilievo, sacchetti di compere a destra e a sinistra, occhi pieni di cose belle. Ci fermiamo per un succo di frutta e un tè da Roney, che ricordo come una specie di serra verde frequentata da gente elegante. Dopo eccoci da Mazzara, la pizzetta viene servita su un piattino tiepido, il cameriere è piuttosto vecchio, le panche di legno lisce lisce che così lisce e lucide non ne ho più viste, il tavolo di vetronite verde chiaro è puntinato di zucchero.

Intanto, ora e sempre, una cinese mi sta davanti e procede a passetti veloci urlando dentro uno smartphone, come se non fosse possibile fare passi più lunghi e distesi con due gambe e due piedi del tutto simili ai miei. E senza vuciari così forte verso la sua amata Muraglia, peraltro.

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