Ancora Luce. Quel che Luce Irigaray ha ancora da dire su felicità e democrazia

Di Elisabetta Imperato

 

“Coltivare la felicità per noi e tra noi: è il nostro primo dovere democratico”. Con queste parole Luce Irigaray iniziava la sua conversazione nell’ambito del festival Filosofia, domenica 23 settembre 2001, a Modena, nella Chiesa Auditorium della Fondazione Collegio San Carlo.
L’intervento della filosofa costituiva la seconda parte di un dibattito con Giacomo Marramao sul tema “Differenza e cittadinanza”.
Alla base del pensiero di Irigaray era forte la convinzione che la “democrazia cominciasse a due” e che nel rapporto uomo donna andasse ricercata la modalità d’accesso ad un nuovo concetto di democrazia, rispettoso innanzitutto delle differenze, a partire da quelle fondamentali di genere.
Non c’è democrazia senza condivisione, diceva Irigaray: Abbiamo imparato a condividere una terra, dei sogni, ma non noi stessi, né il desiderio che nasce nella differenza. Abbiamo pervertito il desiderio nella logica dell’appropriazione e del competitivo, riducendolo alla ricerca del “proprio” e così annullandolo. Ma l’essere in relazione è la strada maestra degli uomini e delle donne. La prima distinzione al mondo è quella di genere, maschile e femminile, perché universale. Non gerarchica, né totalitaria, né integralista.
La stessa differenza nei diritti positivi, accolti dalle varie costituzioni della terra, è innanzitutto una differenza nel modo di ordinare la differenza di genere (matrimonio, proprietà, genealogia), differenza che non si riduce alla differenza dei corpi. Il corpo stesso è incluso in questa differenza, come la lingua che parliamo/ci parla.


E, nel corso di quel lontano incontro, Irigaray riportava a titolo esemplificativo alcuni dati raccolti durante un’esperienza fatta nelle scuole elementari dell’Emilia Romagna. Invitati alunni e alunne a scrivere alla lavagna frasi con termini chiave (con, insieme, io e lui, io e lei, amare, condividere) emergeva una vistosa differenza: i ragazzi erano portati a scrivere frasi in cui la relazione era con un oggetto o con altri maschi (io amo il gioco del calcio, io e i miei amici ci divertiamo molto), le ragazze prediligevano la relazione con l’altro genere (io amo Marco, io e lui ci amiamo). I ragazzi utilizzavano più frequentemente il verbo odiare, le ragazze tendevano alla relazione tra diversi. E Luce, in quel contesto, individuava alcune parole chiave dell’universo femminile:


-intersoggettività
-relazione non gerarchica
-Condivisione

Sono ancora attuali oggi, a distanza di oltre vent’anni queste considerazioni? Gli studi sulle alterità sono andati avanti nella individuazione di altre/molteplici forme di differenza che superano quelle di genere ma pensiamo che alcune acquisizioni della Irigaray abbiano fornito le basi di successivi sviluppi. Viviamo ancora in una società patriarcale. È patriarcale la lingua che ci parla perché “parlare non è mai neutro”. Per realizzare una vera rivoluzione nelle relazioni umane bisogna ancora incamminarsi lungo una via negativa. È questo il senso del pensiero della differenza. Rivolgendosi all’altro Luce dice: Non voglio superarti né voglio essere integrata a te ma mantenere la dualità tra noi.

Solo nello spazio che ci divide scopriamo una trascendenza orizzontale. Amo a te: è il titolo di un bel libro di Luce dedicato al compianto Renzo Imbeni. Il significato di quella “a” che si frappone tra il mio amore e te sottolinea tale trascendenza, collocando la relazione oltre la logica dell’appropriazione. Praticare questa negatività, diversa da quella che Hegel concepiva, è un atto politico. È la strada della felicità e al tempo stesso il primo passo per la rifondazione di una democrazia universale. E ancora, la filosofa avvertiva: “Mai costruire un assoluto, né un uno. Bisogna mantenere aperto lo spazio non appropriabile della relazione. La negatività non superabile consente la condivisione, che impone un doppio limite: quello del mio corpo e del tuo”.


Gli interessi multidisciplinari di Luce provengono da studi di filosofia, linguistica, psicologia,
letteratura e psicoanalisi.
Dall’esperienza di scrittura con Renzo Imbeni a un codice di cittadinanza europeo, nasceva il libro “Amo a te”, in cui le parole della politica venivano declinate secondo quelle dell’intersoggettività e delle concrete relazioni umane. Politica e felicità, dunque, unite come all’origine della paideia occidentale, nella tradizione greca. Ma in un senso profondamente diverso da quest’ultima. Un senso che si apre a culture altre, alle discipline orientali, allo yoga, alla ricerca inesauribile che tocca il linguaggio e i corpi, che guarda alla pratica quotidiana, privata e pubblica, delle relazioni umane. La democrazia comincia a due, scriveva Irigaray in un testo pubblicato in Italia nel 1994, mentre la relazione Uno-molteplice è tipica delle dittature.


Il sottotitolo di “Amo a te, “Verso una felicità nella storia”, annunciava una direzione di ricerca. E non è un caso che la figura per antonomasia della felicità, come sottolineava Salvatore Veca in un precedente incontro, sia l’amore, che per definizione si fa in due.
Mi era piaciuto ritrovare tra le lezioni e le conversazioni tenute a Modena tra il 21 e il 23 settembre di quell’anno lontano, un filo conduttore, uno tra i tanti possibili. Poteva aiutarmi ad attraversare un po’ più attrezzata concettualmente il labirinto della storia, che, come è stato scritto da molti, dopo l’11 settembre ha subito una accelerazione improvvisa, restituendo a tutti noi l’esperienza tragica dello shock, che credevamo almeno a casa nostra irripetibile, della catastrofe e della morte. E allora che senso ha oggi, in una congiuntura ulteriormente disorientante, parlare di felicità? Cosa può la filosofia rispetto alle “idiosincrasie identitarie”, all’odio e all’enorme potere autodistruttivo che abbiamo coltivato e accumulato? Cosa può rispetto alle perverse leggi e allo strapotere dell’economia che determina in gran parte la politica di un mondo sempre più piccolo, apparentemente senza confini ma attraversato da correnti non più sotterranee, da guerre inimmaginabili, tensioni e fratture?
La felicità, diceva Remo Bodei, è fragile, precaria, improgrammabile, esposta ai contraccolpi della fortuna, vulnerabile sul piano privato e minacciata su quello pubblico. Mostra vie divergenti per individui e culture. I terroristi sono a loro modo felici. Tra morte e felicità sembra esistere una forte ripugnanza. Ma non è così. L’idea del sacrificio è presente, in forme diverse anche nella nostra cultura cristiana. “Amor mortis Conturbat me”, scriveva S. Ignazio di Loyola. Dopo un lungo periodo di privatizzazione del futuro è in atto oggi una inversione di tendenza. Si diffonde, attraverso forme che possono essere tragiche, la percezione che il futuro riguardi di nuovo tutti. E non ha più senso contrapporre una felicità privata a una felicità pubblica.
Dislocata per lungo tempo nell’utopia, in un non luogo (da Platone a Tommaso Moro ed oltre), la felicità è stata spazializzata, identificata in isole felici dove si giunge per caso, come per un naufragio. Alle utopie geografiche si sono poi sostituite quelle temporali, le ucronie. La felicità nel futuro, dentro la storia. È questo il senso delle utopie politiche, di sinistra e di destra. Di quelle progressiste e di quelle totalitarie. Nel marxismo l’utopia incontrava la storia, definendone il senso e la meta.
Ma nel gesto assurdo che ha portato la morte con la morte, l’11 settembre del nuovo secolo, lo sguardo dei terroristi (non certo quello dei mandanti) era forse diretto più verso l’alto che verso l’avanti. L’utopia si scardinava dalla storia per legarsi a una rinascita religiosa (R. Bodei).
E allora come parlare oggi di felicità? Felicità per chi e per che cosa? E dove? Nel futuro, nell’immaginazione, nei paradisi artificiali e non?
La felicità, diceva Bodei, oggi più che mai si gioca su tutte le ruote e ciò accentua il ruolo del caso. Come per il lotto, si tratta di un’economia di rapina, di un gioco di piccolo cabotaggio.

Ma una felicità privata per definizione è incompleta. Solo la democrazia, reinterpretata anche alla luce delle odierne vicende, può aprire qualche spiraglio. Riscoprire ciò che è comune implica apertura e alterità, non proprietà e appartenenza. La libertà oggi è risucchiata nel meccanismo immunitario della sicurezza e la felicità rischia di essere ridotta alla pura salvaguardia della vita biologica. L’immunologia ci preserverà dal contagio? Vale la pena vivere chiusi in una fortezza assediata? “La peste” di Camus, dal Covid in poi, è sempre più metafora della vita.
All’uomo, però, è data una possibilità. Quella di ripensare la felicità collegandola alle alterità e alle molteplici differenze che attraversano il mondo e noi stessi. La stessa soggettività è relazione (inclinazione, direbbe Adriana Cavarero). Ogni soggetto porta in sé diversi sé. La nostra identità è qualcosa di relazionale e non sostanziale. È un concetto che risale a Hume. E l’alterità, in epoca di espianti di organi, di protesi e trasfusione, non è una semplice metafora. E non ha a che fare solo con i concetti dell’analisi transazionale. Bisognerebbe ripensare l’identità di ogni soggetto alla luce di queste considerazioni, perché il conflitto più pericoloso resta quello tra identità alternative. Paradossalmente, il conflitto è minore quando si condivide la stessa metrica. Il conflitto di interessi non è un vero conflitto. Perché i due confliggenti sono in concorrenza per appropriarsi di qualcosa a cui entrambi assegnano il significato di bene. Bisogna ancora ripartire dall’idea del plurale e della differenza, ma estenderlo oltre i confini di genere.
A tale proposito, andrebbe riletto lo scritto di Morin sui saperi necessari all’educazione del futuro, nell’epoca dell’incertezza e della complessità. Per riflettere sulla condizione umana e sull’identità terrestre, sulla storia creatrice e distruttrice, sull’unità e la diversità, sull’importanza centrale del comprendere, più che del conoscere, che deve essere oggetto di educazione oggi. E bisognerebbe ripensare sul serio all’unità multipla del globale-locale, riconducendola al tema del destino planetario dell’umanità, la sola cifra, unitaria e molteplice, delle felicità possibili.

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