Fare Femminismo in dialogo con Giulia Siviero

a cura di Francesca Grispello.


Fare Femminismo
è un testo politico. Le donne sono un dato di fatto, esistono e questo loro esistere determina e ha determinato nodi pratici e teorici violenti ad opera di ciò che è di fatto l’egemonia patriarcale. C’è molta violenza in un testo così necessario e l’autrice, la giornalista e attivista Giulia Siviero in questo suo fare, mettere insieme e narrare del fare, apporta un contributo importante, filologico (possiede un ricco di un apparato bibliografico) e tratta ogni fase dei vari temi affrontati con amore.
Amore sì, un controcanto esatto alla incessante violenza conosciuta e da riconoscere, è l’amore e anche la tenerezza – oltre che la competenza – che l’autrice infonde in questo lavoro e che rende la lettura scorrevole e fonte di ispirazioni.
Non si delega la lotta, così come non ci sono margini di civiltà quando questa si traduce in costante discriminazione, da qui un esodo dal patriarcato e nuove forme dell’abitare: “Siamo uscite di scena e la scena non c’era” e ancora per citare Carla Lonzi: “La forza dell’uomo è nel suo identificarsi con la cultura, la nostra nel rifiutarla”.
La sottrazione ad una dialettica di potere può far molto, può generare nuove forme in ogni ambito del reale e soprattutto pone le basi per una costruzione dell’immaginario nuova: dove l’eresia è nell’occhio di chi guarda. Edito da Nottetempo Edizioni, Giulia Siviero imbastisce un testo che permette di orientarsi molto bene e che nulla nasconde, non c’è retorica, basti vedere la copertina di Argelia Bravo in cui si vede una donna incappucciata che allatta, un augurio a nutrire il nuovo.

Da angeli del focolare si tramutano in agli del ciclostile.

Quando e perché è nata l’idea di costruire ciò che è oggi “Fare femminismo” ?
Ragionavo su come mi facesse sentire essere, nuovamente, sulla soglia dei femminismi. Mi sono formata in una comunità filosofica femminista legata all’Università di Verona, in un momento in cui i movimenti stavano ricominciando a uscire dall’accademia per occupare le piazze. E poi mi sono ritrovata tra le strade, le assemblee, i cortei di Non Una di Meno e un femminismo che, oggi, mi sembra fatichi a tessere relazioni, ad agire e ad esserci con il corpo: una sorta di megafono affollato di slogan, come scrivo nel libro, una sorta di femminismo fantasmatico che mentre fa divulgazione, spesso e purtroppo, capitalizza a uso personale le istanze più radicali del movimento. Di fronte al disagio verso questo rimasticamento avevo il desiderio di tornare alle storie, ai testi ma soprattutto alle pratiche, il cui racconto è spesso rimasto ai margini e che i femminismi, distinguendosi dagli altri movimenti politici, hanno saputo cambiare in modo dinamico e inventivo, spostando l’asticella sempre più in alto, immaginando e facendo cose che sembravano impossibili. Tutto questo, però, non con un intento nostalgico o per fare un’operazione di archeologia: per rimettere al mondo, con un uno sguardo verso ciò che sarà, gli orientamenti e gli strumenti che ci arrivano dal passato.

Una storia del femminismo non diacronica, ma plastica, che muove dal fare e dalla topologia di azioni messe in campo. Come hai imbastito il tuo studio in tal senso?
Nel libro ci sono storie dalla storia del femminismo e storie dai movimenti delle donne che non si sono dichiarate femministe ma che, in relazione con altre, hanno agito in uno spazio pubblico. Le ho messe una accanto all’altra in base alla risonanza, trovando associazioni impreviste, spesso senza coesione e con molte sbavature, senza seguire un ordine cronologico. Ho scelto però di parlare da un posizionamento ben preciso e di ciò che conosco meglio, non rinunciando a fare qualche incursione in altri spazi e in altri luoghi, con l’aiuto di compagne e amiche con le quali spesso mi confronto: Ludmila Bazzoni, che ha scritto un bellissimo libro sulle madres argentine di Plaza de Majo (“La vida venciendo a la muerte”, L’Iguana editrice), Mackda Ghebremariam Tesfaù che si occupa di studi decoloniali, o Irene Villa che nel suo “La minaccia color lavanda. Il lesbismo nella teoria femminista e queer” approfondisce i dibattiti sul lesbismo all’interno della teoria e dei movimenti femministi. Sono consapevole, infine, che la mia mappatura non è esaustiva, ma non pretende nemmeno di esserlo.

“Le parole hanno il potere di ancorarsi ai corpi, alla vita, di aprire il senso e spostarlo”, si legge in apertura del tuo libro. Sono tornata più volte sul primo capitolo, che apre la narrazione con felicità, tenerezza, amore, speranza, centratura, creatività e libertà. Parole queste che non sono quasi mai discussione politica. Cosa ne pensi?
Non lo sono, è vero, ma chi fa femminismo, chi attraversa quello spazio vivo, presente e pieno di desiderio sa bene come la felicità sia una delle misure del movimento. Sa come quella relazione politica sprigioni energie e creatività. La femminista argentina Veronica Gago lo racconta bene. Dice come durante il primo sciopero internazionale organizzato da Ni Una Menos l’8 marzo del 2017, nella Giornata della donna, avevano sentito la terra tremare sotto i loro piedi. Usa proprio quest’espressione. E racconta come, di notte, insieme avessero parlato, scritto, cospirato e sognato, mentre le compagne in altre parti del mondo stavano facendo la stessa cosa: «Eravamo elettrizzate da uno strano senso condiviso di rabbia e complicità, di potenza e urgenza». E proprio lo sciopero non solo consente di rifiutare un intero modo di vivere, di sospendere quelle azioni che confermano gli stereotipi del patriarcato, ma dà la possibilità di liberare energia e tempo per immaginare un’alternativa, per pensare ad altre forme di esistenza, ascoltando i propri desideri. Il femminismo intende la politica non come governo dell’esistente, non come uno spazio in cui si condiziona la libertà, ma come uno spazio in cui ci si prende cura delle condizioni perché la libertà ci sia. E la libertà, come la intende parte del femminismo, non ha mai sostituito le parole alle cose, resta aderente alla vita, è trasformativa di sé e del mondo. Ha intimamente ha che fare con sé e con il mondo. È qualcosa di grandioso e commovente.

Alle donne è chiesto un fare consono, gentile, adeguato al genere ed ogni azione che esula o ha esulato da questa cornice è stata stigmatizzata, punita, derisa. Alcune di queste azioni sono state da stimolo per fare rete e per muovere persone. Quale delle azioni/iniziative prese ti ha più colpito e ispirato nella tua narrazione?
La parte che amo di più del libro è quella che ha a che fare con il conflitto. Con le pratiche che, di fronte all’uso violento del potere, non rinunciamo alla forza, rifiutano la pacificazione, esplorano la sfida e la disobbedienza. E respingono il galateo dell’oppressione stabilito dagli oppressori, mettendo in scacco coloro che pretendono civiltà di fronte al suo esatto contrario. Questa radicalità è secondo me necessaria nonostante abbia storicamente spaccato il movimento, fin dagli inizi, a partire dalle suffragiste: non solo per quanto riguarda le pratiche ma anche nella lettura della realtà. Un pezzo di femminismo si è dato come obiettivo quello di scalare le strutture patriarcali pensando che fossero emendabili. Un’altra parte di femminismo pensa che il sistema patriarcale vada rovesciato. E visto che le strutture di oppressione e di violenza sono spesso la legalità quel che serve va oltre la via legale. La contrapposizione al sistema deve essere dunque radicale, non controllabile e, come dicevano le suffragiste “non si possono far frittate senza rompere le uova”. Le Rote Zora tra gli anni Settanta e Novanta nella Repubblica Federale Tedesca, dicevano invece che la lotta “non deve fermarsi ai limiti posti dallo Stato: deve continuare a “minacciare la tranquillità nel cuore della bestia”. Disimparare a non battersi e fare il funerale alla femminilità tradizionale la cui costruzione si basa su una serie di codici comportamentali fatti di mansuetudine, docilità, buona educazione, pace e pacificazione è già di per sé una leva per la liberazione. Non agire con tutta la forza necessaria ha finito invece per diventare funzionale alla neutralizzazione delle stesse pratiche femministe e dei loro contenuti.

Il fare: il fare delle donne e dei movimenti: questo fare nasce dalla presa di coscienza e ha azioni e reazioni diverse. Quale tipo di azione credi sia quella che debba caratterizzare la nostra contemporaneità?
Direi l’autogestione, su una serie di questioni con cui storicamente possiamo oggi fare i conti. L’aborto innanzitutto, che è oggi la più urgente. Pensiamo agli Stati Uniti, con il rovesciamento della Roe v. Wade, alla Polonia che ora, con il nuovo governo, sta provando a intervenire di nuovo sull’aborto per renderlo accessibile. Possiamo citare anche l’Ungheria, dove da mesi le donne che vogliono abortire sono obbligate a sentire il battito cardiaco del feto. E poi c’è l’Argentina di Milei che ha presentato una proposta per abrogare la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, approvata nel dicembre 2020 dopo una grande mobilitazione dei movimenti femministi. Infine, c’è l’Italia. La presidente Meloni ha negato che qui ci siano problemi di accessibilità all’interruzione di gravidanza, difende l’obiezione di coscienza, mette sullo stesso piano la libertà di abortire e quella dei medici di fare obiezione. I femminismi hanno ovunque riempito le piazze, negli ultimi anni (perché va anche considerato ciò che non è stato fatto prima di Meloni) e hanno preso parola per contrastare tutto questo. Penso però che accanto alla rivendicazione o alla difesa di un diritto vada recuperato il pensiero di parte del femminismo degli anni Settanta che praticava il rovesciamento dell’esistente e superava o tentava di superare i confini e i termini già dati della politica: cosa succede nella mediazione con le istituzioni? Non si è dimostrata sempre al ribasso? Bastano delle “buone leggi” se poi le cose non cambiano realmente a livello sociale e materiale? Una politica femminista basata solo su richieste rivendicative non pone le donne e le altre soggettività sempre in una situazione di debolezza e precarietà? Credo che vada riaperta la questione su quali siano i nostri obiettivi e le nostre pratiche e credo anche che la direzione indicata da alcune azioni femministe radicali degli ultimissimi anni come la riappropriazione di spazi o l’apertura di consultori autogestiti possa essere buona ed efficace.

Uno dei fili rossi di Fare femminismo è il non chiedere diritti, ma prendere e costruire i diritti dove servono e bisognano. Cosa devono prendersi oggi le donne e la comunità, e cosa rischiano di perdere?


Molto. I corpi delle donne e delle soggettività che si discostano dalla cosiddetta norma non hanno mai smesso di essere un campo di battaglia perché sono sempre stati e restano corpi sovversivi: sono dunque un bersaglio, ma anche uno strumento per fondare politiche identitarie e razziste. L’attacco viene oggi da più parti, capaci di allearsi: dalle destre radicali e dagli integralismi religiosi. Ma ci tengo a dire una cosa: non dobbiamo cedere a un pensiero molto diffuso che legge la nostra realtà come se si trattasse di un ritorno al passato o di un ritorno al Medioevo. Come se si trattasse dunque semplicemente di andare avanti o indietro sulla linea del tempo. Quella a cui assistiamo oggi è un’ondata reazionaria, una risposta reattiva per rimettere le donne al loro posto, quelle donne e quelle soggettività che hanno violato i valori familiari tradizionali o la legge divina, che hanno scardinato un’autorità paterna che ora si vuole invece riaffermare. Leggere il tutto come un semplice ritorno al passato non solo non spiega la situazione, ma toglie peso e valore al lavoro decennale dei movimenti femministi. E ci fa dimenticare quanto siamo potenti.

Come mai hai scelto di chiudere con le Madres de Plaza de Mayo? C’è un viatico di vita incubata e di memoria tramandata?


Il libro ha una donna con il passamontagna che allatta il cambiamento, si apre con mia madre e si chiude con le Madres argentine il cui slogan “l’impossibile tarda solo un po’ di più” mi sembra luminoso. Quando nelle loro famiglie irrompe la scomparsa dei loro figli e delle loro figlie, queste donne si aprono a una nuova relazione con il mondo, escono di casa, fanno la loro comparsa nella storia, trasgrediscono e allo stesso tempo aggrediscono non solo la legge degli assassini, ma anche quella dei padri. E mentre parte del femminismo dichiara che le donne si debbano liberare dalla procreazione, loro collocano la maternità al centro della lotta e della dimensione pubblica: rimettono in gioco quella funzione materna tanto esaltata dalla retorica della dittatura e la ribaltano, la moltiplicano, la portano all’eccesso facendosi politicamente madri di tutti e di tutte. Soprattutto, e mi sembra necessario sottolinearlo oggi che è in corso il genocidio del popolo palestinese, dimostrano che può esistere un altro tipo di memoria. La memoria delle madres vuole restare viva, aperta, dinamica, non si ripiega su se stessa, ma fa posto a tutti, rivive in ogni blocco stradale, in ogni mobilitazione, in ogni richiesta di giustizia, in ogni giovedì che ancora oggi trascorrono in piazza dando voce e sostegno a lotte altre, decentrando da sé il dolore e la sofferenza che hanno subito affinché non colpisca più nessuno e nessuna. Ho lasciato fuori dal libro la storia del movimento delle donne palestinesi, perché mi sembrava che non meritasse di essere una storia tra le storie. Ma c’erano loro nei pensieri, quando raccontavo la memoria delle madres.

Portare fuori dal domestico, fare luce e farne narrazione in ogni luogo possibile. Cosa immagini del tuo libro tra 10 anni?


Non lo so, ma ti posso dire quello che in alcune città ha cominciato ad accadere, a partire dal libro: una discussione nei collettivi a partire dalla cassetta degli attrezzi che quelle storie ci forniscono per capire, nei differenti contesti, quali potrebbero essere le pratiche più efficaci o praticabili nel presente.

Come è nata la collaborazione con Nottetempo?


È stato uno dei motivi per cui mi sono decisa a scrivere un libro. Sono stata contattata da Alessandro Gazoia, in un momento in cui ero molto perplessa su quanto potesse essere interessante entrare in uno spazio così affollato di pubblicazioni “femministe”: mi sembrava politicamente più significativo non scriverlo, continuare ad andare nelle scuole e a fare bene il mio mestiere. In quel periodo stavo pensando, con alcune amiche e compagne, di organizzare una scuola popolare di femminismi, da portare in giro, per tornare ai testi, superare i limiti del femminismo mainstream. E la mia “lezione” si sarebbe dovuta concentrare proprio sulle pratiche. Alessandro mi ha fatto capire che quella mia intuizione valeva una sosta e la casa editrice mi ha sostenuta e continua a farlo con cura e determinazione: dall’editore a chi si occupa di organizzare gli incontri, da chi ha corretto le bozze a chi segue i social e l’ufficio stampa. Nottetempo è una casa editrice indipendente, cosa molto importante per me, che dà voce e carta a chi ha voglia di aprire spazi critici e di stare nella complessità. Tutto questo ha risuonato, in me. E con loro, confermo che si sta bene.

Hai già in mente altre pubblicazioni?

Sì, vorrei tornare, in questo tempo di genocidio, a lavorare sul concetto di memoria da una prospettiva femminista.

Una città
Napoli

Un viaggio
Argentina, in piazza con le madres

Un pasto
Potrei vivere di fichi, tzazichi, pasta al pomodoro e gorgonzola.

Un odore
I tigli e quello di ricottina fresca delle mie bambine appena nate

Un regalo
Del tempo liberato

Un libro
Le tre ghinee, di Virigina Woolf

Un brano musicale
Sto ascoltando a ripetizione It’s All Over Now, Baby Blue cantata da Marianne Faithfull

Un colore
Rosso

Un nome
Quello che avrei voluto dare, ma: Tempesta.

Fare Femminismo lo trovate qui:
https://www.edizioninottetempo.it/it/fare-femminismo

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