28 Lug Sylvia Plath. Come un’ape regina
di Ivana Margarese
“La scienza, nella sua manifestazione peggiore, nelle sue ricerche e nei progressi, è la grande scombinatrice del cosmo. Questa prospettiva su Plath è un’esplorazione per avvicinarsi a tale esperienza di caos, inoltre possiamo ritenere che la poesia di Plath, in particolare i fondamentali testi di Ariel, segnino un picco che mette nero su bianco questo smarrimento. Plath può essere vista non soltanto come una poeta della depressione del suicidio – questione peraltro complessa – ma come una delle grandi poete in ascolto della sofferenza del mondo naturale”.
Così scrive il poeta inglese Sean Borodale nel suo saggio Re-Dreaming Sylvia Plath sa a Queen Bee tradotto di recente in Italia da Francesca Nardi e Antonia Santopietro, per Zest edizioni sostenibili, col titolo Sylvia Plath. Come un’ape regina, con una nota introduttiva di Francesca Matteoni.
Borodale in questo lavoro mette in rapporto l’opera di Sylvia Plath con la figura paterna e in particolare con la professione del padre, Otto, entomologo e apicoltore, interessato ai bombi e alle loro abitudini comunitarie, concentrandosi sul nesso tra scienza e poesia : “ Ho iniziato a leggere Plath e ad appassionarmi ai suoi testi come apicoltore e, contemporaneamente come poeta. È strano ma le mie prime api e la loro regina sono morte il 10 febbraio, la vigilia dell’anniversario del suicidio di Plath, così l’immagine della mia ultima regina mi ha spinto a scrivere questo omaggio alla poeta, come se l’una rivivesse un po’ nell’altra”.
La proposta dell’autore è di provare a immaginare un’influenza del lavoro di Otto Plath sulle api nella vita creativa della figlia. È importante ricordare come la poeta perse il padre a soli otto anni e come questa esperienza profondamente dolorosa abbia segnato la sua intera breve esistenza.
Sylvia Plath muore a soli trent’anni, l’11 febbraio 1963, mettendo la testa nel forno, su un panno ben piegato, inalando gas.
Borodale guida i lettori alla scoperta di nuove connessioni attraverso un processo di disincastri, che procede districando qualcosa che appare ingarbugliato e confuso, ma interrelato, e dischiude con dovizia di particolari una visione dell’opera di Plath che supera la dicotomia fra arte e scienza, mostrando come sia fecondo il dialogo tra le due discipline. In questo l’autore si inserisce in un filone che già da alcuni anni studia la relazione letteratura e scienza e tra letteratura e ambiente.
Già Walter Benjamin ne L’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica affermava che la funzione sociale determinante dell’arte di oggi è la pratica di un gioco combinato fra natura e umanità. Negli anni Novanta del Novecento si è diffuso un approccio ecocritico, che si potrebbe definire in parole povere lo studio della relazione tra la letteratura e l’ambiente fisico. Gli ecocritici fanno domande come le seguenti: Com’è la natura rappresentata in questo sonetto? Quale ruolo ricopre lo scenario naturale nella trama di questo racconto? I valori espressi in questo dramma sono in accordo con il sapere ecologico?
Borodale adotta dunque uno sguardo ecocritico e ecologico nella sua indagine sugli accordi tra la poesia di Plath e il mondo delle api. Sottolinea come la poeta mostri una particolare sensibilità per i fiori ed è come se “ le sue poesie nascessero da frammenti di nidi, dai suoi vasi di miele, dalle sue larve, dai suoi voli, dai suoi canti di accoppiamento e di lotta, allo stesso modo del padre che tirava fuori dalla terra le api in letargo, scavando per arrivare a conoscere quelle esistenze nascoste”.
Nel saggio si mette in evidenza anche come la memoria privata si intrecci con la memoria collettiva e come Plath definisse se stessa una poetessa politica: “Penso che l’esperienza personale non dovrebbe essere una sorta di scatola chiusa e di specchio narcisistico. Credo che in generale dovrebbe essere tenuta in conto, per cose come Hiroshima e Dachao e così via” ( intervista con Peter Orr, 1962).
La condizione di sofferenza degli esseri viventi non può essere considerata attraverso compartimenti stagni anzi viene affermata una connessione profonda tra la sofferenza del corpo, la violenza contro la comunità e la profanazione di ciò che è sacro e vorrebbe potersi manifestare liberamente, senza costrizioni o tecniche di controllo da parte degli esseri umani.
Scrive magistralmente Matteoni nell’introduzione: “Ogni sguardo radicalmente ecologico e poetico: illumina la conoscenza tramite il potere immaginifico, fa della biografia una mappa per la terra ignota che abitiamo, e soprattutto piega il linguaggio poiché le lingue dei muti, ovvero di coloro che la scienza semplicemente osserva, siano ricreate nell’umano.
Plath portò questo sguardo all’estrema conseguenza: impossibilitata nella prima vita dell’ordine scientifico e delle regole sociali, dei sentimenti traditi, dell’altro amato che sfugge e scompare, lasciò esplodere la seconda, potentissima, della scrittura, sciamandone i versi per raggiungere il centro perfetto della regina-il miele che stilla dal buio”.
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