Sbarbaro

Appunti su Camillo Sbarbaro.

di Manuel Omar Triscari

 

 

DESERTO E FRANTUMATO: IL MONDO DI CAMILLO SBARBARO.

Nell’opera di Camillo Sbarbaro (nato in Santa Margherita Ligure nel 1888 e morto in Savona nel 1967) trova definitivo compimento la crisi del linguaggio poetico tradizionale e del poeta quale depositario di verità supreme e custode di modelli intellettuali immutabili.

Sbarbaro visse con grande coerenza sempre appartato rispetto al mondo letterario in un semplice e solitario spazio privato abitato solo da pochi intimi amici (vivissima la sua amicizia con Angelo Barile poeta ligure di non trascurabile valore e con Eugenio Montale) tra Genova e la Riviera di Ponente con impieghi saltuari e precari nell’industria, attività di traduzione e lezioni private collaborando parallelamente a varie riviste (negli anni ’20 ebbe un essenziale rapporto con “La voce” e “La riviera ligure”). Dal 1955 si stabilì con la sorella in Spotorno e fu collezionista ed esperto di fama internazionale in muschi e licheni su cui compose vari opuscoli scientifici alla ricerca dei quali esplorò l’entroterra ligure.

La sua poesia, che dopo il libretto di esordio “Resine” (1911) successivamente rifiutato dal poeta si rivela appieno nella raccolta “Pianissimo” del 1914, dà voce a una condizione di indifferenza e aridità che in parte ricorda i Crepuscolari e Gozzano; tuttavia Sbarbaro è lontano dal repertorio di immagini e dall’ironia dei Crepuscolari, e si riallaccia piuttosto alla recente tradizione ligure incarnata da Roccatagliata Ceccardi e Boine, mirando piuttosto a scarificare la parola e ridurre la rappresentazione della realtà all’essenziale. Questa ricerca conduce alla constatazione dello stato di vuoto che domina il mondo e il soggetto, costretto ad abitare il nulla. <<Spaesato e stupefatto Sbarbaro passa tra gli uomini che non comprende, tra la vita che lo sopravanza e gli sfugge>> dice di lui Montale: ello cammina in mezzo alle cose <<come un sonnambulo>>. A tratti sembra venirgli incontro qualche possibilità di emozione, qualche improvviso barlume di vitalità, che subito ricade nel vuoto, in una esistenza priva di eventi, poiché <<il mondo è un grande / deserto>> dove non si può fare altro che contemplare la propria arida esistenza, asciutta e ridotta all’osso: <<Nel deserto / io guardo con asciutti occhi me stesso>> dice.

Con un verso dal ritmo stanco che a ogni momento si costringe a rinunciare a una spinta interna alla musicalità e alla dolcezza, la sua poesia attraversa frammentari momenti della vita urbana (catturata nei vicoli più oscuri della città, tra fumosi interni di caffè e osterie, vicoli equivoci, figure di solitari e di emarginati) e sembra voler portare l’io indifferente a perdersi in mezzo alle esperienze più degradate e confuse e distorte delle vie cittadine. In una specie di odissea di dimensioni ridottissime, l’io mira a privarsi di sé stesso (<<io non sono più io, io sono un altro>> dice il poeta) seguendo i modelli del maledettismo francese (in primo luogo Rimbaud) ma rinunciando del tutto allo spirito eroico e ribelle che caratterizzava quella poesia.

A “Pianissimo” seguirono pochi altri versi, dalla misura più distesa, rivolti in primo luogo a fissare le immagini del paesaggio ligure e raccolti solo nel 1955 in “Rimanenze”, dove spiccano per intensità d’ispirazione e novità i “Versi a Dina”, poesie d’amore di delicata essenzialità.

Sbarbaro si rivolse poi alla prosa, con l’elaborazione di brevi testi che rivelano la misura originale del suo linguaggio e la sua personale cifra stilistica: la prima raccolta, con il titolo “Trucioli (1914-1918)” apparve nel 1920 e ad essa seguirono altre (“Liquidazione” nel 1928, “Fuochi fatui” nel 1956, “Scampoli” nel 1960, “Gocce” nel 1963, “Quisquilie” nel 1967), i cui titoli sempre sottolineavano il carattere minimale, marginale, residuale, provvisorio e frammentario di quella scrittura, fatta di periodi brevi ed elementari che definiscono la realtà nei suoi contorni più secchi ed essenziali liberandola da ogni significato superiore o segreto, in una levigata concretezza da cui sprigiona a tratti una immobile e fulminante crudeltà.

In “Trucioli” in particolare il mondo si presenta come un <<susseguirsi di figure e di immagini discontinue, prive di causalità o temporalità o prospettiva o punto di vista.>> (Giorgio Barberi Squarotti): periodi brevi ed elementari definiscono la realtà al grado zero cioè nei suoi contorni più secchi, liberandola da ogni effetto o significato superiore o segreto, in una levigata concretezza da cui sprigiona a tratti una immobile e fulminante crudeltà. Andando avanti negli anni, questi frammenti sembrano appianare le loro punte più aspre e penetranti: si accumulano con la tranquilla metodicità del collezionista, acquistano una misura ancora più pacata, si addolciscono a tratti in un tenue classicismo (originato da soprassalti di acre e lucido disinganno), nel riconoscere la realtà come fissata da sempre in un ordine sicuro e stabile, ma comunque inspiegabile.

 

 

DA SBARBARO A DE ANDRÈ: IL FASCINO DISCRETO DELLA MARGINALITÀ.

È davvero possibile rintracciare alcune corrispondenze che rendano questi due autori, in apparenza così lontani nel tempo e nei loro ambiti artistici, vicini e conseguenti? Certamente quando Sbarbaro scrive la sua raccolta fondamentale, “Pianissimo”, conosce bene e ama il panorama della nuova poesia francese, così innovativa e dirompente, e soprattutto quel Baudelaire che gli offre già uno scenario entro cui sviluppare la sua esplorazione poetica: quello della città moderna, luogo invivibile dove l’uomo è relegato a una vita triste e alienata, mentre all’artista non resta che una strada accidentata, da ‘maudit’. Non è certo una poesia oggettivista quella di Sbarbaro, bensì fortemente improntata sulla soggettività dell’artista, tuttavia la scelta di Sbarbaro è quella di una soggettività debole, defilata, marginale, lontana anni luce da quella dannunziana, come già chiarisce la lirica di apertura del libro, <<La vicenda di gioia e di dolore / non ci tocca. Perduto ha la voce / la sirena del mondo / e il mondo è un grande / deserto.>> (da “Taci, anima mia”), volutamente posta in contrapposizione ai celebri versi del Vate <<o Diversità, sirena / del mondo, io son colui che t’ama>>. Prostitute e ubriachi diventano nel libro i suoi interlocutori più veri <<Rasento le miriadi degli esseri / sigillati in se stessi come tombe. / E batto a porte sconosciute, salgo / scale consunte da generazioni. / La femmina che aspetta sulla porta / l’ubriaco che rece contro il muro / guardo con occhi di fraternità.>> (da “Nel mio povero sangue qualche volta”).

La celebrazione dell’osteria come luogo familiare contrapposto alla spersonalizzazione della città moderna è ben presente nei suoi versi: <<Attaccare discorso con chi capita / vicino; a chi sorride / sorridere; voler a tutti bene; / scantonato dal tempo e dallo Spazio, / guardare il mondo come un padreterno. / E uscire dalla bettola leggero / come la mongolfiera che s’invola>> (da “Lettera dall’osteria”); così come il senso di fratellanza con le femmine perdute: <<Tu sei la mia sorella di quest’ora. / Accompagnarti in qualche osteria / di bassoporto / e guardarti mangiare avidamente. / E coricarmi senza desiderio / nel tuo letto>> (da “Magra dagli occhi lustri”).

Altrettanto certamente quando De Andrè compone i suoi primi album, conosce e ama il panorama autoriale francofono e le figure di Jack Brel, George Brassens e Boris Vian che gli danno modo di importare in Italia una nuova sensibilità artistica basata sulla scelta di temi forti, quali la quotidianità, specie quella dei più marginali, dei più reietti, lontana dal gusto mainstream della canzonetta italiana tutta amore, papaveri e papere di allora.

Anche in De Andrè le cattive abitudini delle osterie e della vita da bassifondi trovano un parziale riscatto e ‘santificazione’ come ad esempio nel brano “La città vecchia”: <<Una gamba qua, una gamba là, gonfi di vino / Quattro pensionati mezzo avvelenati al tavolino / Li troverai là col tempo che fa estate e inverno / A stratracannare, a stramaledir le donne, il tempo ed il governo>> o la celebrazione del mondo della prostituzione come contraltare del perbenismo e della falsità borghese, che Faber ha declinato in svariate canzoni, di cui mi piace qui ricordare il testo (infedelmente tradotto da una canzone di Cohen) di Nancy <<Ma – cosa fai domani? – / Non lo chiese mai a nessuno / S’innamorò di tutti noi / Non proprio di qualcuno / Non solo di qualcuno>>.

Un’ultima corrispondenza che è possibile rintracciare in entrambe le figure è quella della scelta di vita finale: come Sbarbaro ebbe bisogno di un suo approdo ad un luogo più intimo e appartato, la sua Spotorno, così De Andrè ebbe a un certo punto la necessità del suo buen retiro in Sardegna, quasi a suggellare per entrambi il definitivo distacco dal caos mondano e dalla dinamica della vita di città.

 

 

L’ENDECASILLABO UMILIATO: CARATTERI DELLA VERSIFICAZIONE DI CAMILLO SBARBARO.

Sergio Solmi una volta ebbe a definire, in modo più che acuto, l’endecasillabo di Sbarbaro come “endecasillabo umiliato” [Solmi, 1992, p. 303]. Ciò vale in ispecial modo per l’endecasillabo di “Pianissimo” [1914], sulla quale è principalmente condotta la qui presente indagine, ma anche per la tecnica versificatoria alla base della (esigua) produzione successiva. Rimane da vedere quali fatti tecnici e quali motivazioni creino le condizioni di questa ‘umiliazione’ prosastica.

Il primo e principale mi sembra essere l’assoluta prevalenza di endecasillabi con 3 accenti su quelli con 4. Rarissimi, poi, gli endecasillabi con 5 accenti, come <<l’aria, la luce, il fil d’erba, l’insetto>> [Sbarbaro, 1914, “Talor, mentre cammino solo al sole”, v. 4], complice l’enumerazione nella scansione così serrata del verso. Valga a illustrare tale evidenza la seguente ricognizione statistica (del tutto selettiva) sulla silloge “Pianissimo” (citata dall’edizione Garzanti del 1985, che è l’unica che mi è riuscito di reperire nella sciagurata biblioteca di Rio nell’Elba dove ho la ventura di vivere, ma controllando sistematicamente poiché la garzantina è, quanto a precisione, poco meno che scellerata): dei 16 endecasillabi di “Taci, anima stanca” 5 accolgono la scansione in 4 accenti, gli altri in 3 o 2 accenti; dei 32 endecasillabi di “Esco dalla lussuria” 1 verso reca 5 accenti, 7 recano 4 accenti, i rimanenti solo 3; in “Svegliandomi al mattino” solamente 4 dei 20 endecasillabi che compongono il testo contemplano la scansione in 4 ictus mentre i restanti 16 versi presentano 3 o 2 accenti; dei 23 endecasillabi di “A volte quando guardo” soltanto 4 portano 4 accenti mentre gli altri sono tutti scanditi da 3 accenti. Per quanto concerne la produzione successiva, valga un esempio su tutti: in “Voze” (da “Rimanenze”) solamente 1 dei 34 endecasillabi presenta scansione in 5 ictus contro 7 con 4 e 26 con 3 ictus.

Proporzioni a mio avviso schiaccianti. L’assoluta prevalenza dell’endecasillabo con 3 accenti non andrà naturalmente interpretata come segno di quella leggerezza e cantabilità del ritmo che è ad esempio insigne in Leopardi ma come indice della sprezzatura del verso da parte del poeta e della costante soggiacenza del parlato: in ogni caso dell’evidente scarsa propensione di Sbarbaro ai versi gravi (leggi anche: uniformemente scanditi) che impongono gioco-forza una lettura lenta e riflessiva e contemplativa, lontana dalla lingua viva, connotando in genere una forma di stile lirico elevato alla quale Sbarbaro non era avvezzo.

 

 

BIBLIOGRAFIA.

Sbarbaro, 1914 = Camillo Sbarbaro: “Pianissimo” (ed. or. La Voce, Firenze, 1914; ed. cit. Garzanti, Milano, 1985).

Sbarbaro, 1931 = Camillo Sbarbaro: “Versi a Dina” (ed. or. Circoli – Rivista di Poesia, Genova, 1931; poi confluita in Sbarbaro 1955; ed. cit. Garzanti, Milano, 1985).

Sbarbaro, 1955 = Camillo Sbarbaro: “Rimanenze” (ed. or. Scheiwiller, Milano, 1955; ed. cit. Garzanti, Milano, 1985).

Sbarbaro, 1985 = Camillo Sbarbaro: “L’opera in versi e in prosa” (Garzanti, Milano, 1985).

Solmi, 1992 = Sergio Solmi: “La letteratura italiana contemporanea. Vol. 1.” (Adelphi, Milano, 1992).

 

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Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure, 1888 – Savona, 1967) fu poeta e narratore. Visse appartato in un semplice e solitario spazio privato, tra impieghi saltuari e precari, e fu collezionista ed esperto di fama internazionale in muschi e licheni. Nella sua opera trova definitivo compimento la crisi del linguaggio poetico tradizionale e della figura del poeta quale depositario di verità supreme e custode di modelli intellettuali immutabili.

Manuel Omar Triscari (Torino, 1989) è docente in discipline umanistiche, insegnante di sostegno ed educatore per l’infanzia. Saggista, poeta e narratore, collabora con le riviste letterarie NiedernGasse, Morel e Le Parole di Fedro e con i quotidiani Elba Report ed Elba Press. Autore prolifico, ha al proprio attivo diverse opere di saggistica, narrativa e poesia. “Il cuore della terra” (Rosabianca, Roma, 2021) è il suo ultimo libro.

 

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