Una luna sottile

Una luna sottile.

di Manuel Omar Triscari

ad Angela

 

Ero così contento ieri sera, la mia camera, il vecchio letto in legno e tutti gli oggetti della casa, le forchette e i coltelli, anche loro erano contenti ieri sera, perché presto saresti arrivata e allora sarebbe iniziata la festa, il dipinto del monaco e il manoscritto del finocchio Dario Bellezza in equilibrio sul proprio gioco al massacro, il bambolo e la sua lampa, i due amasi che allacciati stanno per gettarsi in mare, il piccolo rattratto rattorto ritratto del seme dell’uomo confitto nell’utero infantile, il tigre e il respiro del mare.

Le risa dei Malesi che stasera faranno una rappresentazione del teatro delle ombre nella corte dell’ermo mi giungono dalla strada, dall’orto e dal giardino, fanno la doccia con catini e brocche di diversa grandezza e ridono, cacciano ululati belluini poiché l’acqua è fredda e non c’è modo di scaldarla, gorgogliano e bisbigliano nel proprio incomprensibile idioma. Il manoscritto di Grazia Deledda, con le sue zampe di mosca e i suoi fini tratti nero-blu appena percettibili nei margini della spessa carta d’un tempo, guardandolo mi dà l’impressione che sia un libro millenario, senza fine, una bibbia.

Di tanto in tanto, passeggiando, faccio come te e afferro una parola che m’incanta, una nota, una virgola dall’aria, la colgo e subito la scrivo per non scordarla in un taccuino apposito, di un bellissimo verde-azzurro docile e tranquillo, che ormai porto sempre con me. Oggi vedo scritto in cielo «Ero una montagna.», annoto la frase e mi basta. No, continua: «Bagno termico, bagno termale, bagno nucleare, bagno d’orgogliosi, bagno di formiche, bagno di sangue, bagno di morte, bagno di notte…». Volevo venire a Jesi per abbracciarti ma non potevo per il maledetto lavoro ma poi ho deciso di fottermene del lavoro e sono partito lo stesso! Ho deciso così all’improvviso, mentre ero già sulla via del ritorno, ho premuto sull’acceleratore e mi sono ritrovato nella Marca.

Ricordo un grazioso piccolo elefante di pezza. Una volta un mio zio me ne portò uno dalla Thailandia, in legno grigio con la proboscide e le zampe completamente articolate, un pupo vero e proprio con tanto di fili che lo tenevano sospeso nel vuoto della sala grande quasi impraticabile per me piccolo, un oggetto sacro davanti al quale la gente in Thailandia s’inchina mentre a me non diceva niente.

Le lumie e le arance che abbiamo piantato e annaffiato regolarmente nel giardino saranno ormai diventati alberi, ma non posso più vederle dal mio banco come solevo fare poichè non vivo in Sicilia ormai da un bel po’ e mi sta bene: odio quel luogo. Vorrei fare una serie di fotografie a bottiglie d’inchiostro come quelle che vidi nello studio di una mia amica pittrice tempo fa ma non si trovano più bottiglie d’inchiostro, o almeno io non le trovo. Amo molto le bottiglie d’inchiostro del danzatore di morte e qui non c’è elettricità sufficiente per ricaricare il mio malandato rene destro che a volte s’inceppa.

Gl’incendi, i ladri, gli sbirri: con la malattia non ho più paura di nulla, né dei ladri, né degli sbirri né degli sgozzatori e degli assassini, non della tempesta la notte né dell’insolazione di giorno, né dei piccoli aerei traballanti, né delle piccole scie elicoidali che sorvolano l’isola di bruma e rimbalzano tra sterpi e macchie. Credo che non ho più paura della morte. La morte è come uno specchio: ci si abitua al proprio specchio e se ci si ritrova in uno specchio sconosciuto si vede altro. Lo sguardo degli altri fa sì che io senta me stesso un altro da quello che credevo di essere, e che senza dubbio esiste, un pezzo di merda che odia tutto e tutti e fatica ad alzarsi dal letto al mattino.

Ho scritto una lettera che è stata inviata per fax al cuore di centomila persone, è straordinario. Adesso sto scrivendo una nuova lettera a te. Ti scrivo anche se non vorrei. Ti penso anche se non vorrei. E sempre dalla mente ti cancello affinché libero possa rifarti nel cervello. Io sempre dagli occhi ti cancello affinchè libero possa rifarti nel cervello.

In città c’è l’ascensore, il taxi, il telefono, la metropolitana, il chiasso, l’inquinamento, l’acqua che scende calda o fredda dal rubinetto a seconda di come la si chiama, l’elettricità, il computatore e il futurismo. Qua pare esserci solo l’inchiostro e la pagina di carta, la macchina fotografica a rullino, le candele ed è duro persino fare la doccia, tenere un secchio pieno d’acqua, trasportarlo camminando fino alla valle per dondolarlo sulle diarree della valle. Ci sono scale un po’ troppo piccole per me, un limite alla mia possibilità di azione. Non smetto di misurare i miei limiti sotto lo sguardo degli altri terrorizzato dalla mancanza di coerenza e lealtà come lo sono gli altri davanti alla mia mancanza di abitudine e coesione. Vedi anche tu i brividi di sole della pergola e il riflesso sulla tovaglia bianca fiammata, i cibi preparati per quei benedetti Malesi che non si decidono ad arrivare, non mi lascio fotografare da anni, ma ora sorrido, un mio amico mi ha convinto a farmi fotografare e lo farò, va bene, sorriderò, di un sorriso che non è ancora proprio un sorriso ma una smorfia, deve fare un bell’effetto. Sorrido: ti basta? Sono abbastanza bello? Un tempo ero bellissimo, un tempo in cui tutto era bellezza e l’euforia dell’arrivo era più felice del sollievo della partenza e degli stridori dell’autorità e della rivolta stessa contro l’autorità.

È quando scrivo che mi sento più vivo. Le parole sono belle, le parole sono giuste, le parole sono vigorose. Ma sanno anche essere menzognere e questo mi disorienta. Addormentandomi ripenso sempre a quello che ho scritto durante la giornata: alcune frasi ritornano e mi sembrano incomplete, una descrizione potrebbe essere ancora più vera, più precisa, più asciutta, ci manca una certa parola, esito a rialzarmi per aggiungerla, mi fa proprio fatica, scendere dal letto, cercare nell’oscurità l’interruttore della luce attraverso il muro, strisciare s’un fianco fino al bordo del materasso per non sentire dolore al fianco come mi ha insegnato il medico, lasciar cadere dolcemente le gambe fino a che i piedi non incontrino la nuda terra, accendere la luce, aprire il computatore, cercare la pagina giusta del manoscritto giusto, perfezionare con un’aggiunta o una cancellatura la frase in questione. Ritroverò altrimenti domani la parola mancante? No! Dunque meglio farlo subito, anche se la stanchezza mi pesa le dita sui tasti.

Mi sono addormentato ieri sera nei rumori della festa che ha seguito con tumulto e strepito la rappresentazione del teatro delle ombre dei Malesi. Il puparo malese andava svelando le sue creature piatte di cuoio e legno finemente dipinte, con bastoni e molle, il re, sua figlia la principessa, lo spasimante, il cattivo, i pagliacci, gli arvoli, il palazzo, le scimmie, i lottatori, mentre io scivolavo dolcemente nel sonno. Le torce, i fotofori davanti al palco, sul drappo: i bamboli seduti in terra per vedere meglio lo spettacolo con il viso illuminato dalle ombre colorate vagavano davanti al telo bianco illuminato da una sola lampada a olio, passiando sulla pedana dove i musicisti indispettiti suonavano in turbante i loro tamburi sulfurei, i flauti e le arpe, mentre le ombre volteggiavano in cerchio e s’ingrandivano e si restringevano, scoccandosi frecce come strali di luna, maneggiate da un solitario maestro seduto con le gambe incrociate sotto la sua lampada a olio. Luna sottile, poi notte stellata e gentile, fresca e un po’ umida, ma la gente era troppo affascinata per curarsi del vento. Andavano e venivano, facendo due passi nella notte, fresca e leggera eppur luminosa e incandescente di ceri e lumi, per chiacchierare o contemplare il quadro che avevi appena terminato per l’altare, un cielo agitato dalle sue nubi, pazzo e inquietante come me.

Adesso il giorno declina assai ferinamente inclinando lentamente a questa nuova sera: ogni istante è stato una delizia assoluta: il risveglio molto tardivo, il sollievo di librare la vescica, il gusto amaro del prossimo turno di lavoro, l’orrore del danzatore di morte che mi ridà la vita, una colazione leggera di frutta e latticello, i momenti passati sotto la pergola, la lettura dei giornali, poi la scrittura, deliziosa, la visione dei giovani ragazzi che amano le giovani ragazze, i Malesi e tutte le altre cose inattese, come il pane spalmato di burro invece che di marmellata, e tutte le parole vive e anch’esse inattese, come gustare la zuppa buonissima o la doccia rapida a casa, il colpo di telefono a un’amica, la traversata del paese in macchina, un po’ di scrittura ancora, e ora la sera che scende lentamente, il silenzio e la pace, l’attesa della cena frugale ma sempre saporita nel buio di pece, il sonno che sarà tranquillo e profondo, il gorgoglio dei gechi che emettono un fruscìo di sonagli nelle cantine come in cima ai fili, due biglie che si urtano con rumore di ossa che strofinano, la muta dei cani del vecchio pazzo senza braccio laggiù nella valle che affamati urlano a morte tutte le sere alla stessa ora.

 

No Comments

Post A Comment