Mascolinità in gioco. Politiche della rappresentazione in Buzzati. In dialogo con Giulio Iacoli

 

a cura di Ivana Margarese

 

 

In Italia, a differenza di quanto avviene da tempo con gli studi sulle donne o con gli studi queer, il dibattito sulla mascolinità sembra per lo più assente o mostra un insieme generalizzato di ritardi e resistenze. Quali sono, alla luce anche di questo, gli elementi che ti hanno spinto a scrivere questo saggio?

Devo anzitutto confessare che l’inattualità degli studi sul maschile, la loro marginalità, o il fatto che non abbiano mai conseguito una piena cittadinanza fra i metodi di studio del testo letterario, nel nostro paese (e questo è quanto mai verificabile per quel che riguarda una disciplina come l’italianistica; molto più attenti all’argomento sono, per pensare a un ambito prossimo, le studiose e gli studiosi di cinema), ma anche la loro minorità effettiva tra gli studi di genere me li hanno resi particolarmente fascinosi, allettanti.
Ho provato, in occasione di un convegno francese su Buzzati di qualche anno fa, e in alcune lezioni di dottorato, ad applicare alcune nozioni di base, come la mascolinità egemonica teorizzata, in sociologia, da Raewyn Connell, ai personaggi e alla visione del mondo dell’autore. Mi è parso, ben presto, che per un autore in genere studiato da tutt’altre prospettive, lavorare sulle idee di mascolinità espresse dai suoi testi potesse schiudere risultati tutt’altro che scontati, portare in luce o viceversa rivedere ampie attestazioni tematiche e stilistiche sulle quali basare un’interpretazione teorica d’insieme.
In altre parole, un “minore”, un eterno incompreso ed escluso dal canone scolastico (in parte) e universitario come Buzzati funzionava bene a contatto con i metodi periferici, se si vuole provocatori, volti a destabilizzare le nostre certezze sul genere, come i masculinity studies.
Da un primo articolo teso a indagare lo spazio della mascolinità “in perdita”, fra Un amore e i racconti degli anni Sessanta, sono passato a espandere la ricerca al Deserto dei Tartari e ad altri luoghi buzzatiani: la monografia in progress è venuta incorporando al suo interno conferme alle prime ipotesi formulate, passi probanti, azzardi interpretativi e confronti reiterati con i fondamenti della critica su Buzzati.

Prendi le mosse da un interessante articolo di Ellen Nerenberg, del 2002, intitolato “Mascolinità al margine”, rimasto a tuo dire perlopiù inascoltato, che coglie nel Deserto i segni di una sfida, da parte di Buzzati, al «ritratto convenzionale della mascolinità del ventennio, caratterizzato generalmente come “attivo” e “virile”». Vorrei chiederti di cominciare attraverso queste riflessioni a parlare del tuo saggio e del rapporto con la rappresentazione virile nella cultura fascista, che ancora oggi, peraltro, si rivela tutt’altro che assente nell’immaginario del nostro paese.

La dimensione di classico, il suo non essere invecchiato che pochissimo, negli ottantaquattro anni che ci separano dalla sua comparsa, fanno sì che Il deserto dei Tartari non sia per noi solamente un romanzo suggestivo, costellato di immagini senza tempo e percorso da una riflessione sul senso dell’esistenza umana che da subito hanno interpellato la critica e i suoi primi lettori, ma serbi anche intatto un significato particolare, complesso e non privo di elementi a tutta prima leggibili come contraddittori: la vita militare, la milizia alla Fortezza Bastiani come cimento – frustrato, rinviato ad kalendas, contaminato con le ambizioni sbagliate, gli abusi di potere cui assiste Drogo, negli anni – con i concetti di gloria e onore virile, così caratteristici, certo, della cultura fascista.

Ma il romanzo, proprio grazie alle distinzioni sottili che opera fra i personaggi, le diverse tipologie maschili che inquadra, riesce bene a porre in luce la contrapposizione fondamentale tra il culto della disciplina militare fine a sé stesso, la mascolinità aggressiva, le prevaricazioni e gli arbitri perpetrati alla Fortezza, da un lato, distintivi della grossolana interpretazione del senso dell’onore militare data dalla cultura fascista, e il sentimento intatto, nobile e quasi puerile, della grande prova che attende l’ufficiale, incarnato da Drogo. Se più punti hanno consentito nel tempo interpretazioni anche in senso antimilitarista del romanzo (la morte di Lazzari, l’insensatezza delle operazioni di sorveglianza dell’orizzonte e delimitazione dei confini nazionali), credo che si possa inoltre scorgere al suo interno, in modo particolare con la vicenda funesta di Angustina, premonizione di quanto accadrà a fine romanzo a Drogo, una puntualizzazione compiuta dei supremi ideali, dell’“eleganza militare”, per citare un motivo caro all’autore lungo gli anni Trenta-Quaranta: un antidoto alla farsa chiassosa della virilità predicata e messa in atto, costantemente, dal fascismo (si pensi a come il sabato fascista culminasse, spesso e volentieri, nella visita trionfalistica al bordello), così antitetica rispetto a gusto e valori propri dell’altoborghese, rigoroso e ironico Buzzati.


Il tenente Angustina ne Il deserto dei Tartari si rivela come una figura inafferrabile, con una sessualità in aperto dissidio rispetto alla norma virile e militare del tempo. Emblematico in tal senso l’accanimento del capitano Monti verso di lui. Nel libro ne parli a lungo dando modo al lettore di comporre dei fotogrammi utili a una visione d’insieme che tuttavia, a mio parere, resta volutamente manchevole rispetto a una definizione risolutiva e mostra il fascino poliedrico e inestricabile di questo personaggio che non esiti a chiamare “personaggio-rebus”. Mi piacerebbe mi parlassi delle sue funzioni e del suo potenziale perturbante.

Mi fa piacere tornare su questa interpretazione, credo originale e particolarmente apprezzata dagli amici lettori e dalle recensioni che sinora ho potuto consultare, e sì: ho voluto lasciarla letteralmente aperta, provando a ricostruire il significato di Angustina per via di suggestioni, indizi, sottoponendo a un outing discreto, se è possibile tributare valore alcuno a un’espressione ossimorica di questo genere, i tratti sfuggenti di tale figura simbolica.

Un dato narrativo rilevante, ovvero il fatto che sia Monti che, a seguire, il narratore si rivolgano, nei propri pensieri, ad Angustina definendolo “maledetto snob”, sancisce la connotazione innegabilmente diversa, la connaturata superiorità del personaggio, non solo in quanto aristocratico. Angustina, nel suo pieno valore suggestivo di personaggio minore, rimane una X o un rebus per chi legge, in quanto Buzzati lo ha progettato in tal senso: portatore di una diversità caratteristica, fanaticamente rivolto al perseguimento di una morte eroica, anticipatore, si è detto, del destino di Drogo, è perennemente lontano dalle cose, dagli altri, dal desiderio verso le donne come dagli argomenti e dalle battutesemplici che animano i dialoghi tra gli altri ufficiali.

Lo scontro, nel capitolo XV, tra Monti e lui, evidenziato a partire dalla dimensione parlante dei loro nomi (forte e rodomonte il primo, stretto dalla malattia e inaccessibile il secondo), non solo adombra la contrapposizione fra classi popolari e aristocrazia, con un riflesso dell’avversione propria del fascismo per quest’ultima classe, avvertita come molle, svirilizzata, ma mette in scena altresì un contrasto specifico tra due diversi stili della mascolinità: tanto aggressiva, sbrigativa e suggellata dal costante ricorso a espressioni attinte al parlato appare quella di Monti, quanto intonata a una certa sprezzatura, paziente e inappuntabile, di una diversità olimpica, appunto, risulta quella di Angustina.

Mi preme, in conclusione, ricordare proprio quanto suggerivi tu stessa: il rilievo di questa figura minore e illuminante non sta solamente nelle sue azioni e nelle – misurate – parole che la narrazione gli riserva, quanto nel “panico omosessuale”, per riprendere la teorizzazione di Eve Sedgwick, nell’ansia per la (tutela della) propria virilità che è capace di infondere in un personaggio in apparenza granitico come Monti, e, per estensione, all’interno della Fortezza.

“Le «ragazzette» come Laide [o]stentavano la conoscenza delle sarte di lusso e dei grandissimi alberghi internazionali, raccontavano di frequentare i nights d’alto bordo, nei negozi erano incontentabili e altezzose, per la via camminavano col piglio sdegnoso di principesse irraggiungibili ma poi, per un biglietto da cinquemila, correvano trafelate a soddisfare, nell’alberghetto vicino alla stazione, la lussuria di un sensale cinquantenne, grasso e sudicio, che le trattava come serve”. Questo passo tratto da Un amore manifesta una lettura cinica e sprezzante da parte del protagonista della donna di cui è innamorato e di cui è in qualche modo vittima inerte. Nonostante ci una analisi attenta dei conflitti e allineamenti di genere e classe, il personaggio di Antonio Dorigo svela verso le donne un intento di oggettivazione, un retrostante male gaze. È chiuso, compiaciuto, oltre che incapace di una relazione alla pari con la sua Laide. Qual è il tuo ritratto di Antonio Dorigo?

Un amore è un punto di arrivo, nella costruzione della mascolinità del Buzzati narratore, ma anche un punto di osservazione ideale per ripensare alla sua opera, per cogliere come le ansie, i silenzi perturbanti, la debolezza costitutiva del personaggio maschile delle origini (penso a Barnabo delle montagne, in primo luogo) conducano necessariamente a sviluppi dolenti, alla tragica incompiutezza dell’esperienza del borghese Dorigo. Il quale sperimenta, nell’amore tematizzato dal titolo per la popolana, minorenne prostituta Laide, l’incontro con classe, genere, età fortemente differenziati, con le tentazioni di una Milano nascosta, contigua eppure distante le mille miglia dalla sua agiata posizione borghese.

Buzzati sembra opporre, nelle interviste come in dibattiti pubblici, una franca incomprensione rispetto al senso delle modificazioni introdotte dalla legge Merlin, un’incapacità di vedere la prostituzione per quella che è; eppure la sua controfigura narrativa, Antonio Dorigo, che effettivamente procede, nel romanzo, da una salda coscienza del personale potere economico che gli garantisce l’usufrutto di disponibili ninfette, entra, con l’innamoramento per Laide, in una salutare crisi di coscienza che è anche, significativamente, crisi della mascolinità. La gelosia che lo caratterizza, la paura dinanzi a possibili, più giovani pretendenti che si accostino a Laide, azionano sì in lui fantasie che combinano insieme piacere e dolore, ma si tramutano anche, in un modo oscuro che passa attraverso fantasticherie e sogni rivelatori, una forma di conoscenza traumatica della realtà sociale, e delle ragioni della giovinetta.

E tuttavia, va ricordato, Dorigo ci viene presentato in maniera dissonante sin dall’inizio, mentre fantastica, in ufficio, su di un rapporto sessuale nel quale si vede passivizzato, ovverosia nella posizione di dominato, non di dominante; a consolidare quest’immagine di mascolinità abnorme saranno i passi falsi costanti, le immagini macchiettistiche di innamorato blandito e turlupinato dalla scaltra giovinetta, il suo costante raffronto con tipi moderni, dinamici e prestanti, abili con i motori, ai quali va il favore della stessa Laide e delle altre, giovani e disponibili, “streghe della città”.

Tutti tratti, questi, che appaiono propri della contemporanea commedia del boom, della quale il romanzo è effettivamente per più spunti debitore, ma che nel romanzo si risolvono, come si diceva, nella coscienza tragica della passione immiserente, degli abissi della psiche dai quali Antonio non riesce a risalire. Sono toni cupi, questi, che rendono particolarmente complessa ed interessante la figura di stampo autobiografico cui l’autore dà forma, con l’inizio degli anni Sessanta, in parallelo ad altri personaggi-chiave del periodo, irrisolti e dolenti, quali l’Albino Saluggia di Memoriale di Volponi o il narratore del Male oscuro di Berto (romanzo, questo, molto apprezzato da Buzzati).

Anche la produzione teatrale di Buzzati è uno spazio per osservare le relazioni tra soggetti maschili e femminili, le loro crisi, le loro violenze. Quali sono gli elementi più rilevanti?

Laterale nella produzione di un autore già di suo laterale agli occhi degli storici della letteratura, il teatro buzzatiano è stato spesso letto come un corpus diseguale, di limitato interesse, nel quale si vengono riproponendo, in buona parte, spunti e intrecci propri della narrativa dell’autore, con un effetto di diluizione dei contenuti originali, di banalizzazione o quantomeno di ripetizione non troppo ispirata del modello narrativo.

Ora, ancorché effettivamente diseguali fra loro, i testi teatrali funzionano molto bene (penso a Un caso clinico, o a L’uomo che andrà in America) per mostrare, in maniera talora stilizzata ma anche aperta, puntuale, le ansie e le contrapposizioni  tra i soggetti in scena, il non trovarsi fra uomini e donne, tenendo traccia, in casi particolari, della lezione dei maestri (Pirandello) come del vento che spira, lungo gli anni Cinquanta e Sessanta, nel teatro europeo (gli angry young men).

In particolare, lavorare su una pièce poco studiata, mai rappresentata finché l’autore fu in vita, come Spogliarello, mi ha consentito di precisare una certa linea di studio “sociologico” dei personaggi da parte di Buzzati, il suo ritornare sulla figura della prostituta, con una capacità di aggredire le ipocrisie borghesi e la stessa scorza gretta e aggressiva della protagonista, con una violenza verbale di rado accennata da altri testi, che testimoniano, nell’autore, la cura e la schiettezza con la quale si pone in dialogo con personaggio e mondo rappresentati, nonché i richiami a un immaginario cinematografico contemporaneo (Adua e le compagne di Pietrangeli, la tradizione della prostituta dal cuore d’oro) che Buzzati mostra di conoscere bene, e che andrà indagato a fondo dalla critica in futuro, sperando di avere finalmente accesso, nel frattempo, ai suoi diari e a porzioni più ampie del suo epistolario.

Infine ti domando se stai lavorando a un altro testo su Buzzati. Grazie.

Con la collega Isotta Piazza stiamo assestando in questo momento gli ultimi occhi a un volume collettaneo, Sistema Buzzati. L’autore e le industrie culturali, che dovrebbe vedere la luce entro la fine di quest’anno nella collana “Quaderni di Arabeschi”, per le edizioni Duetredue di Carlentini. Al suo interno confluiscono saggi che inquadrano, da diverse prospettive, le questioni della visualità e dei canoni editoriali e scolastici, i diversi modimediante i quali Buzzati interagisce con la sfera dell’industria culturale, nella sua vita di giornalista-scrittore-pittore, di uomo, in altre parole, dalle molteplici vocazioni, come nella ricezione della sua opera.

Il mio contributo, che è anche l’ultimo, in ordine di tempo, che ho dedicato all’autore, riguarda una riflessione, tra stilistica e tematica, fra la narrativa e il Poema a fumetti, sull’immagine dell’afflosciarsi, sull’aggettivo ‘floscio’ e dintorni: sin dalle sue cronache africane, sin dai primi racconti e dal Deserto, Buzzati manifesta un penchant particolare per tale immagine, che si rivela duttile, pronta a trascolorare dalle (dominanti) impressioni disforiche, inquietanti o tragiche, a un suo uso comico, leggibile per esempio, in maniera indicativa, nel teatro.

Si tratta, ancora una volta, di piccole inquadrature, e di un’interpretazione d’insieme aperta; ma mi è parso un esercizio utile, questo, per cercare di ricostruire il modo squisitamente ironico con il quale Buzzati sentiva e rappresentava il mondo circostante, suggerendo una realtà – e soggetti, al suo interno – in apparenza integra ed efficiente, tesa come un pallone, pronta tuttavia a bucarsi e a svuotarsi, con un sibilo, per scivolare sul fondo.

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