Maria Occhipinti: i luoghi, le voci, la memoria. In dialogo con Gisella Modica e Serena Todesco

 

a cura di Ivana Margarese

 

 

A distanza di oltre vent’anni dalla morte, la figura e l’opera di Maria Occhipinti (1921-1996), scrittrice, poeta, attivista politica e pensatrice siciliana, riverberano dentro e attraverso i numerosi dibattiti che animano la contemporaneità: dalla dicotomia tra guerra e pacifismo ai diritti civili e alla differenza sessuale; dalle identità locali e nazionali alle sfide della globalità e alla ricerca di nuove pratiche per affrontarla.
(dalla Introduzione di Gisella Modica e Serena Todesco)

Nel novembre 2021, alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, per iniziativa di Gisella Modica e Serena Todesco, la Società Italiana delle Letterate sostiene  l’organizzazione di una giornata dedicata a “Maria Occhipinti, Una donna del Sud”, con interventi di Marilena Licitra Occhipinti, Nadia Terranova, Adriana Chemello, Maria Attanasio, Maria Rosa Cutrufelli, Gisella Modica, Elvira Federici, Maria Grazia Calabrese e Serena Todesco.  Dagli incontri e dai dialoghi di questa giornata prende forma questo libro, frutto di un lavoro di cura, collaborazione e scambi, sia intellettuali che affettivi, tra donne di diversa età e provenienza sociale e culturale, accomunate dal desiderio di tenere vive, attraverso il ricordo di Maria, le testimonianze di chi l’ha conosciuta e amata, le riflessioni di chi ha potuto e voluto mescolare il proprio vissuto alle sue tante parole dette e scritte.

Questo libro nasce a seguito di una giornata organizzata in collaborazione con la Società Italiana delle Letterate in onore di Maria Occhipinti nel 2021, anno in cui cadeva il centenario della nascita di questa siciliana atipica, capace di sfuggire a ogni etichetta. Sulla scorta dunque nel convegno, che si è svolto a Roma alla Casa Internazionale delle Donne, il volume si propone di celebrare i luoghi, le voci, e la memoria di questa autrice. Vi chiederei innanzitutto di parlarmi del progetto iniziale che avete avuto in mente e delle sue evoluzioni, tenendo conto anche del fatto che è un libro corale che racchiude differenti punti di vista.

Gisella: La mia prima motivazione è il sentire: leggendo i suoi testi, in particolare “Una donna di Ragusa”, sentivo nel mio intimo che in Maria c’era molto altro e molto più di quanto era stato e continuava ad essere detto di lei o recensito.

Maria esprimeva qualcosa di molto intimo, profondo, di cui negli anni settanta, quando l’ho conosciuta, non avevo ancora preso consapevolezza. Maria esprimeva altro – non solo attivista rivoluzionaria, non solo pacifista, non solo donna del sud, non solo migrante. Aspetti poliedrici della cui esistenza ero testimone in quanto l’avevo vista agire, l’avevo ascoltata in presenza, avevo visto soprattutto come guardava le stelle. Lei possedeva qualcosa di cui ero alla ricerca; che aveva a che fare con la mia emergente crisi di militante della sinistra di fronte al suo eccessivo positivismo/laicismo e alla postura rivendicativa; cosa che avrei col tempo scoperto non risparmiare nemmeno il femminismo nel quale ero transitata. Un’assenza di trascendenza, una mancanza di respiro cosmico, di mistero nei confronti della vita e della natura, da cui mi sento tuttora soffocare. Sentivo che Maria incarnava tutto questo ma mi mancavano le parole per dirlo e per trasmetterlo. Mi mancava la condivisione di pensiero e del sentire con qualcuno … fatto della mia stessa pasta, per così dire. Qualcuno che potesse accogliere i miei non detti, dargli parola e rilanciarli. Finché non ho incontrato Serena. Ho capito che Serena, sebbene avesse la stessa età di mia figlia, era la persona giusta per condividere questo viaggio avventuroso alla scoperta dell’altra Maria, liberarla dal velo dello stereotipo di “popolana-del sud-ribelle” e fare memoria dell’amore, nostro e di Maria, per il sud e per le sue donne. E per la (sua) scrittura. Non è possibile scindere il progetto e le sue evoluzioni dalla relazione tra Serena e me. Non eravamo alla ricerca di una diversa critica letteraria sull’autrice, piuttosto ci interessavano i rimandi di Maria sulle nostre vite. Capire perché Maria riusciva ancora ad emozionare. Insieme abbiamo cercato altre compagne d’avventura che, partendo dal proprio vissuto, raccontassero degli stessi rimandi.

Serena: L’idea è nata da una serie di scambi casuali, sempre più articolati e appassionati. Ci siamo in qualche modo trovate a confrontare le nostre rispettive letture delle parole di Maria, soprattutto cercando di capire se e come desideravamo delineare un percorso di memoria a partire dall’occasione del centenario dalla nascita. Forse sarà stata complice la pandemia, con i suoi periodi di isolamento casalingo e momenti di interiorità quasi forzata, ma ho sentito di aver ricevuto una boccata di aria nuova dal confronto con Gisella, un confronto che stavo già cercando, nello stesso periodo (metà-fine 2020), trovandomi immersa nella correzione del mio libro a due voci con Maria Rosa Cutrufelli.

Il dibattito inter-generazionale era così ben presente in me. Si radicava la mia convinzione di voler cercare fuori e di andare all’indietro nel tempo – un tempo di femminismo passato, che aveva preceduto la mia nascita – per capire questa figura così potente e articolata e darle un contesto più organico e meno “eccentrico”; questo proprio perché ero e sono ancora convinta che Maria Occhipinti faccia parte a pieno diritto di una pratica che informa ma anche eccede rispetto al femminismo in senso stretto. Avevo letto Una donna di Ragusa all’epoca del dottorato (2008), ma sicuramente parlare di Occhipinti con Gisella mi ha aiutato a riqualificare la mia riflessione sui suoi testi, incluse le poesie, che sino a quel momento non conoscevo.


Seguendo la linea degli intrecci, il testo si conclude con una sezione fotografica anticipata da un capitolo dedicato alle parole intrecciate tra voi a partire da Maria. Questo colloquio compone un piccolo dizionario di termini considerati chiave nel pensiero e nelle pratiche di Occhipinti. Vi chiederei di raccontarmi qualcosa in merito.

Gisella: Le parole intrecciate raccontano proprio di questo, dell’intreccio tra Serena e me, senza il quale il libro non sarebbe nato; delle sensazioni appena affiorate e ancora prive di forma, scambiate su WhatsApp, dei nostri sogni durante la ricerca e del ruolo che Maria aveva in tutto questo.

La ricerca delle parole chiave – femminismi, classe, empatia, non violenza – ci hanno aiutate, per quanto mi riguarda, a meglio definire e individuare quei passaggi attraverso i quali meglio si rivelava ai nostri occhi l’eccentricità, la radicalità, l’imprevisto, l’attualità del pensiero di Maria, tali da rendere impossibile classificarne la sua personalità poliedrica. Ci hanno aiutato a individuare dov’era esattamente il punto della sua scrittura in cui Maria “prendeva il volo”, distanziandosi da tutte noi. Come una sciamana Maria era capace di muoversi al di sopra di questo mondo ma con le radici ben piantate, come un carrubbo, il suo “albero della vita”, nella terra del sud; ben radicata nel proprio corpo, il cui motore è il cuore che, ci insegna Zambrano, arde come una fiamma e fa da guida nell’oscurità; e ben piantate anche nella propria classe subalterna, contadina, emancipandosi da questa senza cadere nello stereotipo di sinistra di “guida del popolo” o di avanguardia alla conquista di diritti, bensì guidata dall’empatia, dalla compassione, per chiedere giustizia nei confronti degli ultimi. Come una sciamana Maria era capace di tenere insieme i vivi e i morti, il reale e il magico, facendosi ponte tra i differenti mondi; capace di vedere al di sotto della superficie delle cose, di affrontare dolorosi viaggi interiori nel buio dell’animo umano alla ricerca, come una guaritrice, di “erbe” simboliche, in primis l’amore, per curare la comunità e impedire la reciproca smarginatura, che De Martino chiama “perdita di presenza”.

Serena: quelli che tu giustamente chiami ‘termini chiave’ sono parole-guida che ha soprattutto enucleato Gisella, inviandomi poi una serie di preziosi messaggi vocali che mi hanno aiutata a organizzare i pensieri per imbastire quel nostro dialogo. Prima dell’editing, la conversazione cui tu fai riferimento si trovava all’inizio, fungeva da introduzione. Ma sono grata ai suggerimenti del comitato scientifico della collana ‘Terzo paesaggio’ (in particolare a Sergia Adamo), perché in effetti funziona molto meglio in posizione conclusiva. Le parole vorrebbero riassumere una serie di nodi problematici a partire dai quali l’esperienza di lettura di Occhipinti diventa anche un movimento che la attualizza e la inserisce in un discorso sincronico sulle pratiche del femminismo sociale e materialista, oltre che intersezionale. C’è da dire che, durante la stesura del libro, in me si era sempre più andata formando la convinzione di uno scollamento tra le molte pensatrici e teoriche che avevo letto e i conflitti laceranti interni al femminismo italiano odierno; volevo capire, ma mi sentivo anche sconfitta e delusa dal carattere inconcludente di certi proclami, che sentivo svuotati. Devo dire che Occhipinti agisce in me come un balsamo, perché mi permette di interrogare lo stesso femminismo della differenza al quale mi sento tutt’oggi più vicina e, al tempo stesso, mi aiuta a sciogliere un altro nodo che mi sta a cuore – e che secondo me manca del tutto nel dibattito femminista attuale – ossia la questione della classe. Forse sbaglierò, e qui ci sarebbero molte cose da dire, ma le istanze woke abbracciate da un certo transfemminismo italiano, per esempio, non contemplano in modo limpido questo aspetto. Trovandomi io stessa spesso in grosse precarietà materiali, ho sentito più vicina la parola di una donna come Occhipinti, per la quale la giustizia sociale e l’uguaglianza tra i soggetti restano al primo posto.

In Una donna di Ragusa Maria Occhipinti scrive: “Cosa volevo cosa cercavo nessuno poteva capirlo, ma a me mancava la musica la poesia l’arte. Avevo fame di queste cose e non sapevo dirlo […] volevo amare come una regina, vestirmi come una dea, girare il mondo […] facevo quei sogni meravigliosi forse perché la realtà era molto diversa… dovevo fare la fila per l’acqua alla fontana […] badare al forno e dedicarmi al cucito e al bucato”.
Mi piacerebbe farvi una domanda sul desiderio inteso anche come spazio di legittimazione del proprio sentire e guardare il mondo. Ho sempre immaginato Maria Occhipinti come una donna forte, determinata, e capace di desideri, e probabilmente recuperando la nota etimologia della parola, che l’avvicina alle stelle, mi sono figurata ci fosse in lei qualcosa di romantico, di idealista, di impossibile da domare fino in fondo. Sulla scia di questo vi chiederei di parlare della vostra “intima” immagine di Maria Occhipinti.

Gisella: A muovere l’agire di Maria era la ricerca di relazioni, consapevole della vulnerabilità degli esseri umani, e della loro interdipendenza, condizione necessaria alla sopravvivenza. Era soprattutto il desiderio di trascendenza e al contempo di libertà. Un desiderio, quest’ultimo, “spropositato”, oltre, fuori luogo e fuori dal mercato e dalla mercificazione. Come quello della vecchina raccontata da Luisa Muraro, che voleva comprare al mercato lo schiavo Yusuf offrendo in cambio gomitoli di lana. Per questo tipo di desiderio Muraro usa la parola “soprammercato”. Un invito a non essere moderati e ad agire fuori dalla linea dritta, priva di contraddizioni e di slanci del luminoso sol dell’avvenire. L’unica per imparare a volare, scrive la filosofa. Relazioni, trascendenza, desiderio inappropriato, compassione servono a “non ammalarsi”. Aiutano noi e la comunità a non “smarginare”.
In questo senso considero Maria una “guaritrice”. L’immagine che mi suscita è dunque di una figura “inclinata”, che accetta il rischio di sporgersi, di aprirsi empaticamente all’altro. Ma anche di una figura che vola, come la Llorona in sella a un destriero selvatico descritta da Anzaldúa, la quale, spinta dall’amore, così come per pari intensità dal dolore, oltrepassa i confini per poi posizionarsi nel mezzo tra uno stato e l’altro. Nel caso di Maria è da intendersi sia in senso letterale – tra un continente e l’altro, in continuo transito – sia metaforico – tra reale e sognato, mente e corpo, mondo e sottomondo.

Serena: Tra i vari momenti di una Maria Occhipinti meno apertamente ‘ribelle’ (ed è ora che si smetta di farle aderire addosso solo lo stereotipo di ‘popolana’ esagitata), mi viene in mente la prima parte della sua autobiografia, dove parla del rapporto con la lettura, in particolare dei Miserabili di Victor Hugo. Grazie al suo linguaggio evocativo, ho potuto visualizzare benissimo il movimento interiore di una ragazzina estremamente povera che trova una sorta di ‘Via di Damasco’ in un libro che parla di ingiustizie sociali, malintesi, crudeltà assortite, perdite tragiche, riscatti di vita. Ho l’impressione che proprio il suo rapporto con la parola narrata si sia raffinato e abbia permesso una sua maturazione intellettuale a partire da quel primo, rivoluzionario gesto di lettura e riflessione.

Maria Occhipinti non è stata sempre bene accolta. Nel libro lo dite apertamente. Tuttavia fu importante nella sua vita e nel suo lavoro di scrittura l’amicizia con Adele Cambria, donna anche lei eclettica e originale. Mi piacerebbe parlarne con voi.

Gisella: Dell’amicizia tra Cambria e Maria so quello che ho letto sui giornali e dalle interviste rilasciate dalla figlia di Maria, Marilena Licitra. So che Cambria – diversamente dalle altre femministe che frequentavano il centro La Maddalena, negli anni settanta, e dove la stessa Cambria aveva introdotto Maria – l’accolse e l’aiutò a farla conoscere scrivendo di lei nei maggiori quotidiani dell’epoca. Forse perché, diversamente dalle altre femministe, anche Cambria era calabrese, una donna del sud, e conosceva per esperienza la differenza che corre tra il ribellarsi da parte femminile, i prezzi da pagare, al sud piuttosto che al nord; conosceva per cultura e posizionamento politico la differenza tra i bisogni e le priorità – in primis la giustizia – di chi proveniva dalla classe dei poveri, il suo carattere ostinato, la schiettezza, e la classe agiata borghese del femminismo romano. Era consapevole dello scarto incolmabile di esperienza di vita e di dolore di Maria rispetto alle altre. La definiva “Minerva uscita dalla testa di Giove” e nel video di Luca Scivoletto confessa che le femministe non invitavano Maria agli incontri “perché ci stendeva tutte”. È lo stesso disagio che io ho provato quando, provenendo dal mondo contadino e da una casa popolare in un quartiere periferico della città, sono entrata nelle lussuose case di via Libertà per fare autocoscienza. Ma io non avevo la grinta di Maria, né la sua esperienza. Mi sentivo inferiore, fuori luogo, quasi mi vergognavo, e non trovavo mai niente di adatto da indossare per quelle occasioni. Questo è stato un altro dei motivi per cui sentivo che Maria “mi apparteneva”.

Serena: L’amicizia tra Maria Occhipinti e Adele Cambria somiglia, per molti versi, al rapporto affettuoso che la stessa Cambria ebbe con un’altra grande scrittrice siciliana, ovvero Goliarda Sapienza. In entrambi i casi, il ruolo di Adele fu quello di lettrice attenta, di mediatrice presso diversi circuiti del femminismo, ma anche di filtro presso ambienti che, per motivi diversi, sia Occhipinti sia Sapienza non frequentarono mai volentieri, opponendo forme di resistenza e di autonomia di pensiero. Per Occhipinti, anche a causa di un’appartenenza generazionale, il femminismo si era ben presto trasformato in un movimento riservato alle donne borghesi, dunque contrario a quell’universalismo di giustizia sociale fondamentale per la sua visione del mondo. Detto questo, il rapporto con Cambria diede non pochi frutti in termini di visibilità della scrittura di Occhipinti: basta pensare che, grazie all’insistenza dell’amica, Maria Occhipinti partecipò con Una donna di Ragusa al premio Brancati-Zafferana nel 1976 (la stessa Cambria gareggiava con Amore come rivoluzione – La risposta alle lettere dal carcere di Antonio Gramsci (Sugarco 1976), mentre Goliarda Sapienza era in giuria. Sempre per tramite di Cambria, al suo ritorno dagli Stati Uniti Occhipinti venne in contatto con alcune rappresentanti del femminismo romano e comparve persino sulla copertina del primo numero di Effe, come ho accennato nel mio saggio. Il fatto che queste relazioni tra scrittrici – tra donne di diversa estrazione, formazione, percorso di vita – abbiano toccato diversi ambiti, da quello artistico all’alleanza politica, mi fa pensare a un’epoca assai più interconnessa di quella odierna, dove le donne di ceto e formazione diversi esercitavano forse maggiore curiosità e un più spiccato pensiero critico, senza le polarizzazioni a cui assistiamo oggi.


Qual è a vostro parere la memoria di Maria Occhipinti oggi? Ritenete possibile introdurre il suo lavoro letterario a scuola e se sì da che tipo di angolazione?

Gisella: Dal mio punto di vista nell’immaginario collettivo Maria continua ad essere vista, recensita e inquadrata all’interno della “questione femminile meridionale e del suo riscatto”, giudicandola una testimone ribelle, avanguardia e protagonista privilegiata. Punto. A sinistra pesa ancora la questione irrisolta dei “Non si parte” e viene vista ancora come una sorta di traditrice. Il femminismo l’ha scoperta non da molto e, soprattutto tra le giovani, sembra prevalere l’aspetto legato alla sua autodeterminazione, di donna combattiva.
In merito alla scuola non ho sufficienti competenze non essendo un’insegnante, ma penso che il suo desiderio “spropositato” di libertà personale non disgiunto da quello collettivo di giustizia sociale potrebbe essere l’angolazione giusta che può fare da guida per le nuove generazioni.

Serena: Sicuramente il lascito di Occhipinti potrebbe inserirsi in un contesto scolastico che si voglia dedicare alla memoria delle donne siciliane da recuperare e valorizzare. Dal punto di vista letterario, la sua scrittura offre inoltre diversi spunti di riflessione rispetto alla capacità di costruire un io in divenire, costantemente pronto a rilanciare un impegno sociale e un’analisi interiore. Però c’è di più: le domande di Maria sono fortemente connesse a un desiderio di universalismo, a un moto di rivolta e di riscatto per gli ultimi, gli emarginati, i discriminati della Storia. Studiare a scuola affrontando una prospettiva singolare sul Meridione a partire da Maria Occhipinti offre, a mio parere, una vastità di orizzonti impensata dai programmi attualmente proposti. Non so, penso a una questione di classe, oltre che di genere: nelle memorie di Occhipinti ritroviamo, ma con occhi nuovi, alcuni ‘attraversamenti’ che evocano pagine di Sciascia, o di Gramsci: il ruolo subdolo del potere, la crudeltà delle diverse chiese di fede politica o religiosa, l’ineguaglianza tra classi oppresse da forme di egemonia e privilegi… Leggendo Occhipinti ci rendiamo conto, in maniera direi plastica, di quanto molta della mentalità conservatrice vigente in Sicilia provenga dall’aver ignorato e marginalizzato le classi bracciantili e rurali, così come quelle operaie. Quando Maria parla, si esprime anche a nome loro. Capire la sua ribellione – e studiarla a scuola! – significa comprendere in modo più organico e intellettualmente onesto che cosa è mancato nella politica italiana per affrontare i problemi delle diverse classi proletarie del Sud.

Siamo tutte e tre siciliane come la stessa Maria Occhipinti, come Concetta la Ferla (a cui tu, Serena, fai un cenno nel tuo saggio). Si può ancora affermare che l’isola, che il Sud, offrano le potenzialità di uno sguardo dal margine?

Gisella: Decisamente sì. Tutta la vita di Maria, attraverso la sua scrittura incarnata, lo dimostra. Viandante per scelta, piuttosto che migrante, ha girato il mondo per rendersi conto di esso, guardandolo sempre dal margine geografico di Ragusa, da dove in modo scioccante e imprevisto è partita la sua presa di coscienza della divisione del mondo in classi – i ricchi coi ricchi, i poveri coi poveri – scegliendo di stare dalla parte dei marginali “le pezze che vanno per aria”: carcerati, neri, omosessuali, malati terminali, operai. La visione dal margine, dove gli estremi si toccano, crea uno sdoppiamento di visione, connettendo mondi differenti apparentemente contrapposti. Una visione potremmo dire attraverso un “occhio terzo” che guarda al contempo all’interno e all’esterno. Come lo sguardo di Maria. Riporto in proposito un passaggio di un bellissimo libretto “Della città d’argilla” (Mesogea 2012), di un’altra donna del sud che porta lo stesso nome, Maria Attanasio. Parla di Caltagirone, suo paese natale, marginale quanto Ragusa, “fatto di creta e di dialetto”.

“Ogni tanto mi chiedo quale sarebbe stata la mia storia, se il mio orizzonte esistenziale fosse stato di marmo o di cemento”.

Ecco, mi piace immaginare che lo abbia pensato anche Maria.

Serena: Per come la vedo io, il ‘margine’ è un concetto esportabile, se dotato della giusta storicizzazione e se si cerca di accorciare la distanza tra noi e il testo. Mi spiego: se si legge Maria con attenzione, si riesce a calarsi nella sua realtà marginale, nell’epoca in cui lei ha vissuto in povertà, diventando una paria, subendo pregiudizi di ogni tipo. Ragionare a partire dal suo margine, dalla sua esperienza, già di per sé restituisce un Sud, una Sicilia, diversi da quelli di altri scrittori che non hanno saputo altrettanto bene dare corpo a una critica del divario di classe. Al tempo stesso, ritengo che il margine di Occhipinti possa servire a riconfigurare il nostro rapporto con il Meridione, spesso ammantato dalla retorica del lamento o del fatalismo. Maria contrappone tali automatismi, seppure in modi a volte ingenui e parziali, perché non si accontenta mai e vuole giustizia per sé e per le persone a cui tiene. Poi, c’è da dire che la Sicilia è, in primis, un luogo per lei assai traumatico, uno spazio segnato dal rifiuto familiare, come testimoniato per molti anni dalla sua amata sorella minore Rosina (purtroppo venuta a mancare pochi mesi fa, dopo una vita trascorsa a onorare la memoria della sorella). L’isola di Maria non è, forse, un luogo di possibilità ritrovate, bensì di fantasmi, di lotte proseguite altrove. Un altrove da cui però si può ripartire – la Sicilia vera, forse, quella più amata, lei non l’ha mai lasciata, portandosela dietro e tramandandola alla figlia e a noi che leggiamo le sue pagine.

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