“La rivoluzione, forse domani” di Rosa Mangini. In dialogo con Fabio Ivan Pigola

a cura di Ivana Margarese

 

Immagini di Angelo Morbelli

 

La rivoluzione, forse domani di Rosa Mangini è un libro ricco di suggestioni. La prima riguarda l’identità stessa dell’autrice che rimane misteriosa. Che idea ti sei fatto di lei?


Oltre a quella emersa in sette anni di studi, nei quali si è impegnata una quantità notevole di ricercatori, un’idea differente dal profilo tracciato sarebbe solo una mia visione opinabile e limitata. In primo luogo perché ho troppo rispetto del lavoro altrui, in seconda istanza l’amore per la Storia mi proibisce i ritratti edulcorati dalla fantasia. C’è già tutto nel romanzo e negli apparati critici a corredo: sull’identità potrei avanzare solo sensazioni approssimative e ottenebrate dal dubbio. Certo, il romanticismo è bello, ma se mi concedi l’umorismo, a differenza di tanti conterranei non ho la vocazione per le sceneggiature.
Identità di un popolo, invece, quanta se ne vuole, e ben definita: rustica, pratica, poetica e umanissima. Con tutta la grazia che abbiamo perduto. Mangini ci dipinge da autentica fattucchiera della letteratura: diretta, rapida, a colori decisi e corposi, come la spatola nelle libecciate di Fattori, e senza giocare con la semantica o con l’emotività riesce a provocare l’immaginario e soprattutto la coscienza.

In epigrafe al libro c’è uno splendido verso tratto da La rose publique di Paul Eluard: «Le persone felici a questo mondo/fanno un rumore di calamità». Da questa citazione possiamo comprendere che la scrittrice era una donna colta. Secondo te possiamo comprendere meglio anche qualcosa del contenuto del testo?

Direi quasi tutto. L’epigrafe sintetizza a meraviglia il peso della avventura, anzitutto umana, contenuta nell’opera. L’universo umano, in guerra o nei periodi di pace apparente nei quali il potere prepara di fatto nuove baruffe, angherie e crudeltà, è in larga parte incapace di gioire dell’armonia altrui, anche per questo dà al potere l’aiuto che ne legittima molte brutture. E lo fa con l’invidia, con la dietrologia, con il livore di chi rosica. Per questo la gente contenta, realizzata nel proprio spazio interiore, per costoro è una calamità vera. Non è un caso che la terra promessa rimanga una chimera in ogni epoca: nessuna società si regge in piedi se la libertà dello spirito non è un orizzonte condiviso, una fede, bensì un alibi.
L’autrice, per agevolare la comprensione, non riveste di dottrina il romanzo e nemmeno va per le lunghe: sa, da donna acculturata, che mai come quando si parla tanto di dialogo i silenzi sono ostinati. Per di più dai luoghi alle vicende vissute, ogni pertugio, ogni fatto e ogni figura sono esistiti, accaduti nella realtà. Lei ha variato appena un pugno di nomi (e cognomi, per essere preciso), celandoli dietro a nickname che alla lunga agli studiosi hanno rivelato. Il contenuto inoltre è bello che comunichi qualcosa in rapporto ai vari piani di lettura e di suggestione, ma comunque attinga alla sensibilità individuale. Se ho detto una banalità indegna dell’unico documento che testimonia, in tempo reale, con una precisione da entomologi, gli umori da cui nacque la Resistenza, mi auguro valga l’attenuante della buona fede.


C’è nel libro una grande attenzione ai luoghi, ai paesaggi, alla natura e ai suoi cicli; un descrivere un tempo più paziente e capace di attesa rispetto al nostro tempo contemporaneo che appiattisce il desiderio nel consumo, spesso frettoloso e disattento. Mi piacerebbe una tua riflessione in merito.

Luoghi, paesaggi e natura sono centrali, nel narrato. È da quegli scorci che veniamo, e nulla andrebbe più tutelato. Purtroppo oggi conta solo un princìpio: fare presto. Nella fretta tutto va perduto: il piacere della brigata che tanta parte ha nell’opera, l’unione, la coesione sociale; la natura stessa rappresenta quel legame in modo straordinario, perché tutto in essa è collegato, anche il più piccolo degli insetti ha un ruolo per la continuità degli elementi. Flora e fauna per qualcuno sono metafore abusate, ma sono ciò di cui facciamo parte, e alla fine del quinto capitolo nonno Balossi fa un ragionamento alla giovane Melania che anticipa proprio l’impazienza del nostro tempo, lanciando in parallelo uno dei più lucidi e ahinoi profetici allarmi ambientali.

Ci insisto: l’ambiente rimanda a noi, all’unico animale che lo sfrutta e lo distrugge non per sopravvivere, né per vivere degnamente, ma solo per dare continuità alla liturgia del consumo, del guadagno privato. E privato vuole dire che non va a beneficio del pubblico, e la similitudine con il fascismo – allora politico, oggi commerciale – fa intuire come la democrazia sia una conquista ben lontana.

«Anche il lavoro, la patria, la libertà erano cose scritte e dette maiuscole. Ripensando al dialogo con il nonno, Melania prese due secchie e andò alla casa bassa ma bastevole della maestra, vi trovo i compagni di classe e si disse che no, alla Costa le maiuscole non sarebbero arrivate mai. Quanto è piccolo l’uomo di troppe maiuscole». Il nonno di Melania è un uomo semplice e saggio che osserva i cambiamenti del suo tempo senza illusioni altisonanti. Tutto il romanzo mi è parso un invito alla semplicità, non so se tu sei d’accordo.

D’accordissimo. Senza volerlo, poco fa ho anticipato l’argomento. L’uomo di troppe maiuscole non è solo il gerarca o il tesserato fedele al fascio, ma colui che mette davanti a tutti le proprie esigenze, trascurando e quindi calpestando uomini e valori. L’intera novella è un inno al pluralismo; quello vero, non l’imbroglio che propone inclusività, resilienza o sostenibilità come sedativi, e mentre ciancia di green taglia alberi, cementifica e compie ogni sorta di nefandezza contro quel mondo bastevole e pieno di incanto nel quale potremmo vivere, se non fossimo un popolo mai diventato civiltà.

C’è una frase che mi ha particolarmente colpita e che nascosta tra le pagine mi è parsa una chiave di lettura dell’intero libro: «La gente è diffidente verso le cose ovvie, dargliene di inverosimili è un’opportunità». Più avanti ne ho trovata un’altra che vorrei riportare: «La poesia non basta leggerla, devi saperla vedere». La letteratura a tuo parere ha ancora a che fare con l’utopia?

Certo. La letteratura deve trattare di utopia, e utopia quotidiana, concreta, dal momento in cui l’utopia è la parte realizzabile di ciò che non si vuole realizzare. O meglio, di ciò che le categorie delle quali parlano Mangini e i protagonisti dell’opera saprebbero – per indole e per maturità – mantenere, e che il potere e i suoi amministratori, i lacché e la massa di coloro che si adeguano vogliono frustrare per convenienza, per la finta beatitudine del quieto vivere e per tutte le viltà che vediamo anche oggi. Con una differenza: oggi le hanno rese istituzionali. «Inverosimili» come le parole chiave di cui dicevamo poc’anzi, perché fatte di confezione senza un contenuto. Ciò che dovrebbe avere, invece, la poesia: ecco perché l’autrice spiega che non basta leggerla ma c’è bisogno di vederla, cioè che sia tangibile, solida, applicata a una realtà capace di spogliarla dei lemmi furbastri, dei trabocchetti, degli inganni a scopo analgesico.

La visione è considerata dall’autrice necessaria anche per i sogni: «Ma come fai a sognare quei palazzi che ti girano attorno, che ti cadono addosso? Sarò una campagnola io, però la città l’ho veduta, l’ho provata e mi sentivo meno di una zanzara […] qua ci sei per tutti, là ci sei per pochi e magari anche lontani. È brutta la solitudine». Bisognerebbe al di là del culto del singolo immaginare nuovi modi di creare comunità e praticare attenzione. Qual è la tua esperienza in merito?

Oltre a quella di chi s’è reso conto dell’imbroglio di cui parlava già Seneca, dicendo che nulla ci invischia più in mali peggiori del copiare l’esempio di chi vive secondo la corrente anziché secondo la ragione? La passione per la satira rischia di farmi impastare parole pericolose. Hai guardato dall’alto una grande città, una metropoli? Non ti ha sbalordita la distesa impersonale e mortificante di palazzi, di costruzioni utili a depredare l’habitat di ciò che serve e innalzare templi all’inutile? E non accade il medesimo scempio negli agglomerati minori, dalle cittadine ai paesoni, dove ogni giorno spuntano un capannone, una logistica, un ecomostro in più, destinati ad essere dismessi prima dell’utilizzo? Scrive Mangini che la terra sulla quale costruisci una casa, che non è la casa di chi coltiva la terra (nel senso del contadino e pure dell’uomo che, pur avendo un altro mestiere, la rispetta senza violentarla), è terra morta. Ebbene: il grado di evoluzione di un popolo è inversamente proporzionale alla vergogna che ha di esibire le conquiste del capitalismo. Il quale è indice di idiozia poiché somma ferocia, frivolezza, aggressività e competizione.

Per immaginare forme efficaci di tutela della comunità, basterebbe prendere a modello la fetta di passato riportata non solo nella novella di Mangini e in tante altre, ma nella quantità d’esempi positivi offerti dai nostri antenati. Lo stereotipo per cui «si stava meglio quando si stava peggio» è impreciso: si stava meglio quando si stava meglio.

Il libro è anche un manifesto antifascista, un canto di resistenza tenace contro ogni dittatura e un invito alla fiducia nel futuro. Immagino che questi aspetti abbiano contribuito al tuo desiderio di pubblicarlo.

Altroché. Ma non è stata una decisione mia: mi consulto sempre con amici, colleghi e un ampio gruppo di conoscenti che stimo. Indubbiamente, da amante della Scuola di Francoforte, ci ho trovato una serie di temi intriganti, urgenti, contemporanei. Poco fa parlavo di combattere il falso progresso che riduce la libertà, lo spazio aperto dell’esistenza e aumenta la alienazione con la filosofia sociale dei nostri bisnonni, ed è l’unica strada percorribile: la rivoluzione culturale non è una decrescita felice, ma il ritorno ad essere umani. Un ritorno possibile solo liberandosi dagli agi controllati e dal mito di una produttività basata su sfruttamento biologico, imposizioni “soft” e violenza tecnologica.

L

L’ultima domanda che ti rivolgo riguarda le donne di questo testo, la giovane Melania innamorata di Michele, la Gina e tutte le altre. Ti ricordano donne che hai incontrato o hai immaginato di incontrare?

Difficile, almeno per me, leggere un romanzo senza figurarsi ogni profilo descritto: edifici, oggetti, voci, facce, caratteri, fisicità che sono materia istintuale elaborata da mille dejàvu e ricordi involontari, flash, carrellate, sequenze sedimentate nella memoria. A quelle presenze però do una personalità autonoma: lo devo alla realtà di carne e d’animo che hanno vissuto, e l’avrei fatto anche se fossero state donne di carta mai esistite. Chi prende corpo nella fantasia, quasi sempre lo prende anche dentro di noi. Il signor Mario Bordoni, nativo di Costa de’ Nobili e morto nel Duemilaventi, coetaneo di Melania (vero nome Maria) e di Vittoria, ne riferì anche l’aspetto, confermando le descrizioni nell’opera e confessando, con un sorriso dolce di malinconia, di avere subìto anch’egli il fascino delle gemelle. Gina potrebbe somigliare a molte altre Gine incontrate e conosciute, compresa una vicina di casa, ma ribadisco: nella mia interiorità resta indipendente e distinta da tutte, unica come chiunque di noi.

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