Il grado zero della realtà: studio congiunto su Camillo Sbarbaro.

a cura di Manuel Omar Triscari

 

NOTA PRELIMINARE.

In questo articolo si approfondiranno temi dell’opera letteraria e della figura umana e intellettuale di Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure, 1888 – Savona, 1967) già indagati in un precedente contributo (Appunti su Camillo Sbarbaro). Poeta, narratore e traduttore, Sbarbaro visse appartato in un semplice e solitario spazio privato, tra impieghi saltuari e precari, e fu collezionista ed esperto di fama internazionale in muschi e licheni. Nella sua opera trova definitivo compimento la crisi del linguaggio poetico tradizionale e della figura del poeta quale depositario di verità supreme e custode di modelli intellettuali immutabili.

Benchè l’impianto del qui presente contributo sia opera del curatore, la sua realizzazione è il frutto della collaborazione di altri studiosi, veri e propri coautori,  a ciascuno dei quali si deve la redazione di uno specifico paragrafo. In ordine alfabetico: Angela Anconetani Lioveri, Mauro Barbetti e Nerio Vespertin. Ultroneo precisare che come il merito delle particolari intuizioni spetta solo ed esclusivamente al singolo così la responsabilità di eventuali errori e imprecisioni è tutta del titolare del progetto.

 

DESERTO E FRANTUMATO: IL MONDO DI CAMILLO SBARBARO.

Nell’opera di Camillo Sbarbaro trova definitivo compimento la crisi del linguaggio poetico tradizionale e del poeta quale depositario di verità supreme e custode di modelli intellettuali immutabili.

Sbarbaro visse con grande coerenza sempre appartato rispetto al mondo letterario in un semplice e solitario spazio privato abitato solo da pochi intimi amici (vivissima la sua amicizia con Angelo Barile – poeta ligure di non trascurabile valore – e con Eugenio Montale) tra Genova e la Riviera di Ponente con impieghi saltuari e precari nell’industria, attività di traduzione e lezioni private collaborando parallelamente a varie riviste (negli anni ‘20 ebbe un essenziale rapporto con “La voce” e “La riviera ligure”). Dal 1955 si stabilì con la sorella in Spotorno e fu collezionista ed esperto di fama internazionale di muschi e licheni, su cui compose vari opuscoli scientifici alla ricerca dei quali esplorò l’entroterra ligure.

La sua poesia, che dopo il libretto di esordio “Resine” (1911) successivamente rifiutato dal poeta si rivela appieno nella raccolta “Pianissimo” del 1914, dà voce a una condizione di indifferenza e aridità che in parte ricorda i Crepuscolari e Gozzano; tuttavia Sbarbaro è lontano dal repertorio di immagini e dall’ironia dei Crepuscolari, e si riallaccia piuttosto alla recente tradizione ligure incarnata da Roccatagliata Ceccardi e Boine, mirando a scarificare la parola e ridurre la rappresentazione della realtà all’essenziale. Questa ricerca conduce alla constatazione dello stato di vuoto che domina il mondo e il soggetto, costretto ad abitare il nulla. <<Spaesato e stupefatto Sbarbaro passa tra gli uomini che non comprende, tra la vita che lo sopravanza e gli sfugge>> dice di lui Montale: ello cammina in mezzo alle cose <<come un sonnambulo>>. A tratti sembra venirgli incontro qualche possibilità di emozione, qualche improvviso barlume di vitalità, che subito ricade nel vuoto, in una esistenza priva di eventi, poichè <<il mondo è un grande / deserto>> dove non si può fare altro che contemplare la propria arida esistenza, asciutta e ridotta all’osso: <<Nel deserto / io guardo con asciutti occhi me stesso>> dice.

Con un verso dal ritmo stanco che a ogni momento si costringe a rinunciare a una spinta interna alla musicalità e alla dolcezza, la sua poesia attraversa frammentari momenti della vita urbana (catturata nei vicoli più oscuri della città, tra fumosi interni di caffè e osterie, vicoli equivoci, figure di solitari e di emarginati) e sembra voler portare l’io indifferente a perdersi in mezzo alle esperienze più degradate e confuse e distorte delle vie cittadine. In una specie di odissea di dimensioni ridottissime, l’io mira a privarsi di sé stesso (<<io non sono più io, io sono un altro>> dice il poeta) seguendo i modelli del maledettismo francese (in primo luogo Rimbaud) ma rinunciando del tutto allo spirito eroico e ribelle che caratterizzava quella poesia.

A “Pianissimo” seguirono pochi altri versi, dalla misura più distesa, rivolti in primo luogo a fissare le immagini del paesaggio ligure e raccolti solo nel 1955 in “Rimanenze”, dove spiccano per intensità d’ispirazione e novità i “Versi a Dina”, poesie d’amore di delicata essenzialità.

Sbarbaro si rivolse poi alla prosa, con l’elaborazione di brevi testi che rivelano la misura originale del suo linguaggio e la sua personale cifra stilistica: la prima raccolta, con il titolo “Trucioli (1914-1918)” apparve nel 1920 e ad essa seguirono altre (“Liquidazione” nel 1928, “Fuochi fatui” nel 1956, “Scampoli” nel 1960, “Gocce” nel 1963, “Quisquilie” nel 1967), i cui titoli sempre sottolineavano il carattere minimale, marginale, residuale, provvisorio e frammentario di quella scrittura, fatta di periodi brevi ed elementari che definiscono la realtà nei suoi contorni più secchi ed essenziali liberandola da ogni significato superiore o segreto, in una levigata concretezza da cui sprigiona a tratti una immobile e fulminante crudeltà.

In “Trucioli” in particolare il mondo si presenta come un <<susseguirsi di figure e di immagini discontinue, prive di causalità o temporalità o prospettiva o punto di vista.>> (Giorgio Barberi Squarotti): periodi brevi ed elementari definiscono la realtà al grado zero cioè nei suoi contorni più secchi, liberandola da ogni effetto o significato superiore o segreto, in una levigata concretezza da cui sprigiona a tratti una immobile e fulminante crudeltà. Andando avanti negli anni, questi frammenti sembrano appianare le loro punte più aspre e penetranti: si accumulano con la tranquilla metodicità del collezionista, acquistano una misura ancora più pacata, si addolciscono a tratti in un tenue classicismo (originato da soprassalti di acre e lucido disinganno), nel riconoscere la realtà come fissata da sempre in un ordine sicuro e stabile, ma comunque inspiegabile.

 

COMPAGNI DI FUGA: LA RICERCA COMUNE DI UNA VIA DI FUGA IN SBARBARO E CAMPANA.

Parlando di frattura fra il verso del poeta e quello della tradizione del primo Novecento, è interessante studiare le analogie fra Sbarbaro e un’altra figura del suo tempo. Collega di collaborazioni nella rivista La Voce, Dino Campana sembra porsi in contrapposizione diretta, per la peculiarità del suo carattere tumultuoso, così diverso da quello posato e dimesso del poeta ligure. Tentare un confronto conciliatorio fra i due sembrerebbe impossibile, anche e soprattutto in virtù delle stesse parole che Sbarbaro concesse a Campana, nel corso di un tumultuoso incontro avvenuto a Genova, nel 1921 e pubblicato dallo stesso in “Sproloqui d’estate” [Sbarbaro, 1921]: qui il poeta di Marradi appare come molto agitato, quasi sprezzante nei confronti dell’altro, presentando già i sintomi del malessere psichico che l’avrebbe perseguitato fino alla morte. Eppure, nonostante le differenze caratteriali, nella lettura attenta e appassionata delle loro opere è possibile scoprire un’insospettabile linea comune. Come la passione per i panorami liguri e in particolare per Genova (da Campana definita come ‘città mito’). O come il comune rifiuto di una qualunque forma di superiorità morale o intellettuale nella figura del poeta, non più visto come portatore di verità universali, quanto di un punto di vista critico e distaccato. Ecco, dunque la ragione per cui il verso dei due poeti attui, rispettivamente con le dovute differenze, un uguale ricerca per un luogo di rinascita e contemplazione: per Sbarbaro il deserto, per Campana il sogno o l’allucinazione. In questo locum invisibile, lontano da tutto, entrambi i poeti esplorano quel crescente senso di solitudine e alienazione che le trasformazioni del primo Novecento avevano provocato nella cultura italiana, che ancora troppo legata a canoni classici, non era riuscita a emergere. Sbarbaro, con la sua raccolta “Pianissimo”, esprime tale disagio in modo pacato e sommesso, ponendosi ai margini della società, mentre Campana, nei suoi “Canti Orfici” [Campana, 1914], si posiziona addirittura ai margini della realtà lucida. In questa fuga ideale, la natura si propone come transfert principale per attuare il rifiuto e la sublimazione del sé: Sbarbaro, fissandola ora nei paesaggi cari, con sensibilità pascoliana; Campana, trasfigurandola come sfondo di sogni e rappresentazioni simboliche. Per entrambi il distacco dalla metrica tradizionale diviene quasi inevitabile: il verso classico, percepito come un ostacolo alla trasmissione fedele del pensiero, si trasforma in sintassi ipotattica, ricca di enjambements per Sbarbaro. In Campana, vittima di visioni tumultuose e oscure, il canone metrico soccombe completamente, a favore di versi irregolari, con ripetizioni frequenti e spogli di qualsiasi convenzione lirica.

È in questo senso, dunque, che è possibile scorgere in poeti così diversi, la linea quell’intento comune che la rivista “La Voce”, per cui entrambi collaborarono, raccoglieva nelle proprie pubblicazioni: la volontà di compiere un rinnovamento profondo della poetica italiana, superando e a tratti confondendo il confine fra prosa e poesia.

Nerio Vespertin

 

DA SBARBARO A DE ANDRÈ: IL FASCINO DISCRETO DELLA MARGINALITÀ.

È davvero possibile rintracciare alcune corrispondenze che rendano questi due autori, in apparenza così lontani nel tempo e nei loro ambiti artistici, vicini e conseguenti?

Certamente quando Sbarbaro scrive la sua raccolta fondamentale, “Pianissimo”, conosce bene e ama il panorama della nuova poesia francese, così innovativa e dirompente, e soprattutto quel Baudelaire che gli offre già uno scenario entro cui sviluppare la sua esplorazione poetica: quello della città moderna, luogo invivibile dove l’uomo è relegato a una vita triste e alienata, mentre all’artista non resta che una strada accidentata, da ‘maudit’. Non è certo una poesia oggettivista quella di Sbarbaro, bensì fortemente improntata sulla soggettività dell’artista, tuttavia la scelta di Sbarbaro è quella di una soggettività debole, defilata, marginale, lontana anni luce da quella dannunziana, come già chiarisce la lirica di apertura del libro, <<La vicenda di gioia e di dolore / non ci tocca. Perduto ha la voce / la sirena del mondo / e il mondo è un grande / deserto.>> (da “Taci, anima mia”), volutamente posta in contrapposizione ai celebri versi del Vate <<o Diversità, sirena / del mondo, io son colui che t’ama>>. Prostitute e ubriachi diventano nel libro i suoi interlocutori più veri <<Rasento le miriadi degli esseri / sigillati in se stessi come tombe. / E batto a porte sconosciute, salgo / scale consunte da generazioni. / La femmina che aspetta sulla porta / l’ubriaco che rece contro il muro / guardo con occhi di fraternità.>> (da “Nel mio povero sangue qualche volta”).

La celebrazione dell’osteria come luogo familiare contrapposto alla spersonalizzazione della città moderna è ben presente nei suoi versi: <<Attaccare discorso con chi capita / vicino; a chi sorride / sorridere; voler a tutti bene; / scantonato dal tempo e dallo Spazio, / guardare il mondo come un padreterno. / E uscire dalla bettola leggero / come la mongolfiera che s’invola>> (da “Lettera dall’osteria”); così come il senso di fratellanza con le femmine perdute: <<Tu sei la mia sorella di quest’ora. / Accompagnarti in qualche osteria / di bassoporto / e guardarti mangiare avidamente. / E coricarmi senza desiderio / nel tuo letto…>> (da “Magra dagli occhi lustri”).

Altrettanto certamente quando De Andrè compone i suoi primi album, conosce e ama il panorama autoriale francofono e le figure di Jack Brel, George Brassens e Boris Vian che gli danno modo di importare in Italia una nuova sensibilità artistica basata sulla scelta di temi forti, quali la quotidianità, specie quella dei più marginali, dei più reietti, lontana dal gusto mainstream della canzonetta italiana tutta amore, papaveri e papere di allora.

Anche in De Andrè le cattive abitudini delle osterie e della vita da bassifondi trovano un parziale riscatto e ‘santificazione’ come ad esempio nel brano “La città vecchia”: <<Una gamba qua, una gamba là, gonfi di vino / Quattro pensionati mezzo avvelenati al tavolino / Li troverai là col tempo che fa estate e inverno / A stratracannare, a stramaledir le donne, il tempo ed il governo>> o la celebrazione del mondo della prostituzione come contraltare del perbenismo e della falsità borghese, che Faber ha declinato in svariate canzoni, di cui mi piace qui ricordare il testo (infedelmente tradotto da una canzone di Cohen) di Nancy <<Ma – cosa fai domani? – / Non lo chiese mai a nessuno / S’innamorò di tutti noi / Non proprio di qualcuno / Non solo di qualcuno>>.

Un’ultima corrispondenza che è possibile rintracciare in entrambe le figure è quella della scelta di vita finale: come Sbarbaro ebbe bisogno di un suo approdo ad un luogo più intimo e appartato, la sua Spotorno, così De Andrè ebbe a un certo punto la necessità del suo buen retiro in Sardegna, quasi a suggellare per entrambi il definitivo distacco dal caos mondano e dalla dinamica della vita di città.

Mauro Barbetti

 

ECHI BAUDELAIRIANI E FUGA LEOPARDIANA DAL MONDO IN “PIANISSIMO” DI SBARBARO.

Sono stanco di aspettare, eppure di andare mi incamminerei per qualunque via, ma poiché non vedo e non spero, dopo i tentativi inutili di aver mandato scritture agli amici fiorentini, perché li pubblicassero, mi accascio su me stesso. E allora da questa vita così magra, strappo i piaceri più amari e miserabili con la rabbia con cui un amante povero morde e accarezza il seno martirizzato di una prostituta. Sono sincero dopo le ore di creazione, così rare e seguite da nausee e aridità, io non vedo splendere nella mia vita che le ore della ubriachezza e i cinque minuti con le piccole prostitute spaventate.

Simili parole potrebbero esser state firmate anche da Baudelaire, della cui poetica rievocano elementi propri quali la maschera da flâneur, la perdita dell’aureola, la dissoluta vita da artista bohémien e i “dolci languori e amari fremiti” delle Donne dannate o di un mondo marginale di ubriachi e mendicanti. Sono invece riflessioni private tratte da una lettera che Camillo Sbarbaro, appena 25enne, indirizza all’amico Angelo Barile nel 1913, già avvertendo addosso il peso di una vita vuota e l’angoscia derivante dalla reificazione del ruolo del poeta.

Baudelaire d’altronde rappresenta, insieme a Rimbaud, i crepuscolari e Leopardi, il paradigma contenutistico e lessicale prevalente nella produzione del poeta ligure, aspetto che emerge in particolar modo dalla raccolta “Pianissimo” (1914), tanto apprezzata dai critici Cecchi e Boine (quest’ultimo ne scrisse, su «La Riviera Ligure», “Una di quelle poesie su cui i letterati non sanno né possono dissertare a lungo, ma di cui si ricorderanno gli uomini nella vita loro per i millenni”): in Esco dalla lussuria Sbarbaro, come l’autore dei “Fiori del male”, girovaga di notte (“M’incammino/pei lastrici sonori nella notte”), osserva la città vuota, il paesaggio circostante si riflette nel suo stato d’animo (“A queste vie simmetriche e deserte/a queste case mute sono simile./Partecipo alla loro indifferenza,/alla loro immobilità”), in Taci, anima stanca di godere procede solo con la sua anima per strade spopolate (“Invece camminiamo,/camminiamo io e te come sonnambuli./E gli alberi son alberi, le case/sono case, le donne/che passano son donne, e tutto è quello/che è, soltanto quel che è”), in Talor, mentre cammino per le strade dipinge il negativo mito di una moltitudine muta e alienata, fatta di “creature della vita e del dolore” la cui transitoria esistenza fluisce anonima senza lasciar traccia, o assume l’aspetto del monotono vivere borghese (“Fronti calve di vecchi, inconsapevoli/occhi di bimbi, facce consuete/di nati a faticare e a riprodursi,/facce volpine stupide beate,/facce ambigue di preti, pitturate/facce di meretrici, entro il cervello/mi s’imprimono dolorosamente”). Tra i tòpoi baudelairiani non mancano nei versi di Sbarbaro le figure del sonnambulo e della bara, del poeta come di una sorta di cadavere vivente (“E, venuta la sera, nel mio letto/mi stendo lungo come in una bara”, da Taci, anima mia), ma anche del cieco che rivolge lo sguardo al cielo verso una realtà ulteriore seppur non consolatoria (“Mi trasformo nel cieco del crocicchio/che suona ritto gli occhi vaghi al cielo”, da Quando traverso la città la notte).

Si potrebbe dire che Baudelaire sia, per Sbarbaro, un modello di comportamento e stile di vita. Il poeta ligure avanza spaesato nella bohème genovese “tra la gente che m’urta e non mi vede” (da Taci, anima mia) perdendosi nelle vie dedaliche e in mezzo alla folla che non dissolve la sua solitudine. Un ottimo esempio di quanto teorizza Walter Benjamin sul poeta dello spleen e sulla “fuggitiva bellezza” – capace di generare un trasalimento del cuore – della sua passante (A una passante) nella moderna società capitalistica: “L’estasi del cittadino è un amore non tanto al primo, quanto all’ultimo sguardo. È un congedo per sempre che coincide, nella poesia, con l’attimo dell’incanto. Così il sonetto presenta lo schema di uno choc, anzi lo schema di una catastrofe” [Benjamin, 2012].

Eppure, in mezzo alla catastrofe, Camillo Sbarbaro appare più come un “maledetto a metà” per il quale il mondo ha perso disincanto, valore e attrattiva. In tal senso Paolo Zublena, in “La lingua di Pianissimo” [Zublena, 2009], considera Sbarbaro un connubio tra “un Leopardi di città e un Baudelaire di provincia”. Un poeta e un uomo che, sospeso tra baudelairiana dannazione (“la mia anima torbida che cerca/chi le somigli/trova te che sull’uscio aspetti gli uomini”, da Magra dagli occhi lustri) e appartata fuga leopardiana dal proprio tempo (“Mi seggo/tutto solo sul ciglio della strada,/guardo il misero mio angusto mondo/e carezzo con man che trema l’erba”, da Talor, mentre cammino solo al sole), prende coscienza della definitiva e ineluttabile perdita di un archetipico contatto col mondo naturale e dell’impossibilità di creare un rapporto armonioso col reale (Talora nell’arsura della via/un canto di cicale mi sorprende./E subito ecco m’empie la visione/di campagne prostrate nella luce…/E stupisco che ancora al mondo sian/gli alberi e l’acque,/tutte le cose buone della terra/che bastavano un giorno a smemorarmi”, incipit di Talora nell’arsura della via). Lo ha spiegato bene Lorenzo Polato nella sua introduzione all’edizione di “Pianissimo” da lui curata: “La poesia non poteva che darsi nell’orizzonte della negazione, di una crisi che la coinvolgeva direttamente, sottraendole la dimensione eroico-tragica della sfida che era stata di Leopardi, a causa della condizione borghese che appunto Baudelaire aveva annunciato e mostrato con la perdita dell’aureola e che Benjamin ha magistralmente descritto” [Polato, 1969].

Ben diverso è invece il tono sommesso e tendenzialmente prosastico di Sbarbaro (Sanguineti ha parlato a riguardo di un “intenso prosaismo morale”) da quello dei vociani, ai quali pure una certa parte della critica lo ha associato: “l’accostamento non regge soprattutto sul piano stilistico, poiché il tormento moralistico si esprime in Pianissimo, a differenza che nei vociani autentici, senza alcuna violenza linguistica esibita, semmai con una sorta di violenza silenziosa e soffocata, che si affida all’articolazione nudamente prosastica e anti-melodica del verso, principalmente dedotto, come già notava Cecchi, dai più spogli endecasillabi leopardiani” [Mengaldo, 1978]. L’esempio cui rifarsi è, ancora una volta, Leopardi. Dal recanatese Sbarbaro riprende l’endecasillabo, verso che gli permette, sebbene nel tono dimesso, di innalzare il carattere generale del discorso poetico. Una scelta stilistica che dichiara fedeltà e serietà alla parola scritta (la “sincerità dopo le ore di creazione” di cui scriveva nella lettera a Barile), quasi unica sorgente di felicità: “A noi che non abbiamo/altra felicità che di parole,/e non l’acceso fiocco e non la molta/speranza che fa grosso a quella il cuore,/se non è troppo chiedere, sia tolta/prima la vita di quel solo bene” (da La bambina che va sotto gli alberi).

Angela Anconetani Lioveri

 

L’ENDECASILLABO UMILIATO: CARATTERI DELLA VERSIFICAZIONE DI CAMILLO SBARBARO.

Sergio Solmi una volta ebbe a definire, in modo più che acuto, l’endecasillabo di Sbarbaro come “endecasillabo umiliato” [Solmi, 1992, p. 303]. Ciò vale in ispecial modo per l’endecasillabo di “Pianissimo” [1914], sulla quale è principalmente condotta la qui presente indagine, ma anche per la tecnica versificatoria alla base della (esigua) produzione successiva. Rimane da vedere quali fatti tecnici e quali motivazioni creino le condizioni di questa ‘umiliazione’ prosastica.

Il primo e principale mi sembra essere l’assoluta prevalenza di endecasillabi con 3 accenti su quelli con 4. Rarissimi, poi, gli endecasillabi con 5 accenti, come <<l’ària, la lùce, il fìl d’érba, l’insètto>> [Sbarbaro, 1914, “Talor, mentre cammino solo al sole”, v. 4], complice l’enumerazione nella scansione così serrata del verso. Valga a illustrare tale evidenza la seguente ricognizione statistica (del tutto selettiva) sulla silloge “Pianissimo” (citata dall’edizione Garzanti del 1985, che è l’unica che mi è riuscito di reperire nella sciagurata biblioteca di Rio nell’Elba dove ho la ventura di vivere, ma controllando sistematicamente poichè la garzantina è, quanto a precisione, poco meno che scellerata): dei 16 endecasillabi di “Taci, anima stanca” 5 accolgono la scansione in 4 accenti, gli altri in 3 o 2 accenti; dei 32 endecasillabi di “Esco dalla lussuria” 1 verso reca 5 accenti, 7 recano 4 accenti, i rimanenti solo 3; in “Svegliandomi al mattino” solamente 4 dei 20 endecasillabi che compongono il testo contemplano la scansione in 4 ictus mentre i restanti 16 versi presentano 3 o 2 accenti; dei 23 endecasillabi di “A volte quando guardo” soltanto 4 portano 4 accenti mentre gli altri sono tutti scanditi da 3 accenti. Per quanto concerne la produzione successiva, valga un esempio su tutti: in “Voze” (da “Rimanenze”) solamente 1 dei 34 endecasillabi presenta scansione in 5 ictus contro 7 con 4 e 26 con 3 ictus.

Proporzioni a mio avviso schiaccianti: l’assoluta prevalenza dell’endecasillabo con 3 accenti non andrà naturalmente interpretata come segno di quella leggerezza e cantabilità del ritmo che è ad esempio insigne in Leopardi ma come indice della sprezzatura del verso da parte del poeta e della costante soggiacenza del parlato: in ogni caso dell’evidente scarsa propensione di Sbarbaro ai versi gravi (leggi anche: uniformemente scanditi) che impongono gioco-forza una lettura lenta e riflessiva e contemplativa, lontana dalla lingua viva, connotando in genere una forma di stile lirico elevato alla quale Sbarbaro non era avvezzo.

Manuel Omar Triscari

 

BIBLIOGRAFIA.

Benjamin, 2012 = Walter Benjamin: “Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato.” (a cura di Giorgio Agamben, Barbara Chitussi e Clemens-Carl Härle; Neri Pozza, Milano, 2012-2015).

Campana, 1914 = Dino Campana: “Canti orfici” (Tipografia di Francesco Ravagli, Marradi – Firenze, 1914).

Mengaldo, 1978 = Pier Vincenzo Mengaldo: “Poeti italiani del Novecento” (Mondadori, Milano, 1978).

Polato, 1969 = Lorenzo Polato: “Sbarbaro” (La Nuova Italia, Firenze, 1969).

Sbarbaro, 1914 = Camillo Sbarbaro: “Pianissimo” (La Voce, Firenze, 1914).

Sbarbaro, 1921 = Camillo Sbarbaro: “Sproloquio d’estate” (Azione, Genova, giugno 1921).

Sbarbaro, 1931 = Camillo Sbarbaro: “Versi a Dina” (Circoli Rivista di Poesia, Genova, 1931; poi in Sbarbaro 1955).

Sbarbaro, 1955 = Camillo Sbarbaro: “Rimanenze” (ed. or. Scheiwiller, Milano, 1955).

Sbarbaro, 1985 = Camillo Sbarbaro: “L’opera in versi e in prosa” (Garzanti, Milano, 1985).

Solmi, 1992 = Sergio Solmi: “La letteratura italiana contemporanea. Vol. 1.” (Adelphi, Milano, 1992).

Zublena, 2009 = Paolo Zublena: “La lingua di Pianissimo” in “Camillo Sbarbaro in versi e in prosa. Atti del Convegno Nazionale di Studi (Spotorno 2007).” a cura di Davide Ferreri (Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova, 2009).

 

NOTE BIOGRAFICHE.

Angela Anconetani Lioveri è nata a Jesi (AN). Dopo la laurea in Filologia Moderna ha insegnato lingua italiana a persone migranti. È attualmente docente di lettere nella scuola secondaria di I grado e scrive articoli di cronaca e critica letteraria per quotidiani e riviste online. Ha pubblicato le sillogi poetiche “Le radici” (NullaDie, 2023) e “Solo orizzonte” (Controluna, 2024).

 

Mauro BarbettiMauro Barbetti è nato in Ancona e vive in Osimo (An). Scrive poesia. Insegna inglese nella scuola primaria.

 

 

 

Manuel Omar Triscari (Torino, 1989) è saggista, poeta e narratore. Vive appartato nell’isola d’Elba, dove lavora come insegnante di sostegno. Ha al proprio attivo diverse opere di saggistica, narrativa e poesia. “Misericordia” (Nulla Die, Piazza Armerina, 2024) è la sua ultima opera.

 

 

Nerio Vespertin è nato in Abruzzo nel settembre del 1981. Si dedica fin da giovanissimo alla poesia. Trasferitosi a Bologna per gli studi universitari, entra in contatto con il mondo delle associazioni studentesche, collaborando a collettivi di scrittura e poesia e a riviste underground. Nel 2010 rientra nella rosa dei finalisti del “Premio Teramo” con il racconto “Tritone”. Nel 2019 è vincitore del premio “Coop for words”, sezione “Racconti dello scontrino”. Dal 2015 al 2019 collabora con la community del Writer’s Dream, della quale cura il podcast e due raccolte di poesie. Nel 2022 entra a far parte della segreteria di Bologna in Lettere, festival multidisciplinare di cultura letteraria. Nello stesso anno vince la settima edizione del Premio Nazionale di Poesia “Una poesia per Giulia”, con la poesia “Un peccatore”. “Il turista” (Gattomerlino – Superstripes, Roma, 2024) è la sua ultima opera.

 

 

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