Pellame


di Ale Ortica

«Signor Daza, che piacere potervi accogliere in Italia. Siete in ritardo, vi aspettavamo per le undici, so che ci sonostati dei piccoli inconvenienti durante la crociera, spero che ciò non rovini la vostra permanenza qui da noi.» L’untuoso, simpatico addetto all’accoglienza, direttore Marchese Conte Piermatteo Bambarani, un ometto di dimensioni risibili con una chierica alla francescana avvolta in due giri di riportino, era il primo contatto degli ospiti con la squisita accoglienza italica. Li stava attendendo impettito davanti all’ingresso della monumentale struttura pronta a ricevere i nuovi arrivi.

Daza sembrava piuttosto provato, gli occhi stanchi, incavati, ma quasi indifferenti. La sua signora, Amina, proiettava due enormi fanali al posto degli occhi tutt’intorno, come se dovesse produrre un modellino in 3D dell’ambiente che la circondava. Si muovevano lentamente, lui era leggermente claudicante e si appoggiava al braccino magrissimo di lei, non avevano bagagli, non visibili, almeno.

«I signori hanno con sé delle valige? No, vedo che avete viaggiato leggero» sorrideva Bambarani compiaciuto della propria splendida affabilità sostenuta da una classe innata da vero italiano da cinque generazioni, «favoritemi i documenti, sapete, quisquilie, burocrazia…» facendo scivolare le ultime parole con un tono che andava spegnendosi, accompagnato da un gesto della mano che sembrava voler scacciare una mosca immaginaria. Quisquilie. Che parola elegante, pensava l’ometto, che scelta interessante.

I coniugi seguirono il direttore all’interno della struttura e vennero accompagnati davanti a un grande bancone, sembrava quasi che qualcuno fosse pronto a far scivolare due boccali di birra verso un cliente ubriaco. Stavano in piedi, Daza sembrava desiderare fortemente una seduta ma non disse nulla e Amina era ancora intenta a perlustrare ogni angolo di quel mondo con quei suoi occhi avidi di dettagli.

Il direttore si era piegato sul bancone alla ricerca di un lapis per prendere degli appunti sul suo piccolo blocco dalla copertina in rilievo, raffigurante piccoli putti paffutelli che si fissavano vicendevolmente con aria interrogativa. Fece un rapido gesto per ritrovare la posizione eretta, una scrollata di spalle che riportò in ordine la giacca di un delicatissimo color crema, haute couturenaturalmente, e con un simpatico “oplà” tornò a rivolgersi agli ospiti.

«Ora, se volete seguirmi, vi accompagno nella vostra residenza, spero sia di vostro gradimento. Come certamente sapretel’accoglienza italiana è inimitabile, anche se forse non dovrei dirlo io…» si schernì portandosi una mano davanti alla bocca come una verginella che si lasciasse deliziare dalle carezze di un abile mascalzone.

I coniugi si incamminarono cercando di registrare ogni informazione ambientale, l’ubicazione delle varie aree utili, il salone dove avrebbero mangiato, la sala ricreativa dove avrebbero conosciuto tante persone, scale d’emergenza, uffici del personale. Un corridoio così lungo, immenso, la gamba di Daza che sembrava fatta di cemento arrancava, forse un crampo, non aveva più l’età per stare in piedi tanto tempo, le attese, le notti anche, sempre in piedi, dormire con gli occhi aperti come un vampiro, era ora di finirla, di stendersi su un morbido materasso e un lenzuolo leggero come un sollevo, accucciato sui piedi.

Il direttore Marchese inserì una lunga chiave dentro il complicato meccanismo di una porta molto pesante, girò a lungo, come se stesse seguendo le coordinate per aprire una cassetta di sicurezza, poi due chiavistelli sopra e qualche altro arnese del diavolo di lato, accidenti che posto moderno, quanta attenzione all’ospite.

«È per la sicurezza di tutti noi, i nostri ospiti si devono sentire come in un nido», declamò con aria ispirata l’ometto.

Un nido di vespe, pensò Daza, rabbrividendo.

L’interno della stanza era grande come una palestra.

«Vogliate notare l’ampiezza della stanza e i fregi di pregio alle pareti. Qui incoraggiamo moltissimo gli ospiti a esprimere le proprie velleità artistiche, financo utilizzando i muri come una meravigliosa tela vergine», disse il direttore con un’espressione sognante.

Effettivamente i muri erano coperti di disegni simili a pitture rupestri e versi impressi nell’intonaco come affreschi raffiguranti emozioni e immagini folli che turbinavano direttamente dalle viscere dell’artista fino a schizzare sulla superfice, erodendola.

“L’amor che chiedea

Averlo giammai potrò

Finirla io già potea

Irma io t’amo ancor”

“NIENTE SESSO

SIAMO Cattivi

vita dura per tutti”

Concreta è l’assenza del gesto, e del sorriso

Tre o forse quattro decine di persone occupavano l’ambiente sottraendo aria, contendendosi ossigeno e regalandosi vicendevolmente calore corporeo. Era luglio, un’estate italiana rovente, fuoco vivo da respirare e liquidi corporei in sospensione sull’aria immobile, gelosamente trattenuta grazie alla sapiente installazione di pesanti coperte sopra le finestre serrate per impedire ai raggi del sole di arroventare la pelle escoriata degli ospiti. Un pulviscolo sottile giocava e si rincorreva davanti alle palandrane al ritmo del respiro e dei leggerissimi movimenti di due bimbi sui sei anni, o magari dieci ma magrolini e poco sviluppati nella speranza di non raggiungere mai l’ingegno degli adulti nell’arte di infliggere dolore e sofferenza ai fratelli più piccoli di Cristo.

Nessuno sembrava incuriosito dal panorama nascosto alla vista da quei grossi ingombri, donati da solerti animi caritatevoli tramite accorati appelli alla solidarietà consumati durante una Messa domenicale. Cosa vuoi che ci sia fuori? Non è abbastanza ciò che è dentro? Non ti sembra sufficiente l’abominio di un recinto umano concepito per annientare volontà e desideri? C’era abbastanza Italia nella lava bollente che era l’acqua da bere fornita agli ospiti e nella profonda convinzione che la povertà fosse sigillo di infamia imposto da Dio in persona che andava mondato strofinandoci sopra lacrime e liquidi umorali con spugne di processionaria.

C’era fin troppa Italia nell’aria, grazie, basta così.

«Dove…? Dove dobbiamo…» Daza non osava terminare la frase, non trovava le parole per descrivere la situazione.

«Ma dove vuole!» il direttore si dilatò in un sorriso monumentale, allargando le braccia, come se volesse avviluppare tutti i suoi graditissimi ospiti, «qui siamo una famiglia, in questo alloggio siamo tutti uguali.»

Intanto gli altri occupanti si erano mossi impercettibilmente, un millimetro al secondo, mentre le palpebre di Daza si chiudevano nell’inutile tentativo di distribuire le lacrime all’interno dei suoi occhi ormai disidratati a causa della temperatura disumana in quella stanza. Si stavano tutti distribuendo accanto a osceni pagliericci, tamponi assorbenti destinati a testimoniare per sempre la decomposizionedi corpi in salamoia, immersi nei propri liquidi corporei. Ognuno proteggeva gelosamente quella capsula putrescente che in qualche modo veniva identificata come una proprietà, perché se hai una cosa, se una cosa è tua, vuol dire che sei una forma di vita riconosciuta in qualche modo, occupi uno spazio perché esisti.

«Allora, mi sembra ci sia un posto, lì, in fondo» sorrise Daza indicando alla moglie il proposito di occupare un materasso che nessuno stava rivendicando. Come fossero pionieri in una terra esotica e insidiosa zoppicò dolorosamente verso quel rettangolo paludoso all’orizzonte, tenendo per mano Amina con la ridicola velleità di proteggerla con l’inconsistenza del suo fragile corpo. Si fermò in ciò che aveva identificato come proprio spazio vitale in quel luogo, indugiò nel vuoto disperato dei suoi pensieri e si accorse che qualcosa non era in linea con ciò che si aspettava di vedere.

Capì.

«Signore direttore, ma… lenzuole? Pulito? Niente?»

«Signor Daza, con questo caldo tipico della deliziosa estate italiana, lei vorrebbe ottundere i suoi pori con l’oppressione di un lenzuolo? Suvvia, non è saggio. Tuttavia, c’erano delle lenzuola inizialmente, un pregiato prodotto dell’esperta manifattura del luogo, ma i signori ospiti hanno preferito disfarsene, dormire “al pelo” potrei dire, come cavalcando un cavallo selvaggio.»

Preferito? Ragionava Daza osservando quell’accozzaglia di giacigli putrescenti, ognuno dei quali difeso a vista da una sentinella in assetto di guerra.

«Sì, lo so, una scelta curiosa, non le pare?» riprese a conversare il direttore, indovinando i pensieri dell’ospite, «e sappia che erano stati confezionati con un materiale inusuale, direi futuristico: il TNT. Oh ma non si impressioni! Non era mica esplosivo» risatina leziosa, «era semplicemente un innovativo materiale simile alla plastica, facile da pulire, come diceva prima? “Pulito”, ecco. I nostri ospiti evidentemente preferiscono, come dire, trovano più confortante dormire nel nido dei propri effluvi corporali. Immagino che si troverà magnificamente in quel delizioso angolo riposo, dopotutto l’ospite precedente aveva la sua stessa sfumatura di pellame, presumo che l’afrore somigli al suo.»

Daza era confuso, del resto stava cercando di raggiungere la sua famiglia in Germania, l’Italia era solo un luogo di transito, per altro non aveva commesso alcun reato dunque si aspettava di esibire i documenti, essere sottoposto a qualche controllo e poi proseguire. Devi passare qualche giorno nel CPR gli dissero appena sbarcato a Macomer, va bene, rispose, sarà piacevole poter riposare finalmente dopo settimane di viaggio.

Ora gli avevano sottratto i documenti, aveva solo finestre sbarrate, compagni di cella con occhi imperscrutabili e un cencio lercio e indegno che sembrava dover essere grato di occupare.

Non capiva perché ma gli sembrava molto importante sapere che fine avesse fatto il precedente occupante del materasso che gli era stato assegnato. Forse lo avrebbe chiesto più tardi a uno degli altri detenuti.

Il direttore era già fuori dalla porta dello stanzone, con lo sguardo concentrato su un enorme mazzo di chiavi lunghe e massicce. Con noncuranza sfoggiò un sorriso che vide solo il pavimento e salutò i nuovi ospiti «e benvenuti al Centro Pellame Rambaldi, sede Sardegna».

Questo racconto si ispira alla reale condizione disumana, denunciata da Irene Testa, nella quale sono costretti a vivere esseri umani innocenti, imprigionati nel Centro di Permanenza per i Rimpatri di Macomer.

La testimonianza di Irene Testa dovrebbe essere ascoltata da tutti: https://www.radioradicale.it/scheda/734645/la-drammatica-situazione-nel-cpr-di-macomer-nuoro-collegamento-con-irene-testa

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