13 Nov Pensare come Medea. Cosa ci insegnano le donne del mito. In dialogo con Bianca Sorrentino
a cura di Ivana Margarese
la foto di Bianca Sorrentino è di Fabrizio Intonti
Pensare come Medea. Cosa ci insegnano le donne del mito sulla nostra vita arriva dopo il tuo Pensare come Ulisse: Che cosa gli antichi possono insegnarci sulla nostra vita, edito sempre da Il Saggiatore. Quale esigenza ti ha guidata a scriverlo e da quanto tempo stavi pensando a questo libro?
Mi piace ripetere che rivolgersi all’antico non significa non essere cittadini di questo tempo: ci sono sollecitazioni del contemporaneo che invitano a una presa di coscienza indifferibile.
Nei miei lavori, esprimo le mie posizioni attraverso il linguaggio del mito: quando scrivo, per esempio, di Filomela e della sua lingua tagliata da colui che aveva abusato di lei, non posso non pensare al silenzio imposto oggi alle donne afgane, a cui è fatto divieto di parlare nello spazio pubblico e persino di cantare. Per quanto nella nostra parte di mondo siano stati compiuti numerosi passi avanti in tema di diritti, è opportuno da un lato presidiarli e ribadirne l’inderogabilità, restituendo alla voce del femminile la centralità negata per millenni, dall’altro porre con spirito critico questioni rispetto alle quali è tempo che la società si confronti senza cedere a pose e approssimazioni. A quest’urgenza civile, si accompagna poi quella spinta che da anni mi anima e che riguarda la devozione verso la letteratura, nella convinzione che un ritorno al testo possa liberarlo dai fraintendimenti con cui il tempo ne ha opacizzato la forza. Pensare come Medea è in questo senso il prodotto della ricerca di una vita.
Il libro si propone come un testo corale in cui prendono voce varie figure mitologiche femminili con al loro seguito le scritture e riscritture che le hanno raccontate. Un invito a uno sguardo caleidoscopico che non pretende di esaurire queste donne in un’unica narrazione. Proprio del mito, sottolinei, è la multiformità che coglie le sfumature e non riduce a una sola funzione. Mi pare che in questo ci sia anche la possibilità di allenare la visione a una complessità che non si accontenta di uno sguardo monoculare. Mi piacerebbe una tua riflessione in merito.
In un tempo che sembra continuamente esortarci all’appiattimento e che ci abitua al pensiero binario, ragionare contemplando le sfumature diventa rivoluzionario. La molteplicità, a ben vedere, appartiene al racconto del mito sin dalla sua origine, caratterizzata dalla numerosità delle versioni che già nell’antico circolavano per la natura stessa della tradizione orale cui erano affidate; esiste poi un multiforme legato alla riscrittura letteraria, alla fantasia degli autori che dall’età classica fino ai giorni nostri hanno voluto contribuire al potente spettacolo del mondo con un verso, il loro, e che sono intervenuti sull’archetipo capovolgendolo o illuminandone le zone d’ombra; infine vi è una complessità relativa al discorso sul femminile, che deve essere valorizzata affinché non si cada nel tranello che riduce le donne alla loro funzione. Non solo madri, figlie, sorelle, quindi, ma anche madri che tolgono la vita che loro stesse avevano donato, figlie che disobbediscono, sorelle che non sono all’altezza della misura eroica della loro famiglia; non solo muse, ma anche amanti, figure cioè che del sentimento divengono soggetto; non solo interpreti di stereotipi, insomma, ma creature complesse e irriducibili, in grado di levarsi in piedi e pronunciare con convinzione la propria vibrante unicità. Una grande ispirazione per seguire il proprio daimon, la propria forza interiore, e per iniziare a osservare il mondo con occhi nuovi, liberandoci cioè da quelle lenti che fanno apparire l’universo in bianco e nero.
Il titolo di questo tuo lavoro fa riferimento a una delle figure mitologiche femminili più difficili e invise, colpevole del peggiore dei delitti, Medea, e addirittura esorta ad avere il coraggio di pensare come lei. Potresti spiegarmi meglio questa scelta.
Prima di compiere il suo delitto, Medea è una ragazza che non ha paura di abbandonare la sua famiglia e il mondo che conosce per correre incontro alla sua storia; è la maga che accetta di abdicare ai suoi poteri quando abbraccia la nuova vita; è la moglie che onora il patto d’amore scambiato con Giasone e che crede alla promessa di civiltà con cui la Grecia la avvince; è la barbara che si esprime una lingua che non è la sua, vincendo ogni confronto dialettico con chi è greco di nascita; è la straniera ripudiata, costretta a trovare sostegno per il suo futuro; è la dea ex machina di se stessa che, a bordo del carro del Sole, vola libera e indomabile, mentre noi restiamo inorriditi di fronte al suo scandalo. Continuiamo a fraintenderne la tragedia, credendo che la sua radice sia nel figlicidio, che era invece presso gli antichi circostanza accettata, a patto che ad attuarla fosse il padre. La colpa di Medea stanell’aver osato comportarsi come un uomo. L’eroina si ribella al mondo greco che l’ha delusa e tradita, lo rovescia e, infine, al pari di una divinità terribile e potente, lo abbandona, pagando tuttora il prezzo di incarnare lo spettro di una società, quella greca, che nutriva un’angoscia profonda nei confronti di quelle figure indomite che avrebbero potuto mettere in crisi l’ordine costituito.
Ho amato molto il capitolo intitolato “Ismene. Sorelle che non sono all’altezza” perché è un invito a un cambio di prospettiva e al contempo a un concetto di sorellanza in cui le differenze non sono uniformate. Potresti parlarmene?
Spesso, quando parliamo di femminile, inneggiamo in modo vago alla sorellanza oppure invochiamo la solidarietà tra donne, quasi queste fossero formule magiche da brandire per risolvere i conflitti; quest’abitudine sembra non tenere conto, però, della natura controversa del rapporto sororale, perché è proprio nella diversità, e per certi versi anche nella rivalità, che risiede il suo vero potere trasformativo. A mio avviso, dovremmo rivalutare in questo senso il concetto di «concordia discorde» incarnato dalla coppia del mito Antigone‑Ismene, sapendo che non c’è l’una senza l’altra: da una parte, lo slancio eroico, che però è questione di un istante; dall’altra, la resistenza e la flessibilità che la vita, nel suo aspetto durativo, richiede. Accanto alla forza e al coraggio, inevitabilmente ci saranno momenti di vigliaccheria e indecisione. Il mondo ha bisogno che Antigone trasgredisca, per tenere sveglia la nostra coscienza, ma ha bisogno anche di figure come Ismene, innamorate a tal punto delle sorelle eroine da sorreggerne la carica rivoluzionaria , difendendone la natura ribelle così dissonante rispetto alla propria, e allo stesso tempo critiche abbastanza da demitizzarle, liberandole cioè da fantasiose deformazioni che ne distorcono l’essenza.
Anche quando parli di Nausicaa riesci a restituire un personaggio composito che non può essere esaurito solamente nella ragazza sognante che si invaghisce di Ulisse. Riporti una frase da lei pronunciata nell’Odissea in cui emerge tutta la fierezza di questa giovane donna: “Sii felice, straniero, e quando sarai nella tua terra ricordati di me, perché a me per prima devi la vita”. Come racconteresti tu Nausicaa?
Basta una sola frase a farle acquistare uno spessore che la consegna all’eternità, perché osa convocare la categoria della memoria: a Ulisse, Nausicaa chiede esclusivamente di essere ricordata, oltre ogni lontananza. In una civiltà che riscatta dall’oblio solo gli eroi che si siano resi protagonisti diimprese gloriose e che alle donne si limita a prescrivere la ricetta dell’attesa, la fanciulla del mito inventa con il suo dire un nuovo modo di restare.
Nausicaa risplende nella sua abbacinante purezza: non ha ancora scoperto il possibile, non ha mai aperto finora la sua finestra sulle stanchezze, le delusioni, le angosce, la paura del nulla che incombe con il suo velo nero.Nel Novecento, i poeti faranno risuonare il suo nome dentro il grido di un gabbiano (Walcott) o la trasfigureranno dentro la metafora di un risarcimento, il simbolo dell’amore per la vita (Bufalino); ma Nausicaa è innanzitutto una creatura terrena, dotata di un corpo, di una volontà e di un destino. Se cambiare il mondo non è possibile, esserne cambiati è inevitabile: la ragazza non potrà invertire il corso degli eventi, ma recherà dentro di sé la tracciaindelebile lasciata dall’approdo del naufrago. Solo l’imbattersi nell’altro da sé le consentirà di diventare ciò che è.
Ti faccio infine una domanda sul valore dell’autenticità e delle imperfezioni a cui questi racconti mitologici, per quanto resistenti al tempo quasi fossero sempre eterni o sempre attuali, sembrano rimandare.
Ci aspettiamo che la letteratura abbia un intento edificante, che ci offra modelli irreprensibili ai quali ispirarci e certezze rassicuranti capaci di consolarci; l’arte ha invece il compito, questo sì irrinunciabile, di indagare l’umano, anche nella sua dimensione più turpe e scandalosa.
Attraverso il teatro, il mito, la poesia, abbiamo l’opportunità di illuminare zone oscure che sono in agguato dentro ognuno di noi, ma che ci rifiutiamo di vedere e che, proprio perché ignorate, potrebbero inghiottirci da un momento all’altro, trascinandoci in un abisso senza ritorno. Sapere che quelle tenebre non minacciano esclusivamente gli altri, ma ci riguardano in prima persona, ci offre un’occasione di crescita e di conoscenza irripetibile, a partire dalla quale rivolgersi al Bene diventa davvero una scelta consapevole e matura. Medea, sulla scena di Corinto, deve uccidere i propri figli innocenti affinché noi ancora oggi possiamo accorgerci delle nostre debolezze più turpi e prenderne poi convintamente le distanze. Queste eroine tragicamente imperfette fanno risuonare con forza una voce altra, incarnando la possibilità della differenza e, soprattutto, la complessità della polifonia che è la vita, e che l’arte deve restituire se vuole rappresentarla.
No Comments