Donna Haraway: Manifesto delle specie compagne. Cani, persone e altri partner.

a cura di Ivana Margarese

 

 

 

Clarice Lispector, autrice speculativamente profonda e originale, racconta nel romanzo Il lampadario di una donna di nome Virginia che sin da bambina possiede  il “talento dei mondi possibili” e una naturale affinità col mondo animale: “Sapeva anche imitare il verso degli animali, a volte di animali che non esistevano ma avrebbero potuto esistere. Erano voci nascoste, rotonde nella gola, ululate, oltraggiate e piccolissime. Sapeva anche emettere richiami acuti e dolci come di animali sperduti. Ma all’improvviso le cose precipitavano in una realtà solida”.

Mi affido alla visione poetica di Lispector per introdurre Manifesto delle specie compagne. Cani, persone e altri partner (2023) di Donna Haraway e accedere attraverso la visionarieta  della letteratura alla consueta lucidità e ironia della filosofa statunitense. Il Manifesto delle specie compagne è nelle dichiarazioni di Haraway “un documento personale, un’incursione accademica in territori troppo spesso sconosciuti, un atto politico di speranza in un mondo sull’orlo di una guerra globale e un lavoro costantemente in corso.”
La storia che viene raccontata riguarda soprattutto i cani, cani in carne e ossa, capaci di riattivare una molteplicità di connessioni e di racconti, ma riguarda anche  le relazioni con le specie compagne, categoria che comprende, oltre gli animali da compagnia, le api, i tulipani, la flora intestinale, il paesaggio. Anche la storia del paesaggio è viva e si compone delle relazioni polimorfe tra persone, animali, piante, acqua, terra e rocce.

Queste relazioni parlano di legami naturali e culturali, di fatti e racconti: “vivere con gli animali, abitare le loro/nostre storie, cercare di dire la verità su queste relazioni, coabitare una storia attiva: questo è il compito delle specie compagne, per le quali “la relazione” è la più piccola unità di analisi possibile”. Importante anche sottolineare come le storie che vengono fuori da questi intrecci non siano sistematiche ma si basino su fondamenti contingenti: “in questo manifesto, come nella vita delle naturculture, le parti non si sommano mai per formare un “intero”.
In una parte del testo intitolata “Storie d’amore” Haraway prende le distanze dall’abitudine di attribuire ai cani un amore incondizionato o di trattarli come fossero figli. Entrambe le prassi sono infatti a parer suo dannose all’interno della nostra cultura consumistica contemporanea, che alimenta il narcisismo. Haraway sottolinea come gli amori terreni si nutrano piuttosto del piacere di condividere con un essere diverso, con pensieri, sentimenti, reazioni e bisogni diversi dai nostri:

La chiave di tutto consiste nell’accettare che non è possibile conoscere né se stessi né l’altro, ma che bisogna interrogarsi costantemente su chi o cosa stia emergendo da una relazione specifica. Questo vale per tutti coloro che amano veramente, a qualunque specie appartengano. Alcuni teologi descrivono i pregi della via negativa per accedere alla conoscenza di Dio: dato il carattere infinito di Colui/ Ció che è, un essere mortale finito come l’essere umano può solo pronunciarsi, pena l’idolatria, su quel che non è; ossia, su ciò che non dipende da una proiezione del proprio io. Questo tipo di conoscenza negativa ha anche un altro nome: amore. Credo che queste considerazioni teologiche siano strumento efficace anche per comprendere i cani, in particolare per riuscire a entrare in una relazione che, come quella dell’addestramento, merita il nome di amore. Penso che ogni forma di relazione etica, all’interno di una specie o tra specie diverse, sia tessuta  di quel robusto filo di seta che è la continua tensione verso l’alterità in relazione.

Lo stare in relazione non comporta che si abbia davanti un modello ideale o che nel caso in cui non si risulti conformi si venga abbandonati senza rispetto e responsabilità ma implica piuttosto la capacità di sporcarsi le mani, di affrontare rischi, di generare parentele inedite. Bisognerebbe allenare la nostra capacità di entrare in relazione senza per forza essere al centro dell’azione, potenziando le capacità di toccare, odorare, ascoltare e comprendere che “sentire” non è solo sentire umanamente, che le parole non sono solo quelle del linguaggio verbale. Come scrive Jacob von Uexküll, bisognerebbe coltivare la capacità di capire come altri esseri nel mondo costruiscono il loro ambiente per entrare in relazioni di proliferazione condivisa [co-flourishing]. Nuovi modi di rappresentare gli animali comportano l’adottare nuove pratiche, le due cose non sono separabili. Ecco che stringere alleanze a partire dalle relazioni più vicine, come quelle con gli animali che vivono con noi, ci insegnano a capire cosa significhi per questi animali e per gli animali vivere, anche a prescindere dalle nostre narrazioni delle loro vite.
Generare parentele con le specie compagne implica per Haraway la promessa di prendersi cura delle generazioni che verranno, non solo dell’adesso. Significa assumersi la responsabilità di tutto quello che la complessità del vivere e morire condiviso comporta. È un modo per impegnarsi adesso a diventare più responsabili, è “un atto politico di speranza”.

No Comments

Post A Comment